“Cercasi commesse”: quando l’associazione in partecipazione non è genuina

In tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili di impresa risiede nel contesto regolarmente pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio di impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25158, depositata il 14 dicembre 2015. Il caso. Il Tribunale di Lecco accertava nei confronti dell’INPS la natura subordinata dei rapporti intrattenuti da una società con alcuni lavoratori, principalmente impiegati come commessi e formalmente regolati da contratti di associazione in partecipazione per la gestione di negozi. La Corte d’Appello di Milano, rigettando l’appello proposto dalla società, rilevava la carenza dei requisiti tipici di tale contratto esistenza di un rischio economico anche per l’associato e possibilità di quest’ultimo di esercitare un controllo sulla gestione dell’impresa e la sussistenza, invece, di tutti i cd. indici rivelatori della subordinazione esercizio dei poteri direttivo e disciplinare da parte della società, obbligo per i lavoratori di rispettare un orario di lavoro imposto e di giustificare le proprie assenze, retribuzione fissa e garantita, slegata agli utili dell’attività commerciale . Infine, la Corte territoriale aveva evidenziato che i lavoratori non avevano mai visto i bilanci o i documenti contabili della società e che, con riferimento al rendiconto annuale, il datore di lavoro aveva predisposto solo un riepilogo del punto vendita che riportava il totale delle vendite e la quota spettante all’associato, carente di ogni informazione circa i costi e i ricavi. Irrilevanza del nomen juris. Una delle censure mosse dalla società alla sentenza di secondo grado riguarda la mancata valutazione della sussistenza di contratti di associazione in partecipazione stipulati dalle parti, la cui corrispondenza con le mansioni in concreto svolte sarebbe stata confermata dai testi. Sul punto la Suprema Corte ha ribadito che in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato, pur avendo indubbio rilievo il nomen iuris usato dalle parti, occorre accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione. La riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice di merito – volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti – il cui accertamento, se adeguatamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità. Il controllo sulla gestione dell’impresa come requisito di genuinità dell’associazione in partecipazione. La Corte di Cassazione ha ribadito che è carattere essenziale dell’associazione in partecipazione la conoscenza da parte dei lavoratori dell’andamento economico dell’azienda, sia attraverso i documenti contabili sia attraverso il rendiconto annuale. Nel caso di specie, dall’istruttoria era emerso che gli associati avevano una conoscenza del solo andamento degli affari nel singolo negozio su cui venivano calcolati i compensi mentre non vi era alcun controllo sull’andamento dell’azienda neppure con limitazione al punto vendita perché mancava qualsiasi informazione sui costi, sull’andamento finanziario e sugli utili dell’esercizio.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 ottobre – 14 dicembre 2015, n. 25158 Presidente Roselli – Relatore Bronzini Svolgimento del processo Il Tribunale di Lecco con sentenza n. 113/2007 accertava - nei confronti dell'INPS - la natura subordinata dei rapporti intrattenuti con alcuni lavoratori dalla RC18 Import-Export Gianni Cadace spa che aveva stipulato contratti di associazione in partecipazione per la gestione di alcuni negozi. La Corte di appello di Milano con sentenza del 2.7.2009 rigettava l'appello della società. La Corte territoriale riteneva che il primo Giudice avesse correttamente valutato, sulla base delle prove documentali e testimoniali, la prevalenza nelle modalità di attuazione dei rapporti intercorsi tra la società ed i commessi, degli elementi che caratterizzano il rapporto di lavoro di tipo subordinato. La Corte ricostruiva l'orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine agli elementi caratterizzanti un rapporto di associazione in partecipazione, in particolare l'esistenza di un rischio economico anche per l'associato e un controllo dell'associato sulla gestione dell'impresa e ricordava che il Giudice di prime cure aveva accertato, nel caso in esame, l'esistenza di un potere disciplinare e organizzativo dell'assodante più ampio di quello generico d'impartire direttive di carattere generale. I lavoratori erano stati selezionati con annunci sui quotidiani ed assunti dopo una selezione e un periodo di lavoro nel quale avevano svolto attività di lavoro occasionale con patto di prova, istituto tipico del lavoro subordinato. I lavoratori sentiti come testi avevano dichiarato di avere ricevuto direttive sull'allestimento e sulla conduzione del negozio da parte del sig. F. . Erano stati osservati turni ed effettuati vari controlli da parte del F. era necessaria l'autorizzazione per ottenere ferie e permessi. I lavoratori erano privi di ogni potere di controllo sulla gestione dell'attività ed avevano svolto mansioni esecutive di semplici commessi. Non esisteva un rischio economico alcuni testi hanno dichiarato di non aver mai veduto bilanci o documenti contabili della società e di avere percepito una retribuzione commisurata al ricavo dei negozio. Anche il F. aveva dichiarato di aver predisposto solo i rendiconti annuali con il riepilogo del punto vendita ove avevano operato in concreto gli associati che riportava il totale delle vendite e la quota spettante all'associato quindi i lavoratori non avevano conoscenza dell'andamento economico dell'azienda anche limitatamente al punto vendita nel quale avevano operato , mancando di ogni informazione sui costi e sui ricavi, né c'era un vero rischio di impresa in quanto la retribuzione a percentuale non era calcolata sugli utili di esercizio, come previsto nei contratti, ma sui ricavi delle vendite, con un minimo garantito anche in caso di assenze nel periodo. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la società con 4 motivi resiste l'INPS con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo si allega l'insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. La Corte di appello non ha ritenuto decisive le formulazioni dei contratti stipulati tra le parti perché non corrispondenti allo svolgimento di fatto i testi avevano invece confermato che le previsioni contrattuali avevano avuto riscontro nell'effettivo svolgimento del rapporto. Il motivo appare infondato in quanto correttamente la Corte di appello ha ritenuto decisivo l'effettivo svolgimento del rapporto e non la sua qualificazione formale procedendo ad un esame di tale concreto svolgimento, il che appare conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte cfr. Cass. n. 9264/2007 Cass. n. 1917/2013 Cass. n. 2015/2015 . Una volta ricostruita la dinamica di svolgimento dei rapporti non necessariamente in contrasto con le previsioni contrattuali la Corte di appello ha valutato se si trattasse di un genuino contratto di associazione in partecipazione alla luce degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Non sussiste pertanto la denunciata carenza motivazionale. Con il secondo motivo si allega l'insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Gli elementi utilizzati dalla Corte di appello per ritenere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e non in partecipazione non erano idonei a comprovare la tesi seguita dalla Corte di appello. Alcuni testi peraltro non avevano confermato le circostanze riportate in sentenza. Il motivo appare infondato. Secondo le stesso motivo la Corte di appello avrebbe valorizzato le seguenti circostanze reperimento delle personale attraverso annunci del tipo cercasi commesse direttive sull'allestimento e sulla conduzione generale del negozio da parte del sig. F. , sempre presente nel negozio e poi presente settimanalmente ricezione ogni 15 gg. di direttive per l'allestimento, predisposizione di turni da osservare in negozio e controlli anche a sorpresa necessità di autorizzazioni per ferie e permessi e richiami per ritardi o per lamentale dei clienti. Tali elementi costituiscono certamente sicuri indizi della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato perché dimostrano un'ingerenza assai incisiva del l'associante nell'attività degli associati che venivano di fatto controllati nei tempi e nelle modalità della prestazione eccedendosi di molto la mera potestà di emanare direttive ed istruzioni di carattere generale che rientra pacificamente nei poteri dell'assodante. Peraltro la Corte di appello ha anche aggiunto la mancanza di un rischio economico la retribuzione non era percepita come previsto nei contratti in relazione agli utili di esercizio, ma sui ricavi delle vendite, con un importo minimo garantito anche in caso di assenze per l'associato ed anche di un controllo degli associati sul risultato economico dell'impresa non solo alcuni testi hanno dichiarato di non aver mai visto bilanci e documenti contabili, ma è emerso dalle stesse dichiarazioni del consulente contabile della società che venivano predisposti solo rendiconti annuali dei punti vendita con la sola indicazione del totale delle vendite per cui i lavoratori non avevano alcuna contezza dell'andamento economico dell'azienda costi, utili di esercizio, andamento finanziario , neppure limitatamente al punto vendita ove operavano. La motivazione appare congrua e logicamente coerente le censure appaiono di mero fatto e dirette ad una rivalutazione del fatto , come tale inammissibile in questa sede e non offrono una ricostruzione organica ed esaustiva delle dichiarazioni dei testi idonea a dimostrare che la Corte di appello abbia mal valutato le prove. Giova riportare per esteso, comunque, la motivazione di una recentissima sentenza, che si condivide pienamente, di questa Corte in un caso pressoché identico nella quale gli elementi prima ricordati sono stati ritenuti decisivi per la qualificazione del rapporto questa Corte ha affermato in più occasioni che, in tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato, l'elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d'impresa risiede nei contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione da parte dell'associato, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall'art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni Cass. 28 gennaio 2013 n. 1817 Cass. 28 maggio 2010 n. 13179 Cass. 22 novembre 2006 n. 24781 Cass. 19 dicembre 2003 n. 19475 . È stato altresì più volte affermato che in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato, pur avendo indubbio rilievo il nomen iuris usato dalle parti, occorre accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione cfr., per tutte, Cass. 24 febbraio 2011 n. 4524 . La riconducibilità del rapporto all'uno o all'altro degli schemi predetti esige un'indagine del giudice di merito - volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti - il cui accertamento, se adeguatamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità Cass. 8 ottobre 2008 n. 24871 Cass. 12 gennaio 2000 n. 290 . Nella specie la Corte territoriale, nell'escludere la sussistenza dei dedotti rapporti di associazione in partecipazione, ha fatto corretta applicazione di tali principi, sulla base di una serie di considerazioni desunte dal tenore dei contratti di associazione in partecipazione stipulati dalle parti, dagli altri documenti acquisiti nonché dalle dichiarazioni degli stessi associati. In particolare la Corte anzidetta ha accertato - che gli associati osservavano un regolare orario di lavoro, coincidente con quello di apertura e chiusura del punto vendita - che essi non erano a conoscenza delle spese del punto vendita e non prendevano visione del bilancio - che non vi era un rendiconto di gestione ed era altresì assente qualsiasi forma di controllo da parte degli associati sulla gestione della società - che i rendiconti depositati dalla società e consegnati ai lavoratori, invece di riportare gli utili, indicavano i corrispettivi mensili conseguiti dal singolo negozio come risultanti dal registro IVA - che gli associati erano soggetti al controllo dell'assodante, al quale dovevano comunicare quotidianamente a mezzo di personal computer gli incassi e rimettere gli stessi, prevedendosi nel caso di ritardo ingiustificato la risoluzione del rapporto - che l'assodante decideva la tipologia delle merci, il prezzo e le promozioni - che in caso di assenza gli associati dovevano darne comunicazione all'assodante - che durante le ferie, organizzate dagli stressi associati, costoro venivano regolarmente pagati che l'ingresso di altre persone veniva deciso unilateralmente dall'assodante, senza il consenso degli associati, in violazione dell'art. 2550 c.c. - che la retribuzione era costituita da una percentuale sugli utili del singolo negozio, costituiti dalla differenza tra costi e ricavi, forfettariamente calcolati, e non già sugli utili dell'impresa ai sensi dell'art. 2549 c.c. - che tale calcolo era definitivo, non risultando che venissero effettuati conguagli - che la retribuzione corrisposta mensilmente non era mai al di sotto di un certo importo, sì da far ritenere la ricorrenza di un minimo garantito , provato peraltro dalla produzione dell'INPS, dalla quale, a fronte di un fatturato nullo vengono riconosciute somme corrispondenti a quelle percepite di norma - che tutto ciò comportava l'assenza di rischio da parte degli associati - che, infine, in base al contratto, l'assodante in caso di inadempienza dell'associato quale, ad esempio, il ritardo ingiustificato nel versamento degli incassi quotidiani poteva non rinnovare il contratto semestrale, circostanza questa che portava a ritenere che l'associato fosse sottomesso al potere disciplinare dell'assodante e che fosse altresì privo di ogni tutela, essendo tale facoltà oltre che insindacabile rimessa alla mera discrezionalità dell'assodante. Alla stregua di tali argomentazioni, non si ravvisa nella sentenza impugnata il denunziato vizio di motivazione, avendo la Corte di merito compiutamente spiegato le ragioni della decisione con una motivazione congrua, coerente e priva di vizi logico-giuridici, resa sulla scorta di accertamenti di fatto e vantazioni incensurabili in questa sede. A ben vedere i ricorrenti, nel criticare detta decisione, chiedono sostanzialmente un riesame della vicenda, senza considerare che il ricorso per cassazione non introduce un terzo giudizio di merito tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia dei vizi previsti dall'art. 360 c.p.c Deve in proposito ricordarsi che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo dell'omissione, insufficienza o contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione Cass. n. 2015/2015 . Con il terzo motivo si allega la violazione dell'art. 2549 attraverso la verifica del volume di affari relativo ad un singolo negozio come pattuito nei contratti i lavoratori, percependo una percentuale dell'incasso, controllavano anche l'andamento del negozio e la quota spettante loto. Il terzo motivo appare infondato. Risulta dalla sentenza che, al più, gli associati avevano una conoscenza del solo andamento degli affari nel singolo negozio su cui venivano calcolati i compensi e quindi, come sì finisce con l'ammettere nello stesso motivo, non vi era alcun controllo sull'andamento dell'azienda neppure con limitazione al punto vendita perché mancava qualsiasi informazione sui costi, sull'andamento finanziario, sugli utili di esercizio. Con l'ultimo motivo si allega l'insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Era legittimo il patto che correlava i compensi ad una percentuale dei ricavi il rischio a carico dei lavoratori associati esisteva comunque perché gli associati arrecavano un apporto personale che solo in parte veniva recuperato dal compenso spettante. Anche l'ultimo motivo appare infondato. In primo luogo la doglianza non appare decisiva avendo la Corte territoriale fondato la sua decisione con riferimento alte modalità organizzative della prestazione, alla mancanza di un controllo sull'andamento dell'azienda ed infine sull'assenza di un rischio economico. Il motivo censura solo quest'ultimo aspetto e quindi il suo accoglimento non potrebbe portare alta cassazione della sentenza posto che i due primi elementi appaiono sufficienti per la conferma della sentenza . In ogni caso appare evidente che gli associati nel caso in esame non pativano alcun rischio economico visto che il loro compenso era correlato agli utili e che godevano di un trattamento minimo, anche in caso di assenza. Quindi non solo non sopportavano eventuali perdite, ma neppure una riduzione del compenso in caso di assenza, oltre un certo minimo. Non può, peraltro, accedersi alla tesi di parte ricorrente a meno di non rendere evanescente il concetto di rischio economico e stemperarlo nel generico interesse a che l'azienda abbia successo, interesse che sussiste anche nel regime del lavoro subordinato posto che il lavoratore rischia comunque la perdita del posto di lavoro o la messa in cassa integrazione, ove prevista, in caso di difficoltà dell'impresa. Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite - liquidate come al dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 100,00 per esborsi, nonché in Euro 3.500,00 per compensi oltre accessori come per legge.