Anche il patteggiamento giustifica il licenziamento senza preavviso

Ove una disposizione del contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso, il Giudice di merito può, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. di patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. Ciò non esonera il giudice dal valutare l’idoneità della condotta del lavoratore a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro, ma tale indagine – che deve essere compiuta alla luce dei parametri dell’intensità dell’elemento intenzionale, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore ed al numero e gravità delle condotte addebitate allo stesso – se è esente da vizi logici, è insindacabile in sede di legittimità.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24828, depositata il 9 dicembre 2015. Il caso. Un dipendente dell’Agenzia delle Entrate era stato colpito da ordinanza di custodia in carcere, poi tramutata in arresti domiciliari, in quanto imputato dei reati di concussione art. 317 c.p. , falso materiale art. 476 c.p. e falso ideologico art. 479 c.p. e aveva patteggiato una pena di oltre un anno e undici mesi di reclusione. Successivamente il lavoratore era stato licenziato senza preavviso e aveva impugnato il licenziamento, che era stato ritenuto legittimo sia in primo grado che in appello. Tra i vari motivi di ricorso per cassazione il lavoratore ha censurato la sentenza della Corte territoriale sostenendo l’insufficienza della sentenza di patteggiamento ai fini della responsabilità disciplinare, deducendo peraltro che non era stata svolta istruttoria sufficiente in merito all’idoneità delle condotte a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro e che, comunque, non vi era proporzionalità fra fatto e sanzione. La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Come è noto, con sentenza n. 21591/13 le Sezioni Unite hanno confermato il precedente orientamento secondo il quale, a norma degli artt. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla l. n. 97/01, le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti patteggiamento hanno efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato. Pertanto, la sentenza di applicazione di pena patteggiata, a prescindere dalla sua qualificazione come sentenza di condanna, presuppone pur sempre un’ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice dall’onere di verifica sul punto. Con riferimento alla dedotta carenza di attività istruttoria da parte del Giudice di merito, la Suprema Corte ha ritenuto tale scelta coerente con i principi sopra enunciati, anche in considerazione del fatto che il contratto collettivo applicato prevede la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso con riferimento alla sentenza penale di condanna per una serie di reati, fra i quali figura anche quello di concussione. Secondo gli Ermellini, la citata disposizione collettiva deve essere interpretata nel senso che per integrare la fattispecie sopra richiamata sia sufficiente la sentenza di patteggiamento, dovendosi ritenere che le parti contrattuali abbiano voluto – con tale previsione – dare rilievo anche al caso in cui l’imputato non abbia negato la propria responsabilità ed abbia esonerato l’accusa dall’onere della relativa prova in cambio di una riduzione della pena. Infine, con riferimento alla proporzionalità tra fatto e sanzione, la Corte di Cassazione è pervenuta alla conclusione della sussistenza di tale proporzionalità, considerati l’intensità dell’elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore ed il numero e la gravità delle condotte.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 settembre – 9 dicembre 2015, n. 24828 Presidente Roselli – Relatore Di Cerbo Svolgimento del processo 1. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 2395/13, ha respinto il ricorso proposto da S.A. nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, della quale era stato dipendente, avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento intimatogli in data 4 febbraio 2011. 2. La Corte d'appello di Milano, ha confermato la statuizione della sentenza impugnata avente ad oggetto la legittimità del licenziamento. 3. In punto di fatto la Corte territoriale ha accertato che lo S. , assunto dall'Agenzia delle Entrate in data 17 dicembre 1999 ed assegnato all'Ufficio di Rho, era stato distaccato, su sua richiesta, presso la Direzione Provinciale di Brindisi - Ufficio territoriale di Ostuni - in data 7 maggio 2007 che nel settembre 2009 lo S. era stato colpito da ordinanza di custodia cautelare in carcere, poi tramutata in arresti domiciliari fino al 25 marzo 2010, in quanto imputato dei reati di cui agli artt. 317 concussione , 476 falso materiale e 479 falso ideologico cod. pen. che aveva patteggiato una pena di oltre un anno e undici mesi di reclusione sentenza n. 347 del 8 luglio 2010 del GIP presso il Tribunale di Brindisi che era stato licenziato senza preavviso con lettera del 4 febbraio 2011 della Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Puglia che il licenziamento era stato impugnato con nota del 18 febbraio 2011 che la Corte di cassazione, adita in sede di regolamento di competenza, aveva stabilito la competenza del Tribunale di Milano. Ciò premesso la Corte di merito ha in primo luogo rigettato la tesi dell'incompetenza della Direzione regionale della Puglia e quella di incompetenza del Direttore regionale ai fini dell'adozione del provvedimento espulsivo adottato nei suoi confronti. Nel merito ha ritenuto legittimo il licenziamento. 4. Per la cassazione di tale sentenza S.A. ha proposto ricorso affidato a otto motivi illustrati da memoria l'Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso pure illustrato da memoria. Motivi della decisione 5. Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 51, 55 e ss. e 63 d.lgs. n. 165 del 2001 degli artt. 7 e 18 legge n. 300 del 1970 dell'art. 2 legge n. 604 del 1966 degli artt. 115, 116, 132, comma 2, n. 4, 324 e 413 cod. proc. civ. degli artt. 1175, 1324, 1339, 1341, 1342, 1366, 1368, 1369, 1370, 1375, 1418, 1419, 2119, 2697, 2909 cod. civ. dell'art, 5 legge n. 2248 del 1865, ali. E dell'art. 30 d.lgs. n. 276 del 2003 dell'art. 111 Cost Censura il mancato accoglimento dell'eccezione di incompetenza dell'Agenzia delle Entrate - Direzione regionale della Puglia e in particolare del suo ufficio per i procedimenti disciplinari in relazione all'espletamento del procedimento disciplinare e all'irrogazione del licenziamento. Sottolinea in proposito che il ricorrente era assegnato all'ufficio di Rho e che si trovava presso l'ufficio di Ostuni in virtù di un provvedimento temporaneo di assegnazione ad altro ufficio. Invoca in proposito i principi in tema di distacco del lavoratore. Rileva che in sede di regolamento di competenza la S.C. aveva affermato l'esistenza di un provvedimento temporaneo di distacco. 6. Col secondo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per intrinseca contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione deduce in proposito che la sentenza impugnata, da un iato, qualifica la fattispecie in esame come distacco, e, dall'altro, esclude che alla suddetta fattispecie si applichino i principi di diritto formatisi in subiecta materia. Ed infatti, da un Iato, la corte territoriale ha riconosciuto, conformemente a quanto stabilito dalla Suprema Corte Cass., ordin., n. 20724 del 2012 , la competenza del giudice del lavoro di Milano, e, dall'altro, ha escluso che la competenza per l'espletamento del procedimento disciplinare potesse spettare alla Direzione Regionale della Lombardia. 7. Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 16, 17, 51, 55 e ss., 63 d.lgs. n. 165 del 2001 degli artt. 7 e 18 legge n. 300 del 1970 dell'art. 2 legge n. 604 del 1966 degli artt. 1175, 1324, 1339, 1375, 1418, 1419 e 2119 cod. civ. dell'art. 5 legge n. 2248 del 1865, all. E degli artt. 112, 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ. dell'art. 111 Cost. sostenendo che il Direttore Regionale della Puglia non avrebbe potuto condurre il procedimento disciplinare e non avrebbe potuto intimare il licenziamento. In ogni caso, una volta delegato l'esercizio del procedimento disciplinare, non poteva più irrogare direttamente la sanzione. Deduce che, a norma dell'art. 55 bis d.lgs. n. 165 del 2001, il responsabile della struttura presso la quale il dipendente lavoro non ha competenza per i procedimenti disciplinari che possono portare all'irrogazione delle sanzioni più gravi la norma suddetta ha altresì imposto alle amministrazioni la creazione di un ufficio terzo ed imparziale per i suddetti procedimenti disciplinari. 8. Col quarto motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per mancanza di motivazione con riferimento ai criteri per determinare il soggetto che possa essere qualificato come responsabile della struttura e in ordine alle ragioni per cui il delegante può esercitare la funzione delegata anche in assenza di un atto di revoca. 9. Col quinto e sesto motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1, 3, 4, 5, 6 e 10 della legge n. 241 del 1990, degli artt. 7 e 18 della legge n. 300 del 1970 degli artt. 2 e 5 della legge n. 604 del 1966 degli artt. 51 e 55 d.lgs. n. 165 del 2001 degli artt. 444 ss. cod. proc. pen. degli artt. 115, 116, 132 e 420 cod. proc. civ. dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ. degli artt. 1339, 1418, 1419, 2119 e 2697 cod. civ. e degli artt. 24 e 111 Cost. e nullità della sentenza,,censura la sentenza impugnata sostenendo l'insufficienza della sentenza di patteggiamento ai fini del riconoscimento della responsabilità disciplinare. Deduce che non è stata fatta istruttoria disciplinare ovvero in sede civile e che le accuse mosse in sede penale erano infondate. 10. Col settimo e ottavo motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. artt. 2 e 5 della legge n. 604 del 1966 degli artt. 1362 ss. 2119 e 2697 cod. civ. dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 degli artt. 444 ss. cod. proc. pen. dell'art. 132 cod. proc. civ. dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e dell'art. 111 Cost. nonché nullità della sentenza censura la sentenza impugnata per aver escluso l'assenza di proporzionalità fra fatto e sanzione. 11.1 primi quattro motivi di ricorso, che devono essere esaminati contestualmente in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati. 12. Deve premettersi che in sede di regolamento di competenza la fattispecie in esame è stata definita come un distacco caratterizzato da un provvedimento temporaneo di assegnazione ad un ufficio diverso da quello di appartenenza cfr. la già citata Cass. n. 20724 del 2012 . Sulla base di tale definizione è stata individuata la competenza del Tribunale di Milano in applicazione del principio per cui, in tema di competenza territoriale, per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la circostanza che il lavoratore sia utilizzato nell'ambito di un rapporto di comando o distacco non implica la cesura del rapporto di impiego con l'amministrazione di appartenenza, trattandosi pur sempre di utilizzazione temporanea, irrilevante per gli effetti di cui all'art. 413, comma 5, cod. proc. civ 13. Le suddette conclusioni, che valgono esclusivamente sul piano processuale, non incidono, peraltro, sulla materia oggetto del presente giudizio e, in particolare sulla competenza ad adottare il provvedimento di licenziamento nei confronti dell'odierno ricorrente, materia quest'ultima regolata dalla legge del rapporto di lavoro. Nel caso di specie la competenza in tema di procedimento disciplinare è regolata dall'art. 55 bis d.lgs. n. 165 del 2001 che, al secondo comma, fissa il principio secondo cui, anche per i lavoratori in posizione di distacco, il procedimento disciplinare viene attivato dal responsabile, con qualifica dirigenziale, della struttura in cui il dipendente lavora. Quando il responsabile della struttura non ha qualifica dirigenziale, o comunque per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi di quelle indicate nel primo periodo che fa riferimento a sanzioni superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni , il procedimento disciplinare si svolge secondo le disposizioni del comma 4, il quale, a sua volta, stabilisce che ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Nel caso di specie risulta circostanza pacifica fra le parti che l'Agenzia delle Entrate, con atto del suo Direttore n. 2009/183775 del 3 dicembre 2009, con riferimento al personale non dirigente, ha individuato l'Ufficio Procedimenti Disciplinari UPD , in forma monocratica, nella persona del Direttore Regionale della Direzione Regionale nella quale è compreso l'ufficio nel quale il dipendente presta servizio. 14. Ritiene il Collegio che dalla lettura complessiva della norma e dal suo esplicito riferimento ai lavoratori in posizione di distacco, si evinca chiaramente la scelta del legislatore di individuare il soggetto o l'ufficio competente in materia di procedimento disciplinare attraverso il parametro costituito dal luogo in cui il lavoratore anche se in posizione di distacco effettivamente presta la propria attività lavorativa. È del resto una scelta assolutamente logica e coerente con i principi di buona amministrazione e di garanzia del diritto di difesa in quanto facilita, da un lato, l'espletamento dell'indagine disciplinare, e, dall'altro, il reperimento, anche da parte del lavoratore, degli eventuali elementi finalizzati a discolparsi. L'atto amministrativo da ultimo citato costituisce coerente applicazione del suddetto principio laddove individua l'Ufficio Procedimenti Disciplinari competente nella persona del Direttore Regionale della Direzione Regionale nella quale è compreso l'ufficio nel quale il dipendente presta effettivamente servizio. 15. Non può pertanto dubitarsi, per le suesposte ragioni, della competenza della Direzione Generale Puglia per l'irrogazione della sanzione disciplinare de qua e pertanto la tesi del ricorrente che contesta tale competenza è priva di fondamento atteso che essa è esplicitamente prevista dal citato provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate n. 2009/183775 del 3 dicembre 2009 che, come si è prima sottolineato, ha individuato, con riferimento al personale non dirigente, l'Ufficio Procedimenti Disciplinari UPD , in forma monocratica, nella persona del Direttore Regionale della Direzione Regionale nella quale è compreso l'ufficio nel quale il dipendente presta servizio. 16. Deve essere inoltre precisato che, se è vero che il citato art. 55 bis d.lgs. n. 165 del 2001 ha sottratto al responsabile della struttura presso la quale il dipendente presta l'attività lavorativa la competenza per i provvedimenti disciplinari che possono culminare con le sanzioni più gravi ed ha a tal fine imposto alle Amministrazioni pubbliche di creare un ufficio a ciò destinato che sia terzo e imparziale, è anche vero che, come esattamente rilevato nella sentenza impugnata, il Direttore Regionale, soggetto apicale al quale afferiscono tutti gli uffici presenti nella Direzione Regionale, non può identificarsi nel capo della struttura presso la quale lavora il dipendente sottoposto al procedimento disciplinare. L'identificazione dell'UPD con il Direttore Regionale, garantisce, per la posizione di vertice di quest'ultimo, un sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare. Viene così rispettata l'esigenza di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell'ambito dell'ufficio di appartenenza del lavoratore, ossia in un luogo dove Io stesso dirigente dell'ufficio ha un coinvolgimento diretto con l'autore dell'infrazione disciplinare, per cui appaiono infondate le allegazioni del ricorrente in punto violazione del principio di terzietà dell'Ufficio disciplinare. 17. Quanto poi all'argomento del ricorrente relativo al conferimento, da parte del Direttore Regionale, della delega del procedimento ad altro dirigente dell'ufficio, deve osservarsi che, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, tale delega aveva ad oggetto unicamente una specifica attività istruttoria, costituita dall'audizione del dipendente. Premesso che si tratta di delega pienamente legittima in quanto rientra nei poteri attribuiti dalla legge ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali art. 17, comma 1, lett. c d.lgs. n. 165 del 2001 , è coerente con i limiti della delega il fatto che, una volta esaurita l'attività delegata, l'esercizio dell'attività disciplinare ritorni al delegante, nella specie il Direttore Regionale che pertanto, quale UPD aveva nelle proprie competenze quella di irrogare il provvedimento espulsivo. 18. La Corte di merito ha deciso in conformità con i suddetti principi e pertanto le relative censure devono essere rigettate. 19. Anche gli ultimi quattro motivi, che devono essere esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati. 20. Quanto al mancato svolgimento di attività istruttoria deve ricordarsi che le Sezioni Unite di questa Corte Cass. S.U. 20 settembre 2013 n. 21591 , decidendo in tema di sanzioni disciplinari irrogate ad un avvocato, hanno confermato il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità cfr., in particolare, Cass. S.U. 9 aprile 2008 n. 9166 secondo cui, a norma degli artt. 445 e 653 cod. proc. pen., come modificati dalla legge 27 marzo 2001 n. 97, le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti patteggiamento hanno efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione della responsabilità penale dell'imputato. Pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, a prescindere dalla sua qualificazione come sentenza di condanna, presuppone pur sempre un'ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice disciplinare dall'onere di verifica sul punto. Tale soluzione appare coerente con quanto affermato dalla Corte costituzionale Corte cost. 3 novembre 2009 n. 336 secondo cui non è irragionevole la scelta legislativa di perequare, agli effetti del giudizio disciplinare, l'efficacia probatoria della pronuncia di condanna a seguito di dibattimento e della pronuncia di applicazione della pena su richiesta delle parti. 21. La scelta del giudice del merito di non procedere ad attività istruttoria in presenza della citata sentenza di patteggiamento è coerente con i principi sopra enunciati. 22. Deve infine ritenersi infondata l'ulteriore censura contenuta nel settimo e ottavo motivo di ricorso basata sull'assunto che la sanzione espulsiva adottata violerebbe il principio di proporzionalità. 23. La Corte di appello ha rilevato che l'art. 67, primo comma, c.c.n.l. comparto agenzie fiscali prevede la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso con riferimento alla sentenza penale di condanna per una serie di reati fra i quali è compreso quello di concussione art. 317 cod. pen. . Ciò premesso ha ritenuto che la citata disposizione collettiva deve essere interpretata nel senso che per integrare la fattispecie sopra richiamata sia sufficiente la sentenza di patteggiamento dovendosi ritenere che le parti contrattuali abbiano voluto - con tale previsione - dare rilievo anche al caso in cui l'imputato non abbia negato la propria responsabilità ed abbia esonerato l'accusa dall'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. 24. La sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi sul punto affermati da questa Corte di legittimità cfr., in particolare, Cass. 30 gennaio 2013 n. 2168 richiamata dalla stessa sentenza di merito che, sia pure riferiti all'art. 54 del contratto collettivo di lavoro dei dipendenti di Poste Italiane dell'11 gennaio 2001, appaiono pienamente applicabili anche alla previsione contrattuale sopra richiamata attesa l'evidente identità della rado. Né giova al ricorrente il richiamo ai precedente costituito da Cass. 18 febbraio 2013 n. 3912 atteso che anche in questo caso la Corte ha affermato che, ove una disposizione del contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso, il giudice di merito può, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione sentenza di condanna , si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. di patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen., atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l'accusa dall'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. È pur vero che in quest'ultima sentenza la Corte aggiunge che tale equiparazione non esonera dall'ulteriore indagine della idoneità dei fatti a ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia con il lavoratore , ma è anche vero che la Corte chiarisce che tale indagine è dovuta allorché la previsione collettiva, nel far riferimento alla condanna passata in giudicato condiziona comunque l'irrogazione della massima sanzione alla circostanza che i fatti costituenti reato possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario, nell'ipotesi in cui la loro gravità in relazione alla natura del rapporto, alle mansioni, al grado di affidamento, sia tale da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto . Nel caso di specie la sussistenza di una siffatta previsione contrattuale non è stata nemmeno allegata. 25. Deve peraltro aggiungersi che la Corte territoriale ha valutato, alla luce dei parametri dell'intensità dell'elemento intenzionale, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore ed al numero e gravità delle condotte e all'intensità dell'elemento intenzionale, la proporzionalità della sanzione espulsiva adottata nei confronti del ricorrente ed è pervenuta alla conclusione della sussistenza di tale proporzionalità. Si tratta di una valutazione di merito che in quanto basata su valutazione sufficiente ed esente da vizi logici è insindacabile in sede di legittimità. 26. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato. 27. In applicazione del criterio della soccombenza il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in dispositivo. 28. Sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I bis dell'art. 13, del D.P.R. n. 115 del 2002, ai sensi del comma 1 quater, introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 100 per esborsi e Euro 4500 per compensi, oltre spese generali e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.