Illecito penale commesso alle dipendenze del cedente: il cessionario può licenziare per giusta causa

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità che fatti disciplinarmente rilevanti compiuti da un lavoratore alle dipendenze del datore di lavoro cedente e sfociati in una condanna penale quando il dipendente è transitato al datore cessionario possano essere posti da quest’ultimo alla base di un licenziamento per giusta causa.

Della questione si è occupata la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 20319/15, depositata il 9 ottobre. Il caso. La Corte d’appello territoriale, in riforma della pronuncia di primo grado, accertava la non ricorrenza della giusta causa addotta da una s.r.l. per licenziare un uomo, e per l’effetto condannava la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione. La Corte di merito, nello specifico, non riteneva integrata la fattispecie prevista dall’art. 21, comma 1, n. 7 CCNL Gas e Acqua, che prevede il licenziamento per giusta causa con riguardo ai lavoratori che commettano infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel lavoro, così gravi da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro o che commettano azioni costituenti delitto - tra cui ad esempio i delitti da cui sia conseguita una condanna a pena detentiva con sentenza passata in giudicato - per azione commessa con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che leda la figura morale del lavoratore. La Corte d’appello, nella pronuncia impugnata, non negava che il delitto di concussione per il quale era stato condannato l’imputato sia suscettibile di essere ricondotta alla previsione contrattuale, né asseriva che il fatto che la condanna fosse stata patteggiata valesse ad escludere la responsabilità disciplinare. Bensì, la Corte rilevava che detti fatti delittuosi erano stati commessi prima che il Comune datore di lavoro cedesse il ramo d’azienda a cui era addetto il lavoratore alla s.r.l., con la conseguenza che il mutamento del datore di lavoro e delle mansioni escludevano la persistenza della giusta causa di licenziamento. Avverso tale pronuncia ricorre la s.r.l., lamentando la violazione dell’art. 21 cit. e dell’art. 2119 c.c. per non aver la Corte di merito ravvisato la giusta causa di licenziamento nei fatti ammessi dal lavoratore nel processo penale attraverso la richiesta di patteggiamento. Al cessionario spetta il potere disciplinare per i fatti precedenti alla cessione. Preliminarmente, gli Ermellini hanno precisato che in tema di trasferimento d’azienda, dall’art. 2112 c.c. discende che i mutamenti nella titolarità non interferiscono con i rapporti di lavoro già intercorsi con il cedente, che continuano a tutti gli effetti con il cessionario, con la conseguenza che questi subentra in tutte le posizioni attive e passive facenti capo al cedente. Da tanto deriva che il cessionario può esercitare i poteri disciplinari inerenti al rapporto di lavoro per fatti precedenti la cessione dell’azienda. Non serve che il comportamento lesivo dell’affidamento avvenga durante il rapporto. Affinché l’affidamento riposto dal datore di lavoro nelle qualità morali e nelle capacità professionali del lavoratore possa venire meno, proseguono i Giudici di Piazza Cavour, e possa così giustificarsi il licenziamento, non è necessario che il comportamento lesivo sia stato tenuto durante lo svolgimento del rapporto, ma può essere sufficiente un fatto che, non ancora conosciuto o non sufficientemente accertato quando il rapporto iniziò, sia divenuto palese successivamente, durante lo svolgimento del rapporto. Tale comportamento può anche consistere in un illecito commesso durante un precedente rapporto di lavoro intercorso con altro datore, ed in tal caso non sarebbe sufficiente che il comportamento fosse connesso alle mansioni assegnate dal datore precedente diverse da quelle attuali ossia di un comportamento non idoneo a ledere l’affidamento nella capacità professionale attualmente richiesta. Nel caso di specie, tuttavia, conclude il Supremo Collegio, il fatto illecito, di natura penale, incidente sulla figura morale del lavoratore è previsto dal contratto di lavoro quale causa di licenziamento. Il requisito dell’affidabilità morale, inoltre, deve essere valutato, specifica la Corte di legittimità, più severamente quando il reato ascritto al lavoratore possa esprimere una minore attitudine all’imparzialità ed alla cura del buon andamento dell’ufficio richiesti ai dipendenti di una società con partecipazione pubblica al capitale. L’errore di diritto in cui è incorsa la Corte di merito, pertanto, secondo la Corte comporta la cassazione della sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 24 giugno – 9 ottobre 2015, numero 20319 Presidente/Relatore Roselli Svolgimento del processo Con sentenza del 20 marzo 2014 la Corte d'appello di Milano, in riforma della decisione emessa dal Tribunale di Busto Arsizio, accertava, ai sensi dell'articolo 18, comma 5, l. 20 maggio 1970 numero 300 modif. dall'articolo 1, comma 42, l. 28 giugno 2012 numero 92, la non ricorrenza della giusta causa addotta dalla datrice di lavoro s.r.l. Agesp servizi per licenziare V.A. , dichiarava risolto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e condannava la società al pagamento dell'indennità risarcitoria pari a ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione. La Corte rilevava che il V. , impiegato nel Comune di Busto Arsizio con mansioni di istruttore-geometra, il 16 marzo 2010 era stato distaccato presso la s.r.l. Agesp servizi. Questa, ricevuta il 15 marzo 2011 comunicazione di una condanna dell'impiegato per il delitto di cui all'articolo 317 cod. penumero , lo aveva sospeso dal servizio. Per effetto di cessione di ramo d'azienda il V. era passato alle dipendenze della società in data 1 gennaio 2012 con la qualifica di impiegato tecnico. Il 18 settembre successivo la datrice di lavoro aveva contestato la condanna definitiva — conseguente a patteggiamento - a tre anni di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici, ed il 16 ottobre lo aveva licenziato. I fatti di cui alla condanna risalivano al 2001-2001. La Corte riteneva non realizzata la fattispecie configurata dall’articolo 21, numero 7, c.c.numero l. Acqua e gas, il quale comminava il licenziamento senza preavviso per condanne definitive a pena detentiva conseguenti ad azioni non connesse con lo svolgimento del rapporto di lavoro e che ledessero la figura morale del lavoratore. Nel caso di specie le azioni addebitate al V. erano state commesse durante lo svolgimento del lavoro di geometra del Comune, addetto alla certificazione dell'idoneità degli immobili all'uso abitativo. Esse non avevano perciò alcun legame con il lavoro svolto attualmente alle dipendenze della Agesp, consistente nello svolgere relazioni tecniche sullo stato dei luoghi pubblici dello stesso Comune e nel corso del quale egli non aveva subito nemmeno richiami disciplinari. La società non poteva perciò addurre alcuna giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. Contro questa sentenza ricorrono per cassazione in via principale la s.r.l. Agesp servizi e in via incidentale il V. . A ciascun ricorso corrisponde un controricorso. Memorie utrinque. Motivi della decisione I due ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’articolo 335 cod. proc. civ. Col secondo motivo la ricorrente principale lamenta la violazione dell'articolo 21, comma 1, c.c.numero l. Gas e acqua, il quale prevede il licenziamento per giusta causa dei lavoratori condannati a pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che leda la figura morale del reo, e più specificamente f la condotta costitutiva del reato di concussione, di cui all'articolo 317 cod. penumero . Col terzo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 2119 cod. civ., per non avere la Corte di merito ravvisato la giusta causa di licenziamento nei fatti ammessi dal lavoratore nel processo penale attraverso la richiesta di patteggiamento. Quei fatti integravano, ad avviso della ricorrente, quelle azioni che costituiscono delitto a termini di legge espressamente previste nella suddetta clausola contrattuale quale giusta causa di licenziamento. I due motivi, da considerare insieme perché connessi, sono fondati. L'articolo 21, comma 1, numero 7, c.c.numero l. cit. prevede il licenziamento per giusta causa con riguardo ai lavoratori che commettano infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel lavoro, così gravi da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro, o che commettono azioni costituenti delitto tra cui, ad esempio, i delitti da cui sia conseguita una condanna a pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che leda la figura morale del lavoratore . Nella sentenza qui impugnata la Corte d'appello non nega che il delitto di concussione, causa della condanna definitiva conseguita a patteggiamento e commesso quando il lavoratore, geometra dipendente dal Comune, rilasciava certificazioni di idoneità degli immobili ad essere abitati, sia suscettibile di essere ricondotto alla detta previsione contrattuale. Né il fatto che la condanna fosse stata patteggiata valeva ad escludere la responsabilità disciplinare, come più volte ha affermato questa Corte Cass. Sez. unumero 31 ottobre 2012 numero 18701, Sez. lav. 30 gennaio 2013 numero 2168, 20 luglio 2011 nnumero 15889 e 15890,18 febbraio 2011 numero 4060 . La ragione che ha indotto la Corte d'appello ad escludere la giusta causa di licenziamento è che i detti fatti delittuosi erano stati commessi prima che il Comune datore di lavoro cedesse il ramo d'azienda, a cui era addetto il lavoratore, alla società commerciale attuale ricorrente principale, che aveva assegnato il medesimo a diverse mansioni e poi l'aveva licenziato. Mutamento del datore di lavoro e delle mansioni escludevano, secondo la Corte di merito, la persistenza della giusta causa di licenziamento. Questa tesi è errata. In tema di trasferimento d'azienda, deriva dall’articolo 2112 cod. civ. che i mutamenti nella titolarità non interferiscono con i rapporti di lavoro già intercorsi con il cedente, che continuano a tutti gli effetti con il cessionario, con la conseguenza che questi subentra in tutte le posizioni attive e passive facenti capo al cedente. Ne consegue che il cessionario può esercitare i poteri disciplinari inerenti al rapporto di lavoro per fatti precedenti la cessione dell'azienda Cass. 27 settembre 2007 numero 20221 . Ma è bene aggiungere, su un piano più generale, che, affinché l'affidamento riposto dal datore di lavoro nelle qualità morali e nelle capacità professionali del lavoratore possa venire meno e possa così giustificare il licenziamento, non è necessario che il comportamento lesivo sia stato tenuto durante lo svolgimento del rapporto ma può essere sufficiente un fatto che, non ancora conosciuto o non sufficientemente accertato quando il rapporto iniziò, sia divenuto palese successivamente, durante lo svolgimento del rapporto. Per questa ragione si giustifica ad esempio la prassi di condizionare l'instaurazione del rapporto alla raccolta di informazioni circa la personalità dell'aspirante prestatore di lavoro. Può anche trattarsi di un illecito commesso durante un precedente rapporto di lavoro, intercorso con altro datore. In tal caso non sarebbe sufficiente che il comportamento fosse connesso alle mansioni assegnate dal datore precedente diverse da quelle attuali, ossia di un comportamento non idoneo a ledere l'affidamento nella capacità professionale attualmente richiesta. Ma diverso è il caso in cui il fatto illecito, di natura penale, incida sulla figura morale del lavoratore e, come nel caso qui in esame, sia previsto dal contratto di lavoro quale causa di licenziamento. Da aggiungere, sempre con riferimento al caso di specie, che il requisito della affidabilità morale viene valutato più severamente quando il reato ascritto al lavoratore possa esprimere una minore attitudine all'imparzialità ed alla cura del buon andamento dell'ufficio, richiesti ai dipendenti di una società con partecipazione pubblica al capitale Cass. 18 ottobre 2007, numero 23702 . L'errore di diritto in cui è incorsa la Corte di merito comporta la cassazione della sentenza impugnata. Da quanto detto consegue l’assorbimento del primo motivo del ricorso principale, in cui viene lamentata la mancata dichiarazione d'inammissibilità del reclamo proposto dal lavoratore contro la sentenza di primo grado ai sensi degli artt. 348 bis e 436 bis cod. proc. civ Idem per il quarto motivo, in cui la datrice di lavoro afferma che il licenziamento in questione era sorretto, se non dalla giusta causa, dal giustificato motivo, e per il quinto, in cui la medesima ritiene iniqua la misura dell'indennità risarcitoria, Col primo motivo il ricorrente incidentale lamenta la violazione dell'articolo 18, commi 4 e 5, L. numero 300 del 1970 ed omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d'appello rilevato l'invalidità dell'incolpazione mossa dall'impresa al lavoratore, incolpazione che aveva ad oggetto solo la sentenza penale di patteggiamento, senza alcun riferimento ai fatti sottesi , alla connessione di essi con le mansioni lavorative ed alla lesione della figura morale dell'incolpato. Dalla detta invalidità derivava, a giudizio del ricorrente, l’insussistenza del fatto contestato e quindi, ai sensi del comma 4 dell'articolo 18 cit., avrebbe dovuto conseguire la condanna della datrice di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro. Col secondo motivo il ricorrente prospetta la violazione dell'articolo 445 cod. proc. penumero , negando che la sentenza penale conseguente a patteggiamento potesse avere efficacia di giudicato nel processo attuale. I due connessi motivi non sono fondati. In tema di sanzioni disciplinari a carico di lavoratori subordinati, la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati. Ne consegue la legittimità della contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e di garanzia del contraddittorio Cass. 15 maggio 2014 numero 10662, 17 novembre 2010 numero 23223 . Nessuna insussistenza, dunque, dei fatti addebitati, già accertati dal giudice penale e neppure negati dall'incolpato. Nessuna questione, infine, di efficacia del giudicato penale nel processo civile, ma solo di applicazione di una clausola del contratto collettivo, che connette l'effetto sanzionatorio espulsivo alla sentenza penale definitiva. Cassata la sentenza impugnata, la non necessità di nuovi accertamenti di fatto permette di decidere nel merito col rigetto della domanda originariamente proposta dal lavoratore. Le peculiarietà della fattispecie e le alterne vicende dei gradi di merito inducono a compensare le spese dell'intero processo. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il secondo e terzo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti gli altri motivi, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda originariamente proposta. Compensa le spese dell'intero processo. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, D.P.R. numero 115 del 2002, da atto della sussistenza sei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.