La richiesta di rivendicazione del corretto inquadramento è troppo generica: diritto prescritto

In tema di interruzione della prescrizione, un atto, per avere efficacia interruttiva, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato elemento soggettivo , l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare di far valere il proprio diritto, con l’effetto di costituire in mora l’obbligato elemento oggettivo . Consegue che in ambito di rivendicazione del corretto inquadramento lavorativo, le semplici sollecitazioni a provvedere sono prive di efficacia interruttiva, essendo necessario che l’atto inviato contenga l’esplicita richiesta di provvedere all’inquadramento e la manifestazione dell’intenzione di far valere i propri diritti in caso di mancato accoglimento della richiesta.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 17123, pubblicata il 25 agosto 2015. La vicenda esaminata. Un lavoratore inquadrato quale impiegato di livello 1 adiva il Tribunale del lavoro, domandando l’accertamento del demansionamento rispetto al livello di inquadramento rivendicando la superiore qualifica dirigenziale, a motivo di svolgimento di mansioni dirigenziali, in epoca precedente alla dequalificazione, e chiedendo infine la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dal demansionamento perpetrato. Il Tribunale accertava la dedotta dequalificazione, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno derivante, liquidato in via equitativa e rigettava la domanda relativa alla rivendicata qualifica dirigenziale, ritenendo prescritto il diritto. Sia il lavoratore che il datore di lavoro proponevano appello avverso la sentenza di primo grado e la Corte d’appello confermava il demansionamento, rivedeva, aumentandolo, l’ammontare del danno liquidato ma confermava l’intervenuta prescrizione del diritto alla qualifica dirigenziale, rigettando il relativo motivo d’appello. Rigettava altresì l’appello del datore di lavoro. Entrambe le parti ricorrevano in Cassazione. L’interruzione della prescrizione. Con un primo motivo di ricorso, il lavoratore ricorrente censura la decisione della Corte di merito riguardo all’intervenuta prescrizione del diritto alla superiore qualifica dirigenziale. Lamenta da un lato il mancato esame da parte dei giudici di merito di alcune lettere con cui veniva rivendicato l’inquadramento dirigenziale dall’altro che le lettere esaminate dalla Corte di merito sono state ritenute inidonee ad interrompere il decorso della prescrizione. I giudici di legittimità ritengono il motivo infondato, affermando che, se pur la Corte di merito ha errato nel non considerare due ulteriori lettere inviate dal lavoratore, oltre ad altre due esaminate in giudizio, non possa mutare l’epilogo del giudizio. Tutte le missive inviate dal lavoratore appaiono generiche nel loro contenuto, ove ci si limita ad affermare lo svolgimento di mansioni dirigenziali, invitando il datore di lavoro a provvedere al riconoscimento della corrispondente qualifica superiore. Non contengono i predetti documenti una formale messa in mora dell’obbligato, atta a loro conferire efficacia interruttiva. Secondo i principi affermati dalla Corte di legittimità, un atto, per avere efficacia interruttiva, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato elemento soggettivo , l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare di far valere il proprio diritto, con l’effetto di costituire in mora l’obbligato elemento oggettivo . L’interruzione della prescrizione in ambito di diritto al superiore inquadramento lavorativo. Dal principio sopra affermato deriva che affinché si possa considerare validamente interrotto il decorso della prescrizione del diritto al livello superiore, occorre che le richieste in tal senso avanzate dal lavoratore al datore di lavoro non si limitino, come avvenuto nel caso esaminato, a semplici inviti o sollecitazioni a provvedere, ma contengano, oltre alla esplicita ed inequivoca richiesta di riconoscimento della qualifica superiore anche la manifestazione di far valere i propri diritti in caso di mancato accoglimento delle richieste sì da costituire una formale messa in mora del datore di lavoro. Nessuna delle lettere prese in considerazione dai giudici presenta i requisiti necessari per una valido effetto interruttivo della prescrizione. Da ciò il rigetto del ricorso proposto dal lavoratore. Incensurabile in sede di legittimità la valutazione equitativa del danno liquidato. Entrambe le parti censurano la sentenza di merito, per ciò che concerne la valutazione del danno da accertato demansionamento. L’uno, il lavoratore, ritenendo insufficiente la liquidazione pari al 40% della retribuzione spettante l’altro poiché non era stato correttamente motivato la maggior percentuale riconosciuta dalla Corte di merito rispetto a quanto liquidato dal primo giudice. Entrambi i motivi vengono ritenuti infondati dalla Suprema Corte, la quale ha osservato che il giudice di merito può liquidare il danno in via equitativa, con giudizio che sfugge al vaglio di legittimità della Cassazione, ove correttamente motivato. Nel caso in esame la Corte d’appello ha correttamente esaminato i criteri presi a fondamento della propria decisione, dando corretta ed esaustiva motivazione, immune da vizi logici. Anzi, le censure mosse dai ricorrenti si risolvono in richieste di rivalutazione del fatto, inammissibili in sede di legittimità. Con conseguente rigetto di entrambi i ricorsi proposti.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 aprile – 25 agosto 2015, n. 17123 Presidente Roselli – Relatore Bronzini Svolgimento del processo Il Tribunale di Roma con sentenza n. 2833 del 2007, decidendo in ordine alle domande proposte da D.L. nei confronti dell'ENI spa, accertata la dedotta dequalificazione condannava l'Eni spa ad adibire D.L. a mansioni proprie del livello di inquadramento ricoperto cat. 1 livello Crea 4 nonché a corrispondere a titolo risarcitorio la somma di Euro 72.587,70 oltre rivalutazione ed interessi respingendo ogni altra pretesa. Avverso la detta sentenza interponevano appello sia il D. che L'Eni spa. La Corte di appello di Roma con sentenza non definitiva del 22.12.2009 rigettava il motivo di appello del D. riguardante la ritenuta prescrizione ricordava la Corte che il D. , dipendente dal 1973 con inquadramento nella cat. 1 livello Crea 4, contestava il suo inquadramento e rivendicava la qualifica dirigenziale e che il Tribunale aveva ritenuta prescritta la domanda per il periodo 1.1.1986-13.5.1990 e l'aveva rigettata per il periodo successivo perché solo genericamente dedotta. Per la Corte territoriale occorreva valutare solo le missive del 18.10.89 e del 9.11.1989 in quanto le successive erano intervenute solo quando la prescrizione era già maturata. Le due lettere per la Corte non avevano alcun chiaro contenuto di messa in mora del debitore essendo assolutamente generiche e facendo solo riferimento ad un progetto di un nuovo assetto organizzativo ed a vaghe intenzioni e promesse tra le parti. Con la successiva sentenza definitiva del 11.11.2010 la Corte di appello di Roma rigettava l'appello dell'ENI e, in parziale accoglimento dell'appello del D. , liquidava a titolo risarcitorio la somma di Euro 124.494.80 il luogo di quella liquidata in primo grado. La Corte di appello ricordava che il D. aveva rivendicato il superiore inquadramento dirigenziale sin dal 1.1.1986 assumendo di avere subito una grave dequalificazione dall'aprile 2000. Per il 1986-89 deduceva di avere svolto mansioni dirigenziali nell'ambito della struttura ed Commessa approvvigionamento Gruppo Eni articolazione della Direzione per lo sviluppo, la programmazione e il controllo disproc di aver poi svolto mansioni analogamente dirigenziali presso il Ministero dell'ambiente presso il quale era stato distaccato dal 1989-2000 durante il quale era stato componente della Commissione tecnico scientifica CTS , di essere poi tornato in Eni ma di essere stato sottoutilizzato. Tenuto conto della decisione della sentenza non definitiva circa il periodo sino al 1990 la Corte territoriale osservava che per il periodo di attività svolta presso il Ministero non poteva dirsi raggiunta la prova dello svolgimento di mansioni dirigenziali per difetto di allegazioni da parte del ricorrente in ordine alle mansioni concretamente svolte, visto che si erano solo indicate le attività svolte dal CTS nel suo complesso. Non erano state allegate circostanze idonee a dimostrare la qualifica dirigenziale. Provata era, invece, la dequalificazione in quanto, prima di essere distaccato al Ministero, il D. era stato inquadrato nel livello più alto della categoria impiegatizia e poi con il profilo di quadro, mentre al ritorno in Eni, sulla base della prova testimoniale effettuata, risultava che le mansioni affidate erano prive delle connotazioni essenziali del livello di inquadramento spettante assunzione di responsabilità, autonomia operativa, discrezionalità, pianificazione, programmazione e controllo di gestione, sviluppo di risorse umane ecc. . Il D. non era stato più preposto ad una struttura organizzativa e risultava essere stato addetto allo svolgimento di mansioni limitate alla partecipazione ad un gruppo di studio da cui esulava qualsiasi spazio discrezionale. Tenuto conto della durata ed entità del demansionamento, della qualifica rivestita, dell'esperienza professionale acquisita la liquidazione in via equitativa del primo giudizio nella misura del 30% della retribuzione appariva insufficiente e doveva procedersi, invece, ad una liquidazione nella misura del 40%. Per la cassazione di tale decisione hanno proposto ricorso sia l'Eni con nove motivi sia il D. con tre motivi resistono ai rispettivi ricorsi le controparti con controricorso. Il D. e l'ENI hanno prodotto memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione I due ricorsi vanno riuniti essendo avverso la medesima sentenza. Con il primo motivo del ricorso del D. si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2934, 2935 e 2943 c.c. erronea valutazione delle prove. Omessa motivazione su punti decisivi della controversia. Erroneamente, ai, fini di valutare la sussistenza dell'allegata interruzione della prescrizione in ordine alla domanda di superiore inquadramento per il periodo 1.1.1986-13.5.1990. la Corte di appello ha esaminato le sole lettere interruttive del 19.10.1989 e del 9.11.1989 ritenendo le successive lettere intervenute allorché il termine prescrizionale era già decorso. Le prime lettere erano state ritenute erroneamente inidonee ad interrompere la prescrizione benché contenessero una secca diffida all'Azienda a provvedere in ordine alla situazione professionale del ricorrente. Il contenuto delle lettere era chiarissimo nel richiedere che si provvedesse ad inquadrare il D. nella superiore qualifica dirigenziale. Ma la Corte di appello avrebbe dovuto anche esaminare le lettere del 14.5.1990, 16.7.1993 20.6.2002, 2.2.2004, 8.3.2004. Il termine prescrizionale del decennio cui si riferiva la Corte di appello operava sino al 1.1.1996-13.5.1990 e quindi andavano esaminate le missive del 14.5.1990 e del 16.7.1993. Il motivo appare infondato. Va premesso che effettivamente in relazione al periodo 1.1.1986-13,5.1990 il termine prescrizionale decennale relativo al vantato diritto al superiore inquadramento come dirigente spirava nel periodo compreso tra il 1.1.1996 al 13.5.2000 e che quindi ha errato la Corte di appello a non considerare pertinenti ai fini interruttivi le due lettere del 14.5.1990 e del 16.7.1993. Nel motivo si lamenta una non corretta interpretazione delle prime due lettere del 1989 e della mancata, come detto, valutazione delle due successive, le lettere dal 2002 in poi certamente sono, invece, intervenute allorché il termine prescrizionale in relazione al periodo ora in discussione era già decorso e quindi correttamente la Corte di appello non le ha valutate. Ora circa le prime due lettere che poi in realtà sono la stessa lettera inviata al Dott. B. ed al Vice Direttore del personale, Dott. Ba. dopo che il primo non aveva riposto le stesse appaiono correttamente valutare dalla Corte di appello, che ha osservato che ci si riferiva ad un nuovo assetto organizzativo proposto dal sig. P. ed a vaghe promesse ed intenzioni circa una diversa collocazione del ricorrente nella società che ove non realizzata avrebbe determinato un danno professionale e di carriera. Le lettere non contengono quindi una chiara ed univoca richiesta di adempimento al debitore e non esplicitano la volontà del creditore di ricorrere, in caso di mancato adempimento, alla tutela del proprio diritto. Insomma non costituisce un idoneo atto di messa in mora del debitore alla stregua dell'orientamento di questa Corte secondo il quale In tema di interruzione della prescrizione, un atto, per avere efficacia interruttiva, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato elemento soggettivo , l'esplicitazione di una pretesa e l'intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l'effetto sostanziale di costituirlo in mora elemento oggettivo . Quest'ultimo requisito non è soggetto a rigore di forme, all'infuori della scrittura, e, quindi, non richiede l'uso di formule solenni né l'osservanza di particolari adempimenti, essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente, con un qualsiasi scritto diretto al debitore e portato comunque a sua conoscenza, la volontà di ottenere dal medesimo il soddisfacimento del proprio diritto. Ne consegue che non è ravvisabile tale requisito in semplici sollecitazioni prive di carattere di intimazione e di espressa richiesta di adempimento al debitore e che è priva di efficacia interruttiva la riserva, anche se contenuta in un atto scritto, di agire per il risarcimento di danni diversi e ulteriori rispetto a quelli effettivamente lamentati, trattandosi di espressione che, per genericità ed ipoteticità, non può in alcun modo equipararsi ad una intimazione o ad una richiesta di pagamento Cass. n. 3371/2010 cfr. anche Cass. 24656/2010 . Discorso analogo si deve fare per le altre missive, quella del 15.5.1990 e del 16.7.1993, il cui contenuto è riprodotto nel motivo perché le due lettere riferiscono di promesse e di conversazioni varie tra il ricorrente e Dirigenti dell'Eni con qualche riferimento all'inquadramento come Dirigente del ricorrente , ma nessuna delle due lettere si conclude con l'esplicita richiesta di provvedere in ordine all'inquadramento manifestando una chiara intenzione di far valere i propri diritti in caso di mancato accoglimento delle richieste non costituiscono in alcun modo un univoco atto di messa in mora del datore di lavoro tale da indurlo a provvedere tempestivamente. Si tratta di semplici sollecitazioni nel quadro di complessi rapporti tra le parti, ancora in corso di definizione. Pertanto si appalesa superfluo un annullamento della sentenza impugnata perché il Giudice di merito esamini le ultime due lettere che certamente appaiono prive di valore interruttivo per le stesse ragioni che hanno condotto i Giudici di appello ad escludere la natura interruttiva delle precedenti missive. Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2103, 2697, 2699, 2712 c.c., 115 c.p.c., art. 1 CCNL Dirigenti aziende industriali 1990-2000, nonché l'erronea, incongrua e parzialmente omessa valutazione delle prove. Era stata depositata una ingente documentazione circa l'attività svolta dal ricorrente presso il Ministero dell'Ambiente ed in particolare presso la Commissione tecnico scientifica dello stesso che non era stata valutata. Il ricorrente aveva svolto tutte le attività previste per i membri della Commissione che dovevano avere un livello di professionalità pari a quella dei Dirigenti dello Stato. Il teste M. aveva confermato che nell'ambito della Commissione era stata affidato al ricorrente compiti particolarmente qualificati e ne aveva proposto la nomina a Dirigente. Il motivo appare infondato. La Corte di appello ha osservato che la domanda concernente il mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale per il periodo in cui il D. lavorò presso il Ministero dell'Ambiente non poteva essere accolto posto che non era stato allegato in concreto lo svolgimento di specifiche mansioni legittimanti tale riconoscimento, che non potevano essere desunte dalla produzione documentale che si riferiva ai compiti della Commissione tecnico-scientifica in generale. La motivazione appare congrua e logicamente coerente posto che il ricorrente non ha avanzato alcuna richiesta istruttoria e che le dichiarazioni del teste M. riportate al motivo per stralci sono troppo generiche per ritenere provato lo svolgimento di mansioni comportanti il riconoscimento della qualifica dirigenziale in relazione ai poteri decisionali ed alla direzione di uffici o servizi rilevanti per il raggiungimento di obiettivi dell'impresa. Manca inoltre una comparazione tra livello di appartenenza e livello rivendicato che mostri l'inadeguatezza del primo in relazione all'attività svolta. Occorreva dimostrare che il D. come componente della ricordata Commissione avesse svolto personalmente compiti che implicavano il potere decisionale e direttivo proprio del livello dirigenziale non essendo sufficiente l’allegazione di un alto contenuto professionale della prestazione analogo a quello dei dirigenti dello stato che non è in discussione. Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 35 e 36 Cost., 2087 e 2103, 115 e 116 c.p.c. nonché l'erronea ed incongrua valutazione delle prove. Insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia. Il risarcimento del danno da dequalificazione non era adeguato perché occorreva, tenuto conto della qualità della professionalità acquisita e della durata della dequalificazione, riferirsi all'intera retribuzione percepita e non ad una sola quota di questa. Il motivo appare infondato. Spetta al Giudice di merito stabilire anche con un giudizio di equità il danno da dequalificazione. La Corte di appello ha accertato tale danno nel 40% della retribuzione percepita incrementando la liquidazione attribuita dal Giudice di prime cure. La Corte territoriale ha richiamato le circostanze del caso e cioè la durata e l'entità del demansionamento, la qualifica rivestita, le condizioni soggettive del D. . La motivazione appare idonea e logicamente coerente posto che si tratta comunque di un caso in cui il lavoratore non è stato totalmente privato delle mansioni e che non risulta alla stregua della motivazione della sentenza impugnata adibito a mansioni umilianti o degradanti. Non sussistono, pertanto, elementi per ritenere che la valutazione compiuta dai Giudici di appello non sia corretta e razionale posto che correttamente la comparazione è stata fatta tra le mansioni precedentemente al distacco presso il Ministero e quelle al rientro in Eni avendo l’esperienza ministeriale aveva un carattere transitorio e eccezionale e stante la mancanza di un compiuto accertamento in ordine alle mansioni concretamente svolte in tale periodo per difetto di allegazione da parte dello stesso ricorrente. Con il primo motivo del ricorso dell'Eni si allega la violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c Le mansioni del D. affidate al suo rientro in Eni andavano comparate con quelle svolte durante il periodo di distacco al Ministero dell'Ambiente e non con quelle già svolte presso l'Eni prima del distacco. Con il secondo motivo si allega l'omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Era mancata una valutazione tra le mansioni svolte presso il Ministero e quelle affidate al rientro in Eni. I due motivi da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi appaiono infondati. La Corte di appello ha osservato che prima del distacco il D. era inquadrato al livello più alto della categoria impiegatizia con il profilo di quadro e che le mansioni affidate dopo il rientro all'Eni non avevano ie caratteristiche tipiche di tale profilo per assunzione di responsabilità, autonomia operativa, discrezionalità, pianificazione, programmazione e controllo di gestione. La motivazione appare corretta ed immune da vizi logici indipendentemente dalle mansioni svolte presso il Ministero non può dubitarsi del fatto che il D. aveva diritto a mansioni compatibili con il livello di inquadramento cui non aveva mai rinunciato. Peraltro il distacco in generale è istituto per definizione eccezionale e di transizione che non determina una rottura nella carriera del dipendente che quindi non può conoscere, secondo le regole generali, un'evoluzione regressiva. Con il terzo motivo si allega la violazione dell'art. 112 c.p.c., con riferimento ad omessa pronuncia su motivo di appello. La sentenza impugnata non aveva esaminato le mansioni svolte dal D. presso il Ministero e quindi il motivo di appello proposto. il motivo è infondato in quanto la Corte di appello, rilevando che le mansioni che dovevano essere prese in considerazione ai fini di valutare la sussistenza o meno della dedotta dequalificazione erano quelle di quadro svolte dal D. prima del distacco presso il Ministero dell'Ambiante, ha implicitamente rigettate le doglianze prima ricordate dell'Eni. Con il quarto motivo si allega la violazione dell'art. 112 c.p.c. con riferimento ad omessa pronuncia su altro motivo di appello. Il demansionamento non poteva spettare sin dal primo giorno del rientro in Eni sul punto era stato sviluppato un motivo non esaminato dalla Corte di appello. Il motivo appare infondato in quanto implicitamente rigettato dalla Corte di appello che ha accertato che le mansioni affidate al D. al momento del rientro in Eni non presentavano le caratteristiche salienti del profilo di quadro già rivestito dallo stesso. Pertanto la dequalificazione è stata, correttamente, riconosciuta sin dal primo momento di adibizione a nuove mansioni fortemente riduttive il livello di autonomia e di potere decisionale acquisito in precedenza. il motivo, peraltro, insiste, sul lungo distacco del D. presso il Ministero e sull'affidamento di mansioni di studio al suo rientro in Eni che, però, per le ragioni già dette non sono ragioni pertinenti per escludere l'illecita dequalificazione. Con il quinto motivo si allega la violazione dell'art. 112 con riferimento all'omessa pronuncia su altro motivi di appello. Si era dedotto che il D. nulla aveva provato in ordine al danno subito. Il motivo appare infondato in quanto non sussiste alcuna violazione dell'art. 112 c.p.c. posto che a pag. 8 della sentenza si osserva che il D. ha allegato tutte le circostanze idonee a configurare i pregiudizi subiti che sulla base degli elementi prima richiamati possono essere pertanto ritenersi provati . Con il sesto motivo si allega la violazione o falsa applicazione degli artt. 1226, 2103, 2087 e 2697 c.c. Non erano stati indicati in sentenza i concreti e specifici elementi in base ai quali erano stati valutati i parametri idonei a far presumere al Giudice la sussistenza di un danno da demansionamento. Con il settimo motivo si allega l'omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. La motivazione della sentenza impugnata è apparente non indicando elementi di fatto specifici. I motivi da esaminarsi congiuntamente essendo tra loro connessi sono infondati. La Corte di appello ha ricordato gli elementi in base ai quali secondo la giurisprudenza di legittimità il Giudice può liquidare in danno con un valutazione di tipo equitativo la quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpita, la durata del demansionamento, l'esito finale della dequalificazione tutte circostanze che sono ricostruite in sentenza anche per quanto riguarda la posizione specifica del D. , così come emergono ex actis la durata e l'entità del demansionamento, la qualifica rivestita e le condizioni soggettive del lavoratore che la Corte ha indicato come parametri per liquidare il danno concretamente subito. Non sussistono quindi carenze motivazionali della sentenza impugnata che ha ricostruito in dettaglio la vicenda lavorativa del D. in tutti i suoi aspetti. Con l'ottavo motivo si allega la violazione o falsa applicazione degli artt. 1226, 2103, 2087 e 2697 c.c L'Entità del danno era stata incrementata senza adeguata e razionale giustificazioni Con il nono motivo si allega l'omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia. Non erano state spiegate le ragioni per cui una liquidazione pari al 40% della retribuzione era da ritenersi più congrua di una liquidazione pari al 30% della retribuzione. I due motivi da trattarsi congiuntamente appare infondati per quanto già osservato. La Corte di appello ha ricordato gli elementi in base ai quali secondo la giurisprudenza di legittimità, il Giudice può liquidare in danno con un valutazione di tipo equitativo la quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpita, la durata del demansionamento, l'esito finale della dequalificazione tutte circostanze che sono ricostruite in sentenza anche per quanto riguarda la posizione specifica del D. , così come emergono ex actis la durata e l'entità del demansionamento, la qualifica rivestita e le condizioni soggettive del lavoratore che la Corte ha indicato come parametri per liquidare il danno concretamente subito. Non sussistono quindi carenze motivazionali della sentenza impugnata che ha ricostruito in dettaglio la vicenda lavorativa del D. in tutti i suoi aspetti. Si tratta inoltre di censure di merito dirette ad una rivalutazione del fatto come tale inammissibile in questa sede e che vorrebbero sostituire la valutazione della parte ricorrente a quella compiuta dal Giudice di appello che come detto ha allegato tutte le sue fonti di convincimento, che appaiono coerenti con la giurisprudenza di legittimità. Si devono quindi rigettare i proposti ricorso. Stante la reciproca soccombenza sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.