Il lavoratore muore nelle more del procedimento: la sospensione cautelare non può trasformarsi in sanzione disciplinare

In assenza di un procedimento disciplinare valido, come nel caso di decesso del lavoratore, la sospensione cautelare non può trasformarsi in sanzione disciplinare gli eredi hanno diritto al conguaglio tra l’indennità erogata al de cuius e la retribuzione dovuta, con incidenza sul TFR e sulla pensione di reversibilità

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13160 depositata il 25 giugno 2015. Il caso. Gli eredi di un dipendente della Pubblica Amministrazione esponevano che il loro de cuius , a seguito di rinvio a giudizio, era stato sospeso in via cautelare dal servizio, con privazione della retribuzione e corresponsione di un’indennità pari al 50% della retribuzione fissa mensile. Il lavoratore era poi stato assolto nel primo grado di giudizio e, dunque, era stato reintegrato in servizio. Nelle more del giudizio d’appello il lavoratore era deceduto, di tal che il processo si era concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per morte del reo. Per tali motivi gli eredi avevano chiesto il pagamento della parte di retribuzione non percepita dal de cuius durante il periodo di sospensione cautelare dal servizio, delle conseguenti differenze sul TFR, nonché, in qualità di titolari della pensione di reversibilità, la reintegrazione dei diritti previdenziali non maturati in dipendenza della sospensione. Il Ministero aveva invece comunicato la riattivazione del procedimento disciplinare a carico del defunto, che si era concluso con un licenziamento senza preavviso. La Suprema Corte, pronunciandosi in modo contrario rispetto ai giudici di merito, ha accolto il ricorso degli eredi del lavoratore, accertando il diritto dei medesimi al conguaglio di quanto corrisposto a titolo di indennità durante il periodo di sospensione con quanto dovuto a titolo di retribuzione, con ogni conseguenza sul TFR e sulla pensione di reversibilità. Il diritto al conguaglio. L’art. 27 del CCNL Comparto Ministeri del 16/5/1995 prevede il conguaglio tra l’indennità erogata durante la sospensione cautelare e la retribuzione piena dovuta solo nel caso di sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena. Negli altri casi vanno applicate le norme del codice civile in materia di effetti patrimoniali sfavorevoli conseguenti alla mancata esecuzione della prestazione, che distribuiscono tra i soggetti il diritto/dovere al conseguente risarcimento poiché vi è una lacuna di previsione nel contratto collettivo, la questione va risolta dalla pubblica amministrazione che, in sede di procedimento disciplinare, deve valutare la condotta dell’imputato nei suoi elementi soggettivi ed oggettivi. Secondo la Suprema Corte, il difetto di prestazione lavorativa non ha come conseguenza automatica la perdita del diritto alla retribuzione, poiché la misura cautelare – che di per sé è riconducibile solo al potere datoriale di autotutela durante il tempo occorrente alla definizione del procedimento penale sui fatti – reato, non può trasformarsi in sanzione disciplinare solo perché l’iniziativa disciplinare non sia stata validamente esercitata o non poteva essere esercitata come nel caso del decesso del lavoratore . Per tali motivi, il rischio della mancanza di prestazione deve essere posto a carico del datore di lavoro che, sospeso il rapporto di lavoro per un proprio interesse cautelativo, si assume il rischio dell’impossibilità di accertarne la legittimità con un procedimento disciplinare, come nel caso dell’intervenuta morte del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 marzo – 25 giugno 2015, n. 13160 Presidente Stile – Relatore Maisano Svolgimento del processo Con ricorso depositato il 1 aprile 2005 G.M.C. , D.B.D. e D.B.V. , eredi di D.B.S. , già dipendente del Ministero della Giustizia, in servizio presso il Tribunale di Palermo con qualifica di cancelliere C/1, deceduto il 2 dicembre 2000, esponevano che il loro de cuius, a seguito di rinvio a giudizio emesso dal GIP presso il Tribunale di Caltanissetta per il reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 e 346 c.p., con provvedimento del 9 ottobre 1997 era stato sospeso in via cautelare dal servizio, con privazione della retribuzione e corresponsione di un'indennità pari al 50% della retribuzione fissa mensile ma che, essendo stato assolto dal Tribunale di Caltanissetta con sentenza del 29 gennaio 1999, era stato riammesso in servizio con provvedimento del 29 marzo 1999. Aggiungevano che, conclusosi il giudizio di appello in data 27 novembre 2001 con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per morte del reo, divenuta irrevocabile il 9 aprile 2003, la G. aveva richiesto al Ministero il pagamento della parte della retribuzione non percepita dal marito durante il periodo di sospensione cautelare dal servizio, delle conseguenti differenze sul TFR nonché, quale titolare della pensione di reversibilità, la reintegrazione dei diritti previdenziali non maturati in dipendenza della sospensione, e che il predetto Ministero aveva comunicato che il procedimento disciplinare a carico del defunto marito era stato riattivato e definito, ai soli fini dell'eventuale reintegrazione patrimoniale ed alla luce dell'intervenuto esame delle risultanze del procedimento penale, con P.D.G. 16 ottobre 2003 di licenziamento senza preavviso, sicché la pretesa degli eredi del dipendente non poteva essere accolta. Eccepita, pertanto, l'illegittimità della decisione ministeriale di riattivare un procedimento disciplinare ormai definitivamente estinto a causa della morte del lavoratore e, comunque, l'invalidità della sanzione disciplinare adottata per violazione delle norme procedimentali inderogabili, di legge e di contratto collettivo, posta a garanzia del diritto di difesa dell'incolpato ovvero, in via subordinata, per violazione dei criteri di proporzionalità tra contestazione e sanzione, chiedevano la revoca del provvedimento di licenziamento con condanna del convenuto al pagamento della parte della retribuzione non percepita dal loro congiunto durante il periodo di sospensione dal servizio, nonché delle conseguenti differenze sul TFR, oltre al risarcimento dei danni morali da liquidarsi in via equitativa. Con sentenza del 18 gennaio 2008 il Tribunale di Palermo rigettava il ricorso considerando che il diritto alla retribuzione del lavoratore sospeso in via cautelare può essere riconosciuto solo in caso di sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena. Con sentenza del 23 novembre 2011 la Corte d'appello di Palermo ha confermato tale sentenza di primo grado considerando anche che il procedimento disciplinare a carico del defunto D.B. è stato giustificato dalla necessità di definire gli aspetti economici e giuridici connessi al periodo di sospensione cautelare, ed è stato regolare avendo rispettato la procedura prevista, ed anche la sanzione adottata è proporzionata ai fatti addebitati al lavoratore ed accertati in sede disciplinare. Gli eredi del D.B. hanno proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su due motivi. Il Ministero della Giustizia si è costituito al solo fine dell'eventuale partecipazione alla discussione. I ricorrenti hanno presentato memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo si lamenta la violazione della disciplina di cui agli artt. 24 e 25 CCNL Comparto Ministeri 1994/1997 così come modificati ed integrati dal CCNL 2002/2005. In particolare si deduce che la restituito ad integrum sarebbe prevista, non solo nel caso di assoluzione in sede penale con formula piena, dovendosi avere riguardo ad un procedimento disciplinare formalmente e correttamente adottato, mentre, nel caso in esame, la sanzione del licenziamento sarebbe stata adottata senza alcun formale procedimento disciplinare, al solo fine di escludere ogni diritto patrimoniale agli eredi del defunto lavoratore. Con il secondo motivo si deduce ancora la violazione della disciplina di cui agli artt. 24 e 25 CCNL Comparto Ministeri 1994/1997 così come modificati ed integrati dal CCNL 2002/2005, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 14 CCNL 2002/2005 omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si deduce che la sanzione disciplinare del licenziamento sarebbe stata adottata senza la formale riapertura del procedimento disciplinare e senza, in particolare, la formale contestazione degli addebiti comunque la sanzione inflitta sarebbe sproporzionata ai fatti addebitati. Ciò sarebbe confermato dal diverso trattamento riservato al dipendente Parsi Aldo per il quale, per fatti analoghi, è stato riattivato il procedimento disciplinare ed è stata adottata una sanzione conservativa. Il primo motivo di ricorso è fondato. La decisione impugnata si fonda sull'art. 27, comma 7 del CCNL comparto Ministeri del 16 maggio 1995 secondo cui, in caso di sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena, quanto corrisposto nel periodo di sospensione cautelare a titolo di indennità, verrà conguagliato con quanto dovuto al lavoratore se fosse rimasto in servizio. Orbene, va considerato che la norma contrattuale in questione non risolve la questione in esame in quanto, come già affermato da questa Corte Cass. 14 marzo 2012, n. 4061 , quest'ultima formula non consente di per sé alcuna conseguenza automatica, di integrale perdita degli assegni o, al contrario, di integrale spettanza. In altre parole i ricorrenti pongono a questa Corte la questione del diritto alla retribuzione per il dipendente che non abbia eseguito la sua prestazione per essere stato cautelativamente sospeso a causa di procedimento penale. La questione deve essere risolta partendo dalle norme del codice civile in materia di effetti patrimoniali sfavorevoli, conseguenti alla mancata esecuzione della prestazione lavorativa e che si distribuiscono nel modo seguente a qualora la mancanza della prestazione sia imputabile al lavoratore, questi perde il diritto alla retribuzione art. 1460 c.c. e deve risarcire l'eventuale danno sopportato dal datore di lavoro art. 1218 c.c. b qualora la mancanza della prestazione sia imputabile al datore di lavoro, questi dovrà risarcire il danno sopportato dal lavoratore art. 1207 c.c. , eventualmente nella misura delle retribuzioni da lui perdute c fatti impeditivi della prestazione, non imputabili a nessuna delle due parti del rapporto di lavoro forza maggiore factum principis , vengono talvolta considerati ed espressamente disciplinati dal legislatore che, discrezionalmente, distribuisce il rischio artt. 2110 e 2111 c.c. Nel caso di specie la lacuna di previsione del contratto collettivo che, come si è detto, non dispone al di fuori del caso di proscioglimento con formula piena, deve essere colmata in sede di interpretazione-applicazione. Ciò significa che, definito il procedimento penale, la questione va risolta dalla stessa Amministrazione che, in sede di procedimento disciplinare, deve valutare la condotta dell'imputato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi. È, pertanto, errata la tesi secondo la quale il difetto di prestazione lavorativa giustifica, in ogni caso, la mancata retribuzione in base ad una non meglio specificato principio generale di corrispettività . L'eventualità che il giudizio disciplinare reso dall'Amministrazione porti l'impiegato alla perdita definitiva degli assegni, per il periodo eccedente la durata della punizione, comporta che la misura cautelare si trasforma in parte qua in sanzione disciplinare pecuniaria. Tale regola si esprime nella provvisorietà e rivedibilità della misura cautelare, in quanto solo a termine e secondo l'esito dei detti procedimenti, si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella retrocessione, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti Corte Cost., sent. n. 168 del 1973 . Informando la vicenda in esame a tali principi, la regola iuris rinvenibile nell'Ordinamento per la disciplina dei casi considerati è quella per cui l'irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare si giustifica unicamente nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda con la destituzione, ora licenziamento, del lavoratore, giacché con la decisione definitiva cessa la ragion d'essere della misura cautelare. Negli altri casi in cui l'Amministrazione non abbia coltivato il procedimento disciplinare, conformando l'esercizio del potere disciplinare alle regole prescritte per il valido esercizio della potestà sanzionatoria, la trasformazione degli effetti della sospensione cautelare in una definitiva perdita della retribuzione dovuta non trova alcuna giustificazione nelle regole indicate, finendo essa per gravare il lavoratore di una sanzione disciplinare aggiuntiva, non tipizzata. 17. Un tale effetto conservativo della sospensione cautelativa, è impedito dal carattere di mera strumentalità dell'allontanamento cautelare del dipendente, che non può mai incidere in misura più gravosa di quella in funzione dell'effettività della quale è preordinata, nonché dal divieto generale di sospensioni unilaterali del rapporto di lavoro, con perdita definitiva della retribuzione. Ciò perché l'allontanamento cautelare del dipendente è riconducibile al potere datoriale di autotutela durante il tempo occorrente alla definizione del procedimento penale sui fatti-reato, in funzione preventiva di possibili pregiudizi al regolare funzionamento del servizio ed al prestigio dell'Amministrazione ed è destinato a produrre effetti, la quiescenza del rapporto di lavoro, finché non intervenga un provvedimento definitivo che sorregga o recida il rapporto tra amministrazione e dipendente. La sospensione cautelare è, proprio per sua natura, legata al procedimento disciplinare e al suo esito, e non può trasformarsi in sanzione disciplinare solo perché l'iniziativa disciplinare non sia stata validamente esercitata o non poteva essere esercitata nel rispetto dei tempi e modi prefissati. Nel caso in esame l'Amministrazione ha inteso promuovere il procedimento disciplinare proprio al fine di legittimare la sanzione pecuniaria in cui finiva per convertirsi la sospensione cautelare, ma tale possibile di promozione del procedimento disciplinare non era più possibile a causa dell'intervenuta morte del lavoratore. È di tutta evidenza l'impossibilità logica, prima ancora che giuridica, di un procedimento disciplinare a carico di un lavoratore deceduto. Fra l'altro non sarebbe possibile l'applicazione di tutte le norme poste a garanzia del diritto del lavoratore. Per quanto esposto più sopra, il rischio della mancanza di prestazione, in questo caso come detto, non disciplinato normativamente, deve essere posto a carico del datore di lavoro che, sospeso il rapporto per un proprio interesse cautelativo, si assume il rischio dell'impossibilità di accertarne la legittimità con un procedimento disciplinare, come nel caso dell'intervenuta morte del lavoratore. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d'appello di Catania che si atterrà al seguente principio di diritto In tema di sospensione cautelare dal servizio nell'impiego pubblico, l'art. 27, comma 7, ceni comparto Ministeri del 16 maggio 1995, nel prevedere che quanto corrisposto a titolo d'indennità all'impiegato nel periodo della suddetta sospensione deve essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse restato in servizio, solo in caso di proscioglimento con formula piena non consente di per sé alcuna conseguenza automatica, di integrale perdita degli assegni o, al contrario, di integrale spettanza. L'irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare si giustifica unicamente nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda con il licenziamento del lavoratore. In caso di intervenuto decesso del lavoratore il procedimento disciplinare non è più possibile. La mancanza della prestazione lavorativa deve essere posta a carico del datore di lavoro che, sospeso il rapporto per un proprio interesse cautelativo, si assume il rischio dell'impossibilità di accertarne la legittimità con un procedimento disciplinare, come nel caso dell'intervenuta morte del lavoratore. Lo stesso giudice del rinvio provvederà al regolamento delle spese di giudizio. P.Q.M. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Catania.