Litigio verbale prima e aggressione fisica poi, dinanzi ai clienti: licenziato

Diverbio clamoroso, tra gli scaffali, per due dipendenti di un supermercato. Sotto accusa, in particolare, la condotta del lavoratore che è anche passato alle vie di fatto verso il collega. Azioni gravissime, peraltro sotto gli occhi della clientela, e sufficienti a legittimare il licenziamento deciso dall’azienda.

Scontro tra gli scaffali del supermercato protagonisti due dipendenti. Tutto sotto gli occhi sorpresi e incuriositi dei clienti. In particolare, a uno dei due contendenti viene addebitato, dall’azienda, di avere dato prima il ‘la’ al diverbio e poi di essere passato direttamente alle mani, aggredendo il collega. Ciò è sufficiente, alla luce della ricostruzione dell’increscioso episodio, a legittimare il licenziamento deciso dalla società proprietaria della struttura commerciale. Cassazione, sentenza numero 10842, sezione lavoro, depositata oggi Diverbio. Passaggio decisivo, nella battaglia giudiziaria, è quello in Appello, dove i giudici, in controtendenza rispetto a quanto stabilito in Tribunale, dichiarano la legittimità del licenziamento deciso da una società – proprietaria di una nota catena di supermercati – nei confronti di un dipendente, resosi responsabile, nel contesto di una delle strutture disseminate in Italia, di un diverbio oltraggioso con un collega , con successivo ricorso alle vie di fatto . A rendere più grave l’episodio, poi, anche la constatazione che esso si è concretizzato in presenza della clientela . Decisiva, per i giudici, l’ attendibilità delle testimonianze , che non possono essere messe in discussione, nonostante i testi siano dipendenti della società datrice di lavoro . Rilevante, allo stesso tempo, anche il ‘peso specifico’ attribuibile alla condotta del dipendente, ‘protagonista’, come detto, di un diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, nocivo al normale esercizio dell’attività aziendale . Gravità. Dinanzi ai giudici della Cassazione, però, il lavoratore – oramai ex dipendente – batte nuovamente sulla tesi della ‘precaria’ valutazione delle prove in Appello, con particolare riferimento alla attendibilità dei testi. Perché, viene domandato, è credibile un dipendente della società , e non un cliente dell’esercizio commerciale , il quale propone una versione diversa del litigio? Allo stesso tempo, peraltro, l’uomo contesta la sanzione disciplinare espulsiva ritenendola non proporzionale rispetto alla condotta a lui addebitata. Ogni obiezione, però, si rivela inutile. Perché, per i giudici del ‘Palazzaccio’, è sostanzialmente corretta la visione adottata in Appello, sia sul valore delle deposizioni testimoniali che sul fronte della proporzionalità della sanzione adottata dall’azienda. Su quest’ultimo punto, in particolare, alla luce del contratto collettivo nazionale di settore , appare evidente la gravità delle azioni compiute dal dipendente, contrarie ai doveri civici . Ciò comporta, alla luce del diverbio litigioso ‘coronato’ dallo scontro fisico e sicuramente nocivo al normale esercizio dell’attività , la conferma della legittimità del licenziamento , con buona pace del lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 4 marzo – 26 maggio 2015, n. 10842 Presidente/Relatore Roselli Svolgimento del processo Con sentenza del 21 aprile 2012 la Corte d'appello dell'Aquila, in riforma della decisione emessa dal Tribunale di Teramo, rigettava la domanda proposta da A.P. contro la s.p.a. Lidi Italia ed intesa alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato il 5 luglio 2007 per diverbio oltraggioso con un collega, con ricorso alle vie di fatto, in presenza della clientela. Ad avviso della Corte l'attendibilità delle testimonianze, che avevano confermato i fatti di cui all'incolpazione, non poteva essere posta in dubbio per il solo fatto che i testi erano dipendenti dalla società datrice di lavoro. Il licenziamento poi era legittimo ai sensi degli artt. 271 e, 212, primo comma, e 221, terzo comma, del contratto collettivo nazionale di settore, che punivano la condotta del lavoratore contraria ai doveri civici ed il diverbio litigioso seguito da vie di fatto, nocivo al normale esercizio dell'attività aziendale. Contro questa sentenza ricorre per cassazione il P. mentre la s.p.a. Lidi Italia resiste con controricorso. Memorie utrinque. Motivi della decisione Col primo motivo il ricorrente lamenta vizi di motivazione sulla valutazione delle prove ed in particolare sull'attendibilità, quale teste, di un dipendente della società attualmente controricorrente, al quale si contrapporrebbe altro teste, cliente dell'esercizio commerciale. In particolare il ricorrente critica le ragioni di scelta tra tutte le complessive risultanze del processo ed il percorso formativo dei convincimento del collegio di merito, chiaramente lacunoso ed apodittico . Col secondo motivo egli denuncia ancora vizi di motivazione nella valutazione delle prove ed al giudizio di proporzionalità della sanzione disciplinare espulsiva, analizzando ancora le deposizioni testimoniali e ricordando come la nozione di giusta causa di licenziamento richieda la detta valutazione di proporzionalità. Quest'ultima censura viene sostanzialmente ripetuta nel terzo motivo di ricorso. I tre motivi, da esaminare insieme per la connessione, non sono fondati. Essi tendono infatti ad ottenere da questa Corte di legittimità nuovi apprezzamenti di fatto ed una rivalutazione delle deposizioni testimoniali, che sono riservati ai giudici di merito, i quali hanno reso una motivazione completa e coerente circa la sussistenza del comportamento ingiurioso e aggressivo addebitato all'attuale ricorrente. Quanto al giudizio di proporzionalità della sanzione, esso è motivato dalla Corte d'appello attraverso il riferimento a norme del contratto collettivo delle industrie del terziario e della distribuzione di servizi art. 212, primo comma 221, terzo comma e 271, quarto comma , senza esercizio della discrezionalità interpretativa richiesta dall'ari. 2119 cod. civ. Il quarto motivo è improcedibile poiché l'invocazione del detto contratto collettivo nazionale non è accompagnata dalla produzione dello stesso, richiesta dall'art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ, né dall'indicazione del luogo processuale in cui esso è stato acquisito agli atti. Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro cento/00, oltre ad euro tremila/00 per compensi professionali, più accessori di legge.