Avere una condizione su due non è sufficiente per ottenere il premio di fedeltà

In riferimento al premio di fedeltà previsto dal contratto collettivo di una società, in favore di lavoratori che abbiano maturato un’anzianità di 29 anni, 6 mesi e 1 giorno e siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni volontarie, la mera maturazione dell’anzianità del lavoratore è condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esigibilità del diritto al premio, in quanto il perfezionamento della fattispecie resta condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto. Di conseguenza, se il rapporto di lavoro del dipendente viene ceduto per effetto di cessione del ramo di azienda cui lo stesso era addetto, ed il contratto collettivo applicabile al cessionario non preveda il premio di fedeltà, deve essere escluso che tale premio spetti in favore del lavoratore, che pure avesse al tempo della cessione l’anzianità richiesta, non essendosi perfezionata all’epoca la fattispecie, che ne prevedeva la maturazione solo in caso di dimissioni del lavoratore.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 6943, depositata il 7 aprile 2015. Il caso. La Corte d’appello di Torino rigettava la domanda di un lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, di condanna al pagamento del premio di fedeltà già previsto dal contratto collettivo della Fiat s.p.a., alle cui dipendenze lavorava in precedenza, essendo poi divenuto dipendente della nuova società convenuta per effetto di cessione di ramo d’azienda. I giudici di merito rilevavano che il premio di fedeltà era condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto, operando solo in caso di dimissioni, e solo al momento di cessazione del rapporto, per cui, al momento della cessione del ramo di azienda, al lavoratore non competeva ancora alcun diritto per non essere questo maturato, ed essendovi solo una mera aspettativa, non esercitabile nei confronti del cessionario, il cui contratto collettivo nulla diceva. Il lavoratore ricorreva in Cassazione, contestando alla Corte d’appello di aver trascurato che il premio, pur proiettandosi al momento della conclusione del rapporto, era regolato dalle parti fin dall’inizio dello stesso, essendo previsto per il datore di lavoro un obbligo sospensivamente condizionato al verificarsi di una determinata situazione, per effetto di una clausola di uso aziendale direttamente penetrata nel contratto individuale ed operativa in favore dei singoli dipendenti fin dal momento dell’assunzione e, quindi, non modificabile da accordi collettivi peggiorativi intervenuti successivamente. Inoltre, deduceva che la Corte d’appello avesse consentito che una clausola di un contratto individuale preesistente venisse modificata da un contratto collettivo aziendale successivo meno favorevole, laddove il premio era sorto da una prassi aziendale che aveva natura di un uso negoziale, idoneo perciò ad inserirsi nel contratto individuale. Infine, lamentava che fosse stata trascurata l’unicità del rapporto di lavoro nel passaggio dal cedente al cessionario, con conseguente mantenimento di tutte le posizioni giuridiche soggettive del lavoratore. Sussisteva una sola condizione. La Corte di Cassazione rileva che la normativa aziendale prevedeva l’anzianità di 29 anni, 6 mesi e 1 giorno e la cessazione del rapporto per dimissioni volontarie come requisiti per la fruizione del premio. Il lavoratore, al momento del trasferimento del ramo di azienda, aveva maturato 30 anni di anzianità, ma il rapporto era ancora pendente. Di conseguenza, si era realizzata solo una delle condizioni previste, cioè l’anzianità, ma non la modalità di cessazione del rapporto. Le ragioni della cessazione del rapporto non potevano risultare indifferenti ai fini della concessione del premio, in quanto le parti avevano inteso conferirlo nei soli casi di cessazione del rapporto per dimissioni volontarie, con conseguente esclusione di altre ipotesi di cessazione del rapporto, come ad esempio il licenziamento. La mera maturazione dell’anzianità del lavoratore era, perciò, condizione necessaria ma non sufficiente per la maturazione del diritto al premio, per cui, restando il perfezionamento della fattispecie condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto, fino a tale momento la fattispecie costitutiva del diritto non si è perfezionata, e come tale non può essere conservata nel passaggio alle dipendenze del cessionario di azienda. Inoltre, la previsione dell’emolumento, non integrando un diritto quesito, entrato nel patrimonio del lavoratore, resta passibile di interventi esterni da parte della fonte negoziale, come avvenuto nel caso, dove, per effetto del trasferimento di ramo di azienda, trova applicazione la contrattazione collettiva propria del cessionario che non prevedeva più il premio. Perciò, in riferimento al premio di fedeltà previsto dal contratto collettivo di una società, in favore di lavoratori che abbiano maturato un’anzianità di 29 anni, 6 mesi e 1 giorno e siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni volontarie, la mera maturazione dell’anzianità del lavoratore è condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esigibilità del diritto al premio, in quanto il perfezionamento della fattispecie resta condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto. Di conseguenza, se il rapporto di lavoro del dipendente viene ceduto per effetto di cessione del ramo di azienda cui lo stesso era addetto, ed il contratto collettivo applicabile al cessionario non preveda il premio di fedeltà, deve essere escluso che tale premio spetti in favore del lavoratore, che pure avesse al tempo della cessione l’anzianità richiesta, non essendosi perfezionata all’epoca la fattispecie, che ne prevedeva la maturazione solo in caso di dimissioni del lavoratore. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 gennaio – 7 aprile 2015, n. 6943 Presidente Macioce – Relatore Buffa Svolgimento del processo Con sentenza del 27.2.2008, la corte d'appello di Torino, confermando la sentenza del 2.1.12 del 2007 del tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda di R.F. volta ad ottenere, nei confronti del proprio datore di lavoro Ceva Automotive Logistics Italia Sri, condanna al pagamento del premio di fedeltà già previsto dal contratto collettivo della Fiat s.p.a., alle cui dipendenze lavorava, essendo divenuto poi dipendente della nuova società per effetto di cessione di ramo di azienda. In particolare, mentre in primo grado il diritto del lavoratore era stato escluso in quanto non previsto dal contratto collettivo dell'attuale datore di lavoro cessionario del ramo di azienda, la corte d'appello ha escluso il diritto sulla base di diversa motivazione, in quanto il premio di fedeltà è condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto operando solo in caso di dimissioni e d'altra parte solo al momento di cessazione del rapporto, sicché al momento della cessione del ramo di azienda al lavoratore non competeva ancora alcun diritto per non essere questo maturato, ed essendovi solo una mera aspettativa, non esercitabile nei confronti del cessionario, il cui contratto collettivo nulla diceva. Avverso tale sentenza ricorre il lavoratore per tre motivi, cui resiste il datore con controricorso. Con il primo motivo si deduce - ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. - violazione dell'articolo 1342 del codice civile, per avere la sentenza impugnata trascurato che il premio invocato, pur proiettandosi al momento della conclusione del rapporto, era regolato dalle parti fin dall'inizio dello stesso, essendo previsto per il datore di lavoro un obbligo sospensivamente condizionato al verificarsi di una determinata situazione, per effetto di una clausola di uso aziendale direttamente penetrata nel contratto individuale ed operativa in favore dei singoli dipendenti fin dal momento dell'assunzione per quanto condizionata sospensivamente e, come tale, non modificabile da accordi collettivi peggiorativi intervenuti successivamente. Con il secondo motivo di ricorso si deduce - ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. - violazione dell'articolo 2077 comma secondo del codice civile, per avere la sentenza impugnata consentito che una clausola di un contratto individuale preesistente fosse modificata da un contratto collettivo aziendale successivo meno favorevole, laddove il premio in questione era sorto da una prassi aziendale che aveva natura di un uso negoziale, come tale idoneo ad inserirsi nel contratto individuale e ad integrarne il contenuto relativo. 5. Con il terzo motivo di ricorso si deduce - ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. - violazione dell'articolo 2112 del codice civile, per aver trascurato l'unicità del rapporto di lavoro nel passaggio dal cedente cessionario, con correlativo mantenimento di tutte le posizioni giuridiche soggettive del lavoratore. Motivi della decisione 6. Il ricorso non può trovare accoglimento. La normativa aziendale prevede l'anzianità di ventinove anni sei mesi ed un giorno e la cessazione del rapporto per dimissioni volontarie quali requisiti per fruire del premio in questione. Risulta dagli atti che il lavoratore, al momento del trasferimento del ramo di azienda, aveva maturato trenta anni di anzianità, ma il rapporto era ancora pendente. 7. In tale contesto, si era realizzata solo una delle condizioni previste dalla disciplina attributiva del premio, ossia la anzianità e non anche la modalità di cessazione del rapporto, sicché correttamente la corte territoriale ha ritenuto infondata la pretesa di corresponsione del premio, ritenendo l'emolumento da un lato spettante al momento di cessazione del rapporto e dall'altro condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto, operando solo in caso di dimissioni. 8. Il collegio condivide tale soluzione, atteso che le ragioni della cessazione del rapporto non sono indifferenti ai fini della concessione del premio, avendo inteso le parti conferirlo nei soli casi di cessazione del rapporto per dimissioni volontarie, escludendo così altre ipotesi di cessazione del rapporto lavorativo ritenute non meritevoli di altrettanta tutela premiale, come ad esempio il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo o per giustificato motivo oggettivo. 9. La mera maturazione dell'anzianità del lavoratore è condizione necessaria ma non sufficiente per la maturazione del diritto al premio, sicché, restando il perfezionamento della fattispecie condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto, fino a tale momento la fattispecie costitutiva del diritto non si è perfezionata e come tale non può essere conservata nel passaggio alle dipendenze del cessionario di azienda per altro verso, la previsione dell'emolumento, in quanto non ancora integrante un diritto quesito, entrato nel patrimonio del lavoratore, resta passibile di interventi esterni da parte della fonte negoziale, come avvenuto nel caso, ove, per effetto del trasferimento di ramo di azienda, trova applicazione la contrattazione collettiva propria del cessionario che non prevedeva più il premio in questione Sez. L, Sentenza n. 16635 del 05/11/2003 . 10. Può dunque affermarsi che, con riferimento al premio di fedeltà previsto dal contratto collettivo della Fiat s.p.a., in favore dei lavoratori che abbiano maturato un'anzianità di ventinove anni sei mesi ed un giorno e siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni volontarie, la mera maturazione dell'anzianità del lavoratore è condizione necessaria - ma non sufficiente - per la maturazione del diritto al premio, perché il perfezionamento della fattispecie resta condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto, avendo le parti sociali inteso attribuire il premio solo in presenza di date modalità di risoluzione del rapporto, escludendolo negli altri casi. Ne consegue, che, nel caso in cui il rapporto di lavoro del dipendente sia ceduto per effetto di cessione del ramo di azienda cui lo stesso era addetto, ed il contratto collettivo applicabile al cessionario non preveda il premio di fedeltà, deve escludersi che tale premio spetti in favore del lavoratore che pure avesse al tempo della cessione l'anzianità richiesta, non essendosi perfezionata all'epoca la fattispecie, che ne prevedeva la maturazione solo in caso di dimissioni del lavoratore. 11. Il ricorso va dunque rigettato. 12. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in Euro tremila per compensi, Euro cento per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.