Caso ILVA di Taranto: chiarimenti sul nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale

Ai fini della corretta applicazione della regola contenuta nell’art. 41 c.p. in tema di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo nel caso in cui possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni in ogni caso la valutazione sul punto deve tenere adeguatamente in considerazione l’attività lavorativa svolta dal lavoratore, con riguardo all’esposizione a fattori nocivi in relazione alla malattia contratta, e il tempo della stessa.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 6105, depositata il 26 marzo 2015. Il caso. Gli eredi di un dipendente dell’ILVA di Taranto, deceduto per carcinoma polmonare, avevano ottenuto il riconoscimento in loro favore della rendita ai superstiti per la morte del congiunto dovuta a malattia professionale. La Corte d’appello di Taranto, in accoglimento della domanda svolta dall’INAIL, aveva riformato la sentenza di primo grado, ritenendo che l’abitudine al fumo del de cuius incidesse sul nesso di causalità tra attività lavorativa e malattia, sì che la stessa non poteva essere qualificata come malattia professionale per carenza del requisiti della c.d. probabilità qualificata . Secondo la Corte d’appello era altamente probabile che la causa della morte non fosse stata l’esposizione a fattori di rischio connessi all’attività lavorativa ma l’abitudine al fumo mentre è certo che fumare un numero elevato di sigarette al giorno rende altamente probabile il rischio di contrarre un carcinoma polmonare non altrettanto può dirsi quanto alle polveri nocive, soprattutto se non è indicato il quantitativo delle stesse e se il periodo di esposizione lavorativa non sia stato particolarmente lungo. Il nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale. La Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado, ravvisando la sussistenza del vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria. Ricorda la Suprema Corte che in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p. per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. Ciò premesso, la Corte d’appello non ha fatto corretta applicazione di tale principio, non avendo riconosciuto come invece affermato anche dalla CTU la compresenza di due cause e avendo rigettato la domanda in base ad un giudizio di alta probabilità fondato su affermazioni non adeguatamente motivate e generiche.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 novembre 2014 – 26 marzo 2015, n. 6105 Presidente Lamorgese – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. La Corte di Appello di Lecce, con la sentenza n. 175 del 2007, decidendo sull'impugnazione proposta dall'INAIL nei confronti di D., R. W., R. N., R. M. e R. T., eredi di R. F., avverso la sentenza emessa del Tribunale di Taranto n. 5947 del 2005, accoglieva l'appello proposto dall'INAIL e per l'effetto, in riforma della impugnata decisione, rigettava la domanda proposta con ricorso depositato il 3 marzo 2003. 2. II Tribunale di Taranto, con la sentenza impugnata, aveva riconosciuto che la morte di R. Francesco era avvenuta per malattia professionale e aveva condannato l'INAIL al pagamento della rendita per i superstiti dal giugno 1994. 3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre D. C., prospettando due motivi di ricorso, assistiti da memoria depositata in prossimità dell'udienza. 4. Resiste l'INAIL con controricorso. Motivi della decisione 1. Occorre premettere che R. Francesco decedeva per collasso cardio-circolatorio in soggetto affetto da carcinoma polmonare e cardiopatia ischemica con grave insufficienza respiratoria lo stesso era stato dipendente dell'ILVA spa di Taranto dal 1964, per oltre venti anni, prestando attività lavorativa nel reparto acciaieria. 2. Gli eredi, nel ricorso di primo grado come riportato nel presente ricorso per cassazione e non contestato dall'INAIL nel controricorso , avevano chiesto al Tribunale di Taranto il riconoscimento in loro favore della rendita ai superstiti per la morte del congiunto dovuta a malattia professionale, contratta nell'ambito lavorativo, esponendo che il de cuius era stato dipendente dello stabilimento siderurgico tarantivo ILVA spa dal 1964, per oltre un ventennio, prestando attività lavorativa nel reparto acciaieria, e deducendo che lo stesso era rimasto giornalmente e continuativamente esposto a fumi, polveri, inquinanti, acidi, veleni e sostanze cancerogene quali catrame, acido cianidrico, acido solforico, amianto, ammoniaca. 3. La CTU svolta nel giudizio di primo grado, tenuto conto dell'attività del ricorrente, delle sostanze cui era stato esposto gas e vapori , della localizzazione della malattia neoplastica e della circostanza che il R. era fumatore, aveva concluso dichiarando che l'esposizione professionale non poteva essere esclusa come concausa nel determinare l'insorgenza della malattia neoplastica. 4. La Corte d'Appello nel richiamare le conclusioni della CTU afferma che non sono stati acquisiti dati di fatto inoppugnabili per sostenere che si sia di fronte ad una probabilità qualificata, dal momento che era pacifico che il lavoratore aveva lavorato presso l'ILVA poco più di venti anni e aveva l'abitudine del fumo con trenta sigarette al giorno, tanto da essere costretto ad un ricovero nel 1994. Si poteva dunque affermare che la causa della morte era altamente probabile che fosse stata non l'esposizione a fattori di rischio connessi all'attività lavorativa, quanto piuttosto l'abitudine al fumo che, specialmente se praticato con un numero consistente di sigarette, come nel caso di specie, espone ad un rischio elevatissimo di contrarre il carcinoma polmonare. Tra l'altro, precisava la Corte d'Appello, non andava trascurato che mentre è certo che fumare trenta sigarette al giorno rende altamente probabile il rischio di contrarre un carcinoma polmonare, non altrettanto può dirsi quanto alle polveri indicate nell'atto introduttivo, anche perché non è stato indicato né accertato il quantitativo di esse e, come visto, il periodo di esposizione lavorativa non pare sia stato particolarmente lungo. 5. Tanto premesso, può passarsi all'esame dei motivi di ricorso. 6. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell'art. 360, n. 5, cpc. Espone la ricorrente che la Corte d'Appello avrebbe motivato in modo insufficiente e parzialmente omissivo circa le ragioni per le quali aveva ritenuto che il decesso di R. Francesco fosse conseguenza esclusiva del fatto che lo stesso fosse fumatore e perché tale abitudine fosse il motivo predominante dell'insorgenza del tumore. 11 rilevo del lungo tempo di lavoro trascorso all'ILVA, la non riconducibilità del ricovero del 1994 al tabagismo, le risultanze della CTU, costituivano elementi rispetto ai quali si palesava il suddetto vizio di motivazione. 7. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto il vizio di cui all'art. 360, n. 3, cpc. La Corte d'Appello avrebbe violato gli artt. 416, terzo comma e 420 cpc, non ritenendo acquisiti i fatti di causa non specificamente e tempestivamente contestati. In mancanza di contestazioni della CTU in primo grado, non potevano trovare ingresso in appello note di un medico non nominato consulente di parte nè dinanzi al Tribunale nè alla Corte di appello. La Corte d'Appello avrebbe dovuto ammettere i mezzi di prova richiesti nelle due fasi del giudizio con riguardo all'abitudine al tabagismo, alla presenza di polveri, acidi ecc. presenti sul posto di lavoro, alle mansioni del lavoratore. 8. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono fondati e devono trovare accoglimento nei limiti di seguito precisati. Questa Corte, con giurisprudenza consolidaT& amp affermato cfr., fra le altre, Cass. n. 23990 del 2014, n. 23207 del 2014, Cass. n. 14770 del 2008 Cass. n. 13361 del 2011 che in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cp, per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. Nella specie, la Corte d'Appello non ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, atteso che essa stessa ha riconosciuto, come affermato dalla CTU, la compresenza di due cause, rigettando, quindi, la domanda in base ad un giudizio di alta probabilità fondato su affermazioni non adeguatamente motivate e generiche mentre è certo che fumare trenta sigarette al giorno rende altamente probabile il rischio di contrarre un carcinoma polmonare, non altrettanto può dirsi quanto alle polveri indicate nell'atto introduttivo, anche perché non è stato indicato né accertato il quantitativo di esse e, come visto, il periodo di esposizione lavorativa non pare sia stato particolarmente lungo , che danno luogo a motivazione insufficiente e contraddittoria, atteso che solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge, valutazione nella cui effettuazione va adeguatamente presa in considerazione l'attività lavorativa svolta dal lavoratore, con riguardo all'esposizione a fattori nocivi in relazione alla malattia contratta, ed il tempo dello stessa. 9. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte di Appello di Bari che dovrà attenersi ai sopra esposti principi. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente qiudizio alla Corte di Appello di Bari.