Arrestato: l’azienda lo licenzia…ma per la Cassazione non è assenza ingiustificata

Un provvedimento restrittivo della libertà personale, che impedisca contatti con l’esterno, cui è sottoposto il lavoratore per fatti estranei al rapporto con il datore non costituisce un inadempimento contrattuale, ma integra soltanto l’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione. Ai fini di un eventuale licenziamento occorre verificare se il datore continui ad avere un apprezzabile interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto e il primo, affinché il licenziamento si possa ritenere legittimo, deve provare in giudizio di aver effettuato tale valutazione.

Questo è il principio affermato dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 26115, depositata l’11 dicembre 2014. Il caso impugnazione di licenziamento intimato per assenza ingiustificata del lavoratore per oltre cinque giorni. Un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli a motivo della propria assenza in quanto tratto in arresto per fatti estranei al rapporto di lavoro. Riteneva l’azienda sussistere una situazione di assenza ingiustificata dal lavoro. Il Tribunale del lavoro accoglieva la domanda, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, con condanna alla reintegrazione ed al pagamento di tutte le retribuzioni maturate tra licenziamento e reintegrazione effettiva. Proponeva appello l’azienda, e la Corte d’Appello riformava parzialmente la sentenza di primo grado, confermando l’illegittimità del licenziamento ma limitando il quantum delle retribuzioni dovute a decorrere dalla data del tentativo di conciliazione allora obbligatorio . Ricorreva in Cassazione l’azienda per la riforma della sentenza d’appello. Il provvedimento restrittivo della libertà come causa di impossibilità sopravvenuta La controversia decisa dalla Corte trae origine da un provvedimento di arresto attuato nei confronti del lavoratore. Questi, al momento dell’esecuzione dell’arresto comunicava al datore di lavoro la propria impossibilità a recarsi al lavoro per motivi di carattere personale, chiedendo la concessione di aspettativa fino all’ottenimento della scarcerazione. L’azienda, dal suo canto, contestava al lavoratore l’assenza ingiustificata e in mancanza di adeguate giustificazioni procedeva con il licenziamento. Impugnato così il provvedimento espulsivo, i giudici di merito di entrambi i gradi lo ritenevano ingiustificato. Osservava la Corte di merito che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, un provvedimento restrittivo della libertà personale, tale da impedire contatti personali con l’esterno costituisce una causa di impossibilità sopravvenuta a rendere la prestazione lavorativa cui il lavoratore è contrattualmente tenuto. il datore di lavoro deve dare la prova del venir meno dell’interesse alla prestazione. Consegue, osserva la Suprema Corte, che il rapporto di lavoro con il lavoratore rimane in uno stato di quiescenza finché non cessi l’impedimento che lo ha generato. Salvo che l’azienda non dimostri il venir meno dell’interesse alla prosecuzione del vincolo contrattuale, dando prova anche di aver effettuato tale valutazione. Nel caso in esame, la prova della valutazione circa tale interesse al mantenimento del rapporto lavorativo è mancata. Da ciò deriva l’illegittimità del licenziamento intimato. L’art. 7 l. n. 300/1970 prevale sulle diverse norme contrattuali in materia di procedimento disciplinare. La sentenza in esame afferma inoltre un ulteriore principio riguardante l’applicabilità del procedimento disciplinare previsto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori a tutte le categorie di lavoratori, anche in presenza di diverse norme procedurali previste dalla contrattazione collettiva applicata. La ricorrente si doleva che la Corte di merito aveva ritenuto applicabile, ai fini del risarcimento conseguente all’illegittimità del licenziamento, l’articolo 18 dello Statuto, anziché le norme specifiche previste dal CCNL nella specie quello di autoferrotranviere, r.d. n. 148/1931 . Afferma al contrario la Suprema Corte, che tutte le sanzioni disciplinari, comprese anche nel contratto collettivo di riferimento, debbono venire contestate secondo quanto previsto dall’art. 7 l. n. 300/1970 norma che attribuisce al lavoratore ampie garanzie di difesa, più ampie e favorevoli rispetto a quelle pattiziamente previste. Con la conseguenza che, una volta accertata l’illegittimità del recesso intimato, il relativo risarcimento si fonderà sull’art. 18 della medesima legge. In sintesi dunque, il ricorso proposto è stato ritenuto totalmente infondato e rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 novembre – 11 dicembre 2014, n. 26115 Presidente Roselli – Relatore De Renzis Svolgimento del processo I. Con ricorso, depositato il 14.06.2005, R.N. , conducente di linea alle dipendenze della SAIA TRASPORTI S.p.A. di Brescia, impugnava il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro adottato nei sui confronti ai sensi dell'art. 45, comma 16, All. A al RD n. 148 del 1931, in relazione al assenza arbitraria dal servizio per oltre cinque giorni. La vicenda è da ricondurre ad arresto improvviso del R. per condanna penale per omicidio colposo e alla conseguente assenza dal lavoro, che il dipendente giustificava con problemi personali invocati per ottenere aspettativa fino alla scarcerazione, mentre la datrice di lavoro gli contestava assenza ingiustificata e, in mancanza di chiare spiegazioni, provvedeva al suo licenziamento. II. Il Tribunale di Brescia con sentenza n. 326 del 2009 annullava il licenziamento e condannava la società datrice di lavoro alla riassunzione del R. e alla corresponsione di tutte le retribuzioni nel frattempo maturate, non essendovi correlazione tra contestazione degli addebiti e motivazione del provvedimento espulsivo e tenuto conto delle giustificazioni date dal R. circa la sua assenza dal lavoro. III. Tale decisione, impugnata dalla società, è stata parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Brescia con sentenza n. 181 del 2010. che ha condannato la datrice di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al risarcimento del danno nella misura di cinque mensilità globali di fatto, nonché al pagamento delle retribuzioni, maturate dalla data del tentativo di conciliazione 18 maggio 2005 fino all'effettivo reintegro, oltre accessori, e alla regolarizzazione contributiva ed assicurativa. La Corte ha così argomentato - il R. in data 17.11.2004 avvertiva l'azienda di essere trattenuto dai Carabinieri e di non poter riprendere servizio per qualche giorno - il provvedimento restrittivo penale doveva qualificarsi come causa di impossibilità sopravvenuta ex art. 1464 Cod.Civ. - l'azienda avrebbe dovuto - per giustificare il licenziamento - motivare sulla carenza di interesse a proseguire il rapporto di lavoro con il R. il che non era dato riscontrare - l'art. 7 della legge n. 300 del 1970, contrariamente all'assunto della società, è applicabile anche nell'ambito del trasporto pubblico - il risarcimento del danno poteva essere contenuto nella misura di cinque mensilità della retribuzione,in quanto le ragioni dell'illegittimità del licenziamento erano state chiarite non immediatamente. IV. La SAIA TRASPORTI ricorre per cassazione con sei motivi, illustrati con memoria ex art. 378 CPC. Il R. resiste con controricorso. Motivi della decisione 1.1 Con il primo motivo la ricorrente lamenta vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo, riguardante la comunicazione del lavoratore all'azienda dell'assenza dal lavoro dovuta a fatto del terzo cattura da parte dei Carabinieri in esecuzione di ordine di carcerazione per espiazione di pena detentiva . Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 45, comma 16 - RD n. 148 del 1931, nonché dell'art. 1464 Cod. Civ., con riferimento alla valutazione dell'impedimento del lavoratore in relazione al suo stato di detenzione, che si assume essere stato tenuto nascosto. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione dell'anzidetta norma con riferimento all'assenza di oltre cinque giorni, posto a base del licenziamento. 1.2. Le censure, contenute negli esposti motivi da esaminarsi congiuntamene per la loro stretta correlazione, sono infondate. Va premesso al riguardo che in base ad un principio di carattere generale non é sufficiente la giustificazione dell'assenza dal lavoro per il primo giorno, occorrendo la giustificazione in tal senso anche per tutti i restanti giorni. Orbene nel caso di specie è risultato che per il primo giorno non vi fu giustificazione dell'assenza dal servizio del R. o la stessa fu ambigua, mentre per i restanti quattro giorni lo stesso lavoratore, proprio perché detenuto, si trovò nell'impossibilità di chiarire con la direzione aziendale la sua posizione. In questa situazione correttamente il giudice i appello ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale, secondo cui un provvedimento restrittivo della libertà personale, che impedisce contatti personali con l'esterno, deve qualificarsi come causa di impossibilità sopravvenuta temporanea della prestazione lavorativa, in ordine alla quale opera il meccanismo legale della sospensione del rapporto di lavoro, che rimane in quiescenza, finché non cessi l'impedimento e 'azienda non dimostri che sia venuto meno il suo interesse alla prosecuzione del vincolo contrattuale cfr Cass. n. 22536 del 5 settembre 2008 ed altre conformi decisioni . Tale valutazione non risulta effettuata dalla società datrice di lavoro prima dell'intimazione del licenziamento al R. , dal che correttamente il giudice di merito ha dedotto l'illegittimità del licenziamento. 3. Con il quarto motivo la ricorrente contesta l'impugnata sentenza, per avere ritenuto applicabile - ai fini del risarcimento del danno conseguente a licenziamento illegittimo - l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, laddove nel caso di specie, trattandosi di autoferrotranviere, la disciplina da prendere in considerazione è quella speciale del RD n. 148 del 1931. Il motivo è infondato. Al riguardo è condivisibile l'assunto del giudice di appello, che, in conformità ad orientamento di questa Corte in particolare Cass. n. 10303 del 17 maggio 2005 , ha ritenuto che tutte le sanzioni, comprese o meno formalmente tra quelle disciplinari dal RD n. 148 del 1931, non possano che venire contestate secondo quanto previsto dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970. Tale norma attribuisce al lavoratore una garanzia più ampia di quella prevista dalle norme contrattuali e si sostituisce alla normativa pattizia, in quanto una eventuale sottrazione di una categoria di lavoratori lederebbe gli interessi protetti dagli artt. 4 e 36 Cost Va ribadito che la specialità del rapporti degli autoferrotranvieri non può estendersi fino al punto di riservare al lavoratore un trattamento deteriore in materia di garanzie costituzionalmente rilevanti, con la conseguenza che la nuova disciplina di livello legislativo sostituisce la precedente, meno garantista e di livello contrattuale. 4. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta falsa applicazione dell'art. 1218 Cod. Civ., non essendo sufficiente richiamare l'eventuale illegittimità del licenziamento per ottenere il risarcimento, ma essendo necessaria la prova del danno subito in relazione al comportamento del datore di lavoro, nonché la dimostrazione dell'offerta della prestazione, cui faccia riscontro un rifiuto della stessa e conse-guentemente il verificarsi della mora accipiendi , in forza della quale chiedere il risarcimento. La doglianza non è fondata, avendo la Corte territoriale fatto buongoverno dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, giacché, accertata l'illegittimità del licenziamento, ha applicato il regime sanzionatorio previsto da tale norma, con la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. 5. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 27 RD n. 148/1931, dell'art. 3, punto b del DLgs n. 414 del 1996, dell'art. 6 della legge n. 154 del 1982. La censura cosi formulata è priva di pregio e va disattesa, in quanto l'impugnata sentenza cfr pag. 10 ha puntualiz-zato, con congrua e logica motivazione e rispondendo al rilievo dell'appellante società, che l'argomentazione, secondo cui il R. non avrebbe potuto essere reintegrato nelle mansioni di conducente di pullman per ragioni di età superamento di anni 60 , non era condivisibile, perché in atti non solo vi era prova del rilascio dell'autorizzazione amministrativa a seguito di revisione, ma perché la reintegrazione avrebbe potuto essere attuata anche in mansioni equivalenti, e non necessariamente di guida. 5. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.