Nel rito del lavoro il “potere” del giudice è “dovere”

La regula iuris secondo cui nel rito del lavoro l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere – dovere.

Questo il principio che la Corte di Cassazione ha ribadito nella sentenza n. 26107, depositata l’11 dicembre 2014. Il fatto. La Corte d’appello di Messina, confermando la sentenza del Tribunale, accoglieva la domanda riconvenzionale proposta dalla società Assicurazioni, rigettando la domanda principale di una donna, diretta alla condanna della predetta società al risarcimento dei danni, e condannava la donna al pagamento in favore della società di una somma a titolo di premi non incassati e non versati. Contro tale decisione la soccombente propone ricorso per cassazione, denunciando la sentenza impugnata per non aver utilizzato la Corte d’appello la documentazione in suo possesso e per non aver permesso il proseguimento della prova orale vertente, appunto, sulla avvenuta estinzione del debito. Il Collegio ritiene che la motivazione della sentenza impugnata è sicuramente illogica. Illogicità della motivazione. Infatti, il giudice d’appello, pur rilevando che la controparte non aveva contestato la documentazione allegata dalla donna concernente il versamento di somme di denaro in favore della società e che la stessa documentazione costituiva un principio di prova, non ammette, poi, la prova per testi pur articolata dalla donna, nonostante la stessa verteva proprio sull’effettivo versamento di somme di denaro in favore della società. Regula iuris. Ricorda allora la Corte che costituisce un principio costante nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale la regula iuris secondo cui nel rito del lavoro, ai sensi degli artt. 421 e 437 c.p.c., l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere – dovere. Per tali ragioni la S. C. ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte d’appello.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 ottobre – 11 dicembre 2014, numero 26107 Presidente Vidiri – Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello di Messina, confermando la sentenza del Tribunale di quella stessa sede, accoglieva la domanda riconvenzionale proposta dalla società D'Eass assicurazioni in liquidazione coatta amministrativa e per l'effetto, rigettando la domanda principale di I.R., diretta alla condanna della predetta società al risarcimento dei danni, condannava I.R. al pagamento in favore della società D'Eass Assicurazioni della somma di € 882757,95 per premi non incassati e non versati. La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, rilevava, preliminarmente, che il Tribunale aveva trascurato di considerare che attraverso la documentazione in atti la I. aveva dato un principio di prova relativamente al pagamento di cospicue somme di danaro in estinzione del debito contratto nei confronti della società D'Eass Assicurazioni senza che quest'ultima avesse, nella memoria costitutiva, assunto una precisa posizione sui pagamenti suddetti e sulle ricevute allegate, alcune delle quali recavano la sottoscrizione del legale rappresentante della società, limitandosi genericamente a dichiarare che nulla era stato pagato in adempimento del debito. Tuttavia la Corte territoriale, poiché la I., pur autorizzata ad acquisire presso gli istituti di credito informazioni circa gli allegati versamenti ed a citare come teste M.D.L. - allora legale rappresentante della società - che aveva sottoscritto un documento riguardante l'avvenuta ricezione di somme, non aveva fornito alcuna dimostrazione dei dedotti versamenti perché le banche interpellate per il tempo trascorso,, non erano in grado di fornire chiarimenti e il D.L. era deceduto, riteneva che la prova dell'asserito adempimento del debito non era stata fornita e, quindi, avendo la società di Assicurazioni provato il proprio credito con i verbali ispettivi agli atti la I. andava condannata al pagamento di quanto richiesto. Avverso questa sentenza la I. ricorre in cassazione sulla base di due censure. Resiste con controricorso la società intimata. Motivi della decisione Con il primo motivo parte ricorrente, deducendo vizio di motivazione, sostiene che la sentenza impugnata è affetta da grave vizio, per non avere la Corte d'Appello utilizzato, ai fini della decisione della causa, la documentazione in suo possesso, che non è mai stata disconosciuta dalla controparte e che recava alto grado di affidabilità e credibilità in considerazione del fatto che la ricorrente aveva correttamente indicato ulteriori testimoni che avrebbero ben potuto rispondere sulle circostanze articolate all'udienza del 5/12/2002 e ben avrebbero e potranno confermare che la I. ha eseguito i pagamenti per l'estinzione del debito . Con la seconda censura parte ricorrente, denunciando ex art. 360 numero 5 cpc carente ricognizione dei fatti di causa - parziale ed illogico esperimento della fase istruttoria, assume che la Corte del merito, nonostante avesse dato atto dell'esistenza di un principio di prova circa il pagamento di cospicue somme alla società Assicurazioni che nulla aveva dedotto in senso contrario ha,p oi, illogicamente ed immotivatamente impedito il proseguimento della prova orale, pu articolata, vertente, appunto sulla avvenuta estinzione del debito. Le censure, che in quanto strettamente connesse da punto di vista logico e giuridico vanno trattate unitariamente, sono fondate. Rileva questa Corte che nella motivazione della sentenza impugnata vi è una palese illogicità laddove il giudice di appello, pur rilevando che la documentazione allegata dalla I. concernente il versamento di somme di danaro in favore della società Assicurazioni non era stata contestata in modo specifico dalla controparte e che la stessa costituiva un principio di prova, non ammette, poi, la ulteriore prova per testi pur articolata dalla I. ancorché la stessa fosse vertente, come si desume dai capitolati di prova - trascritti, in -adempimento del principio di autosufficienza, nel ricorso per cassazione - proprio sull'effettivo versamento di somme di danaro in favore della società. Né certo l'impossibilità, di cui la sentenza impugnata dà conto, per il tempo trascorso, palesata dagli istituti di credito di fornire informazioni circa la copia degli assegni allegati ovvero l'avvenuto decesso dell'allora rappresentante della società che quietanzò il versamento da parte della I. di una cospicua sgomma di danaro, rappresentano una logica e motivata non ammissione del richiesto ulteriore espletamento di prova per testi specie a fronte della ritenuta esistenza di un principio di prova favorevole alla I. e non specificamente disconosciuto dalla controparte. Né può sottacersi che costituisce principio acquisito alla giurisprudenza di questa Corte la regula iuris secondo la quale nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere - dovere per tutte v. Cass. S.U. 17 giugno 2004 numero 11353 e Cass. 25 luglio 2011 numero 16182 . Il ricorso, pertanto, va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Catania. Si dà atto della non sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, del DPR numero 115 del 2002 introdotto dall'art. 17 della legge numero 228 del 2012. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Catania. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR numero 115 del 2002 introdotto dall'art.l, comma 17, della L. numero 228 del 2012 si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.