Non basta il giustificato motivo oggettivo per rendere legittimo il recesso

La mera soggettiva valutazione di inutilità della prestazione lavorativa da parte del datore o l’esistenza di una situazione di crisi aziendale non integra, di per sé, un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, con la sentenza n. 25902, depositata il 9 dicembre 2014. Clausola di stabilità il datore può licenziare il dirigente per crisi aziendale? La pronuncia in commento trae origine dal giudizio promosso dal dirigente licenziato per giustificato motivo oggettivo, nonostante la clausola di stabilità pattuita nel contratto individuale limitasse espressamente il recesso datoriale ai soli casi di giusta causa ex art. 2119 c.c., così garantendo al dirigente una stabilità del rapporto per almeno 8 anni. All’esito del giudizio di merito, il licenziamento è stato ritenuto legittimo atteso che, a fronte della messa in cassa integrazione di gran parte del personale, doveva ritenersi che la società non traesse più alcuna utilità dalla prestazione lavorativa del dirigente. Né la clausola di stabilità poteva escludere l’applicazione dei generali principi civilistici in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione. I giudici di merito, pertanto, hanno respinto la domanda relativa al risarcimento dei danni per violazione della clausola di stabilità, accogliendo soltanto la domanda volta al pagamento dell’indennità supplementare prevista dall’accordo interconfederale del 27/4/1995. Tra giustificato motivo oggettivo e clausola di stabilità chi la spunta? La pronuncia in commento ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’impossibilità sopravvenuta della prestazione disciplinata in via generale dagli artt. 1463 e ss. cod. civ. può farsi valere mediante il tramite del giustificato motivo oggettivo che, ex art. 3, legge n. 604/1966, può legittimare il licenziamento Cass., n. 6154/1999 , sebbene non possa dirsi che i due concetti abbiano aree di operatività coincidenti. La Suprema Corte ha, altresì, ricordato i propri precedenti che hanno riconosciuto la validità della clausola di stabilità del rapporto di lavoro per una durata minima garantita che si traduce in una preventiva rinuncia del datore di lavoro alla facoltà di recesso e, quindi, in una maggiore garanzia per il lavoratore Cass., n. 13335/2014 . Pertanto, questi, in ipotesi di anticipata ed ingiustificata risoluzione del rapporto di lavoro da parte del datore, ha diritto al risarcimento del danno. L’impossibilità della prestazione non è automatica in caso di crisi aziendale. La pronuncia in commento risolve la questione affermando che è pur vero che anche nei contratti garantiti da clausola di durata minima è possibile fare applicazione degli ordinari rimedi sinallagmatici fra cui quello della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione Cass., n. 14871/2004 nondimeno, non integra impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 cod. civ. la mera soggettiva valutazione di inutilità della prestazione lavorativa da parte del suo creditore o l’esistenza di una situazione di crisi aziendale che determini il ricorso alla cassa integrazione guadagni per la maggior parte dei dipendenti, poiché ciò, di per sé, non implica alcuna automatica irrilevanza della prestazione del singolo dirigente. Nessuna equiparazione tra giusta causa” tra giustificato motivo oggettivo”. Nella fattispecie che ha dato origine alla pronuncia in commento la formulazione della clausola di stabilità era, anche da un punto di vista strettamente letterale, inequivocabile nello stabilire che, negli otto anni di stabilità garantita, il licenziamento del dirigente sarebbe potuto avvenire soltanto per mancanze di gravità tale da integrare gli estremi della giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. e da minare irrimediabilmente il rapporto fiduciario. Nonostante ciò, i giudici di merito hanno erroneamente ritenuto che l’esemplificazione contenuta nella medesima previsione contrattuale, pur riferendosi a casi di gravi mancanze del lavoratore, potesse estendersi anche a quelli estranei alla sua responsabilità, come quelli relativi ad eventuali crisi aziendali, senza però considerare che il giustificato motivo oggettivo, per sua stessa natura, prescinde da qualsivoglia inadempimento del lavoratore, mentre la clausola in questione parla espressamente di sole mancanze, ovvero di inadempimenti. Allargare la clausola in questione anche al giustificato motivo oggettivo significa, in sostanza, esporre il rapporto alle stesse vicende risolutive che avrebbe potuto soffrire anche in assenza del patto, in tal modo vanificandone la garanzia di stabilità, in spregio dell’art. 1367 c.c., secondo cui, nel dubbio, le clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 ottobre – 9 dicembre 2014, n. 25902 Presidente Stile – Relatore Manna Svolgimento del processo Con sentenza 15.7.09 il Tribunale di Perugia, ritenuto legittimo il licenziamento intimato il 21.9.04 con decorrenza 30.9.04 per crisi aziendale da TRAFOMEC S.p.A. al dirigente G.E. , adibito a mansioni di consulente in Ente di Staff controllo flussi industriali , condannava la prima a pagare al secondo l'indennità supplementare prevista dall'art. 19 dell'accordo interconfederale 27.4.95 nonché il risarcimento dei danni per violazione della clausola di stabilità pattuita nel contratto individuale stipulato tra le parti, che prevedeva a favore del dirigente una stabilità per 8 anni a decorrere dal 1.7.2000. In parziale accoglimento dell'appello della TRAFOMEC S.p.A., con sentenza depositata il 19.5.11 la Corte d'appello di Perugia rigettava la domanda relativa al risarcimento dei danni per violazione della clausola di stabilità, confermando nel resto la pronuncia di prime cure e rigettando l'appello incidentale di G.E. . Statuivano a riguardo i giudici d'appello che, assodato che gran parte del personale era stato collocato in CIG e non essendovi prova contraria, doveva li ritenersi che la società non traesse più utilità alcuna dalla prestazione lavorativa del G. , sicché il licenziamento era giustificato, non escludendo la clausola di stabilità l'applicazione dei generali principi civilistici in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione. Per la cassazione della sentenza della Corte territoriale ricorre G.E. affidandosi ad un solo articolato motivo. TRAFOMEC S.p.A. resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1- Con unico articolato mezzo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e vizio di motivazione nella parte in cui la gravata pronuncia ha ritenuto che la clausola di stabilità pattuita tra le parti, che pur espressamente limitava il licenziamento del dirigente G.E. ai soli casi di giusta causa ex art. 2119 c.c., potesse estendersi anche alle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per asserita crisi aziendale. Il ricorrente si duole altresì di violazione e falsa applicazione di norme di diritto là dove l'impugnata sentenza non ha verificato se il rapporto si sarebbe potuto interrompere alla luce delle pattuizioni contenute nel contratto individuale ed ha sostanzialmente addossato al lavoratore l'onere di provare la possibilità, per la TRAFOMEC, di utilizzarlo in altre mansioni. 2- Premesso che - contrariamente a quanto eccepito dalla società controricorrente - il mezzo è ammissibile perché conferente rispetto alla motivazione della gravata pronuncia, che muove dal presupposto erroneo su ciò v. meglio infra che la clausola di stabilità per cui è processo debba intendersi come non impeditiva del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve darsi atto della fondatezza del ricorso nei sensi qui di seguito chiariti. Sebbene con accenti diversi, nella giurisprudenza di questa S.C. si è di sovente affermato che l'impossibilità sopravvenuta della prestazione disciplinata in via generale dagli artt. 1463 e ss. c.c. possa farsi valere mediante il tramite del giustificato motivo oggettivo che ex art. 3 legge n. 604/66 può legittimare il licenziamento cfr., ad esempio, Cass. n. 6154/99 , sebbene non possa dirsi che i due concetti abbiano aree di operatività coincidenti. Questa S.C. ha anche più volte statuito cfr., ex aliis, Cass. n. 13335/2014 Cass. n. 19903/2005 Cass. n. 100043/96 che è valida la clausola di stabilità del rapporto di lavoro per una durata minima garantita, che si traduce in una preventiva rinunzia del datore di lavoro alla facoltà di recesso e, quindi, in una maggiore garanzia per il lavoratore. Pertanto questi, in ipotesi di anticipata e ingiustificata risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro, ha diritto al risarcimento del danno. È pur vero che anche nei contratti garantiti da clausola di durata minima è possibile fare luogo all'applicazione degli ordinari rimedi sinallagmatici fra cui quello della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione cfr. Cass. n. 14871/04 nondimeno, non integra impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c. la mera soggettiva valutazione di inutilità della prestazione lavorativa da parte del suo creditore o l'esistenza d'una situazione di crisi aziendale che determini il ricorso alla cassa integrazione guadagni per la maggior parte dei dipendenti, poiché ciò di per sé non implica alcun automatica irrilevanza della prestazione del singolo dirigente. Il rilievo che precede introduce la disamina dell'ulteriore profilo attinente all'impraticabilità, nella vicenda in esame, d'un recesso per giustificato motivo oggettivo. Invero - come denunciato in ricorso - la formulazione della clausola di stabilità era, anche da un punto di vista strettamente letterale, inequivocabile nello stabilire che negli otto anni di stabilità garantita il licenziamento del dirigente G.E. sarebbe potuto avvenire soltanto per mancanze di gravità tale da integrare gli estremi della giusta causa di cui all'art. 2119 c.c. e da minare irrimediabilmente il rapporto fiduciario. La stessa successiva esemplificazione si riferiva unicamente a casi di mancanze gravi, ossia ad ipotesi di giusta causa e non di giustificato motivo oggettivo. Nonostante ciò la Corte territoriale ha ritenuto che l'esemplificazione contenuta nella clausola di durata minima di cui si discute dei casi di mancanza grave commessa dal lavoratore possa estendersi anche a casi estranei alla responsabilità del lavoratore, come quelli relativi ad eventuali crisi aziendali, senza però considerare che il giustificato motivo oggettivo per sua stessa natura prescinde da qualsivoglia inadempimento del lavoratore, mentre la clausola in questione parla espressamente di sole mancanze, ovvero di inadempimenti. Dunque, soltanto all'interno di tale cornice di riferimento può essere letta la successiva esemplificazione delle possibili mancanze gravi contenuta nella clausola di durata minima pattuita fra le parti, il che non permette - contrariamente a quanto ritenuto dall'impugnata sentenza - di utilizzare il criterio di interpretazione dei contratti previsto dall'art. 1365 c.c. per estendere le ipotesi convenzionali di recesso anche a quelle per giustificato motivo oggettivo. D'altronde, allargare la clausola in questione anche al giustificato motivo oggettivo significa in sostanza esporre il rapporto alle stesse vicende risolutive che avrebbe potuto soffrire anche in assenza del patto, in tal modo vanificandone la garanzia di stabilità, il tutto in dispregio dell'art. 1367 c.c. secondo cui, nel dubbio, le clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno . Del pari fondata è la doglianza relativa all'oggetto e al regime dell'onere della prova in tema di giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Infatti, ove pure si ritenesse, all'esito del procedimento interpretativo del contratto individuale di lavoro intercorso fra le parti, che la clausola di stabilità non escludesse un recesso per giustificato motivo oggettivo, ad ogni modo la prova relativa incomberebbe pur sempre, ex art. 5 legge n. 604/66, sul datore di lavoro. Ed è noto - alla stregua di costante giurisprudenza di questa Corte Suprema - quale sia il contenuto di tale onere probatorio il datore di lavoro deve dimostrare non solo il ridimensionamento o la riorganizzazione dell'attività imprenditoriale, ma anche la necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore e l'impossibilità di utilizzarlo in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale delle incombenze precedentemente affidategli cfr., per tutte, Cass. n. 19616/2011 . In breve, affinché un licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia valido non basta che risulti soppresso il posto di lavoro o il reparto cui è addetto il lavoratore, ma è necessario che l'azienda sia impossibilitata al c.d. repèchage, ossia non possa riutilizzarlo in altra analoga posizione lavorativa e/o in altra dipendenza aziendale. Invece, la gravata pronuncia - sostanzialmente ribaltando l'onere della prova, in violazione del cit. art. 5 legge n. 604/66 - ha ritenuto che la sola circostanza della messa in CIG di gran parte del personale dimostrasse, in mancanza di prova contraria, l'inutilità della prestazione lavorativa del ricorrente. 3- In conclusione, il ricorso è da accogliersi. Per l'effetto, deve cassarsi la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Firenze. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Firenze.