Allontanato per aver prodotto in giudizio documenti aziendali: licenziamento illegittimo

Il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali, che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., tenuto conto che l'applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell'azienda ne consegue la legittimità della produzione in giudizio dei detti atti trattandosi di prove lecite e l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato quale conseguenza della predetta produzione documentale.

Così affermato dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro con la sentenza n. 25682, depositata il 4 dicembre 2014. Il caso impugnazione di licenziamento disciplinare intimato per aver prodotto, in altro giudizio nei confronti del datore di lavoro, documentazione aziendale ritenuta riservata. Un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli quale conseguenza per aver prodotto, in altro giudizio pendente nei confronti del datore di lavoro, fotocopie di documenti aziendali ritenuti riservati. Il Tribunale del lavoro accoglieva la domanda, dichiarando l’illegittimità del licenziamento. Proponeva appello l’azienda, ma la Corte d’Appello rigettava il gravame, confermando l’illegittimità del licenziamento. Ricorreva in Cassazione l’azienda per la riforma della sentenza d’appello. Il diritto di difesa del lavoratore e l’esigenza di riservatezza del datore di lavoro. La vicenda in esame analizza comparativamente il diritto di difesa del lavoratore in una controversia di lavoro promossa e l’esigenza di riservatezza del datore di lavoro, il quale, nell’esercizio dei poteri datoriali, decida di segretare o meno determinati documenti. Il lavoratore, nel promuovere una controversia volta ad ottenere il riconoscimento del superiore inquadramento contrattuale, produceva una serie di fotocopie di documenti, ritenuti dall’azienda riservati e conseguentemente detenuti e prodotti illecitamente dal lavoratore. Da qui l’intimazione del licenziamento disciplinare. Secondo la Corte d’Appello, confermando peraltro la decisione del primo giudice, la produzione documentale era legittima, quale esercizio del diritto di difesa del lavoratore e dunque il licenziamento doveva ritenersi ingiustificato. La produzione dei documenti nel processo non viola il dovere di fedeltà. La Suprema Corte ha affermato ripetutamente, in precedenti decisioni, che il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di documenti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa, non viola il dovere di fedeltà imposto dall’art. 2105 c.c. Cass. nn. 6501/2013 e n. 3038/2011 . Osservano i giudici di legittimità, che la produzione in giudizio di documenti secondo la corretta applicazione delle regole processuali, è idonea ad impedire una vera e propria divulgazione degli atti aziendali, restando necessariamente circoscritta al processo instaurato. E d’altra parte, anche alla luce dell’art. 24 Cost., il diritto alla difesa nel processo è un bene costituzionalmente garantito e di rilevanza tale da prevalere sul pur legittimo diritto di riservatezza aziendale. Non sempre può supplire l’ordine di esibizione. Inoltre, prosegue la Suprema Corte, l’onere probatorio cui la parte è gravata, non sempre può essere assolto mediante l’ordine di esibizione documentale previsto dall’art. 210 c.p.c. sia per i limiti imposti dalla giurisprudenza all’ordine di esibizione sia per motivazioni di carattere di urgenza. I documenti infatti potrebbero essere nelle more distrutti od occultati, vanificando così l’ordine di produzione. Dunque, conclude il Supremo Collegio, la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia di produzione documentale, ritenendo legittima la produzione del lavoratore successivamente sanzionato con il licenziamento e conseguentemente dichiarando illegittima la sanzione espulsiva adottata. Il ricorso proposto è stato così ritenuto infondato e rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 28 ottobre – 4 dicembre 2014, n. 25682 Presidente Roselli – Relatore Manna Svolgimento del processo Con sentenza depositata il 23.6.11 la Corte d'appello di Potenza rigettava - per quel che rileva nella presente sede - il gravame interposto da INPES Prefabbricati S.p.A. contro la sentenza n. 339/10 del Tribunale della stessa sede che ne aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato a R.D.M. per avere, nel corso del giudizio da lei instaurato per il conseguimento d'un superiore inquadramento contrattuale, prodotto in fotocopia documenti aziendali ritenuti riservati. In accoglimento dell'appello incidentale, i giudici d'appello condannavano la predetta società a pagare alla lavoratrice il risarcimento del danno biologico da demansionamento. Per la cassazione della sentenza ricorre INPES Prefabbricati S.p.A. affidandosi a tre motivi. L'intimata R.D.M. resiste con controricorso. Motivi della decisione 1- Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1141, 2105, 2106 e 2119 c.c., degli artt. 1, 3 e 5 legge n. 604/66, nonché vizio di motivazione, per avere l'impugnata sentenza ritenuto che i documenti allegati da R.D.M. non fossero riservati - non rientrando nel novero di quelli di cui all'art. 98 d.lgs. n. 30/05 codice della proprietà industriale - ed essendo stati prodotti nell'esercizio del diritto di difesa nella controversia promossa dalla lavoratrice per ottenere un superiore inquadramento contrattuale obietta a riguardo la società ricorrente la non conferenza del codice della proprietà industriale anche perché entrato in vigore dopo la commissione dell'illecito disciplinare, avvenuta il 31.8.04 e l'esistenza d'una mera facoltà aziendale di secretare o non i propri documenti l'esercizio di tale facoltà - prosegue il ricorso - esclude che la lavoratrice potesse detenerli ad alcun titolo contrariamente a quanto affermato dalla gravata pronuncia infine - continua la ricorrente - si sono rivelati ininfluenti i documenti riservati prodotti dalla dipendente, essendone stata accolta la domanda in base alle sole risultanze testimoniali. Censura sostanzialmente analoga viene formulata nel secondo motivo di ricorso, sotto forma di vizio di motivazione e di violazione e falsa applicazione dell'art. 2104 c.c., per avere la Corte territoriale tralasciato la valenza, se non disciplinare, quanto meno di inadempimento contrattuale della condotta della lavoratrice, venuta meno agli obblighi derivanti da precise disposizioni datoriali inoltre, conclude la ricorrente, la sentenza ha trascurato la deposizione del teste ing. P. , idonea a dimostrare il danno subito dalla società a cagione della divulgazione del manuale di qualità aziendale. I primi due motivi - da esaminarsi congiuntamente perché connessi - sono infondati. Questa S.C. ha avuto modo di statuire ripetutamente cfr. Cass. 14.3.13 n. 6501 Cass. 8.2.11 n. 3038 Cass. 7.7.04 n. 12528 Cass. 4.5.02 n. 6420 che il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. infatti, da un lato la corretta applicazione della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale, dall'altro, in ogni caso, al diritto di difesa deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell'azienda. In proposito si tenga presente, ad esempio, che il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento penale basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex artt. 391 bis e ss. c.p.p., alcune delle quali possono esercitarsi anche prima dell'eventuale instaurazione d'un procedimento penale cfr. art. 391 nonies c.p.p. , oppure ai poteri processuali della persona offesa, che - ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile - ha il diritto, nei termini di cui agli artt. 408 e ss. c.p.p., di essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, se del caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell'udienza camerale. A maggior ragione ciò deve valere riguardo a documenti prodotti nel corso d'un giudizio civile, avendo l'attore il diritto di suffragare le proprie affermazioni mediante prova testimoniale e/o produzione di documenti. A tal fine può rivelarsene insufficiente la mera indicazione all’A.G. affinché ne disponga l'esibizione, vuoi perché nel frattempo essi potrebbero essere distrutti od occultati, vuoi per i noti limiti giurisprudenziali all'ordine di esibizione di documenti, subordinato alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 c.p.c. e 94 disp. att. c.p.c. cfr., ex aliis, Cass. n. 13533/11 . Né si dica che i documenti de quibus si sono poi rivelati ininfluenti ai fini dell'accoglimento della domanda di superiore inquadramento contrattuale dell'odierna controricorrente, fondato sulle mere risultanze testimoniali le modalità dell'esercizio del diritto di difesa vanno valutate ex ante e in astratto - ossia prima della decisione giurisdizionale, avuto riguardo soltanto alla loro connessione con il thema probandum - e non ex post e in concreto alla luce dell'esito della controversia e delle motivazioni espresse dal giudice, non prevedibili dalla parte nel momento in cui imposta e documenta le proprie argomentazioni difensive. Dunque, correttamente i giudici di merito hanno escluso che tale addebito potesse integrare il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d'un diritto e, quindi, essendo coperta dalla scriminante prevista dall'art. 51 c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è noto, da sempre concordi . La valenza generale, nell'ordinamento giuridico, della scriminante dell'esercizio del diritto di difesa assorbe ogni altra considerazione sulla natura riservata o meno dei documenti e, quindi, sulla rilevanza del precedente costituito da Cass. n. 12837/05 concernente la mera secretazione di documenti aziendali , oltre che sull'esistenza o meno di inadempimenti forieri di obbligazioni risarcitorie ex art. 1218 c.c. secondo quanto invocato dalla società ricorrente. 2- Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2087, 2103, 2059 e 2697 c.c., nonché vizio di motivazione, nella parte in cui i giudici d'appello hanno riconosciuto in favore della lavoratrice il risarcimento del danno biologico da demansionamento in base a mera documentazione medica e a consulenza tecnica, che non è mezzo di prova, senza alcun approfondimento sulla natura della patologia denunciata e sul suo nesso di causalità, patologia che la stessa R.D.M. ha ricollegato non solo al demansionamento - protrattosi per appena 18 mesi -, ma anche al licenziamento intimatole. Il motivo va disatteso perché l'impugnata sentenza ha - con motivazione adeguata e immune da vizi logici o giuridici — accertato in concreto e liquidato in maniera personalizzata il danno da demansionamento in base a documentazione sanitaria e a relazioni mediche. Ciò è avvenuto nel rispetto della giurisprudenza di questa S.C., che ammette la risarcibilità del danno non patrimoniale da demansionamento, danno che può consistere anche soltanto nei suoi riflessi di carattere biologico, senza doversi necessariamente estendere ad altri possibili parametri concernenti il fare aredittuale del soggetto motivatamente esclusi dalla sentenza impugnata . Per il resto il ricorso si limita - in sostanza - a sollecitare una terza lettura del materiale istruttorio, operazione non consentita in sede di legittimità. 3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA.