Sindrome ansioso-depressiva per il dipendente che si dimette: addio indiscutibile all’azienda

Dimissioni obbligate per il lavoratore, impiegato di una Cassa di Risparmio e spinto a recidere il legame alla luce della condotta addebitatagli dall’azienda. Nessun dubbio sui disturbi che lo affliggevano all’epoca dei fatti, ma che, comunque, non ne hanno minato la capacità di autodeterminazione all’atto della firma sulle dimissioni.

Prelievo ‘monstre’ che costa carissimo al dipendente della Cassa di Risparmio egli, difatti, viene ‘invitato’ a ripianare prima il debito, e poi a dire addio al posto di lavoro, mettendo ‘nero su bianco’ le proprie dimissioni ed evitando così ripercussioni a livello penale. Tutto chiaro, chiarissimo le scelte operate dal dipendente, seppur in una posizione di debolezza, appaiono assolutamente logiche. Per questo, vengono ritenuti irrilevanti i disturbi ansioso-depressivi lamentati, all’epoca dei fatti, dal lavoratore. Ciò significa che le dimissioni sono oramai definitive e irrevocabili Cassazione, sentenza n. 22836, sez. Lavoro, depositata oggi . Dimissioni. Rottura brusca, improvvisa, imprevista per un rapporto di lavoro lungo quasi quindici anni il dipendente della Cassa di Risparmio ha rassegnato le proprie dimissioni su ‘suggerimento’ dell’azienda. Ma questa decisione è meno assurda di quanto si possa pensare All’uomo, inquadrato come impiegato , difatti, è stato addebitato di avere prelevato la somma di 25milioni di lire dal proprio conto corrente, senza la prevista autorizzazione del responsabile dell’ufficio . Per questo motivo, egli è stato invitato dalla direzione aziendale a ripianare, nell’immediato, la propria posizione debitoria ed a recedere dal rapporto di lavoro . Secondo l’uomo, però, le dimissioni sono state frutto di incapacità naturale , concretizzatasi in disturbi ansioso-depressivi ascrivibili anche all’ambiente lavorativo . Ma questa obiezione viene respinta in modo netto dai giudici di merito, i quali, innanzitutto, ritengono acclarata l’insussistenza di una particolare gravità della patologia da cui era affetto l’uomo, certo non tale da escludere, anche temporaneamente, la sua capacità di intendere e di volere . Peraltro, aggiungono i giudici, le dimissioni , alla luce della vicenda, non hanno costituito un comportamento assolutamente irrazionale , essendo state logicamente motivate da un non corretto comportamento professionale in precedenza assunto e dalla esigenza di evitare le conseguenze, anche di natura penale, da esso derivanti . Consapevolezza. Per l’uomo, però, la partita, logicamente, non è affatto chiusa. Così egli si gioca l’ultima carta, quella del ricorso in Cassazione, ricordando, in contrasto con quanto deciso in Appello, che l’incapacità di intendere e di volere quale causa di annullamento del negozio giuridico non postula la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive del soggetto, ma si traduce in uno stato psichico, anche transitorio, che riduca notevolmente le facoltà intellettive e volitive . Seguendo questa linea di pensiero, l’uomo ribadisce che le dimissioni da lui firmate erano in realtà viziate dal disagio espressosi in disturbi ansioso-depressivi . Ma anche per i giudici del ‘Palazzaccio’ la visione tracciata dall’uomo non è assolutamente corretta. Per una ragione, in sostanza alla luce degli accertamenti medico-legali effettuati, è emerso che sì l’uomo era affetto da una sindrome ansioso-depressiva , ma non così grave da far venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e da inibire seriamente la sua capacità di valutazione dell’atto, al momento in cui aveva rassegnato le proprie dimissioni . Ciò significa che la valutazione compiuta in Appello è corretta, e condivisa dai giudici di terzo grado l’addio all’azienda, firmato dal lavoratore, non è assolutamente discutibile.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 24 settembre – 28 ottobre 2014, numero 22836 Presidente Roselli – Relatore Lorito Svolgimento del processo B.M. si rivolse al Tribunale di Teramo in funzione di giudice del lavoro ed espose di aver lavorato alle dipendenze della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo s.p.a. con qualifica di impiegato dal 15/6/82 al 21/3/97 data in cui aveva rassegnato le proprie dimissioni. Precisò di aver prelevato la somma di lire 25.000.000 dal proprio conto corrente senza la prevista autorizzazione del responsabile dell'ufficio in data 12/3/97, e di essere stato invitato dalla direzione aziendale, in breve resa edotta dei fatti, a ripianare nell'immediato la propria posizione debitoria ed a recedere dal rapporto di lavoro. Nel rilevare di versare, all'epoca, in uno stato di grave prostrazione psicofisica per i disturbi ansioso-depressivi da cui era affetto ed ascrivibili anche all'ambiente lavorativo in cui aveva operato, convenne in giudizio la società chiedendo l'annullamento delle dimissioni rassegnate per incapacità naturale e la condanna della parte datoriale al pagamento di tutte le retribuzioni spettanti dalla data di risoluzione del rapporto sino alla riammissione in servizio nonché al risarcimento del danno alla integrità psicofisica ascrivibile alla condotta datoriale assunta in relazione alla vicenda risolutiva del rapporto. Ritualmente instaurato il contraddittorio con la parte convenuta ed espletata attività istruttoria mediante l'escussione di alcuni testimoni e l'espletamento di accertamenti medico-legali, il giudice adito respinse la domanda con pronuncia del 24 novembre 2006, confermata con sentenza del 19 marzo 2008 dalla Corte d'Appello di L'Aquila. I giudici del gravame, nel pervenire a tale decisione, osservarono, in sintesi, che dalla espletata attività istruttoria era emersa l'insussistenza di una particolare gravità della patologia da cui era affetto il ricorrente che fosse tale da escludere, anche temporaneamente, la sua capacità di intendere e di volere. Rimarcarono poi, che le dimissioni rassegnate dal B., non potevano ritenersi integrare in sé, un comportamento assolutamente irrazionale, tale da costituire prova sufficiente del proprio stato di incapacità naturale, essendo state logicamente motivate da un non corretto comportamento professionale in precedenza assunto e dalla esigenza di evitare le conseguenze, anche di natura penale, da esso derivanti. Rilevarono, infine, che neanche era configurabile nella specie un nesso eziologico fra lo stato psichico di, depressione in cui versava il ricorrente e le condizioni ambientali in cui aveva esplicato la prestazione lavorativa, escludendo altresì che fosse stata offerta alcuna prova del pregiudizio che si assumeva risentito e di cui si chiedeva il ristoro. Avverso tale decisione ha interposto tempestivo ricorso per Cassazione il B. affidato ad unico motivo illustrato da quesito di diritto e resistito con controricorso dalla Tercass.p.a. Motivi della decisione Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'articolo 428 c.c. nonché insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Dopo aver richiamato i principi invalsi nella giurisprudenza di legittimità in base ai quali l'incapacità di intendere e di volere quale causa di annullamento del negozio giuridico non postula la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive del soggetto, ma si traduce in uno stato psichico anche transitorio che riduca notevolmente le facoltà intellettive e volitive, il ricorrente stigmatizza la decisione della Corte territoriale per aver ritenuto non adeguatamente dimostrato lo stato di incapacità naturale, facendo richiamo ai dati emersi all'epoca delle rassegnate dimissioni, come delineati alla luce delle risultanze peritali, piuttosto che ad un più ampio arco temporale anche successivo alla redazione dell'atto, in conformità ai dettami sanciti dalla giurisprudenza di legittimità sul punto. Lamenta inoltre che i giudici del gravame avrebbero omesso di scrutinare le ragioni che lo avevano indotto a rassegnare le dimissioni, coniugando correttamente dette ragioni con il quadro clinico emerso alla stregua delle perizie di parte e d'ufficio. Al di là di ogni considerazione in ordine ai profili di inammissibilità del ricorso che appare violare le regole di chiarezza poste dall'articolo 366 bis c.p.c. nel senso che ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso sostanziale e processuale e dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano non essendo consentito confondere i profili del vizio logico della motivazione e dell'errore di diritto vedi fra le tante, Cass. 26 marzo 2010 numero 7394 cui adde Cass.8 giugno 2012 9341, Cass. 20 settembre 2013 numero 21611 , e al di là della evidente carenza del necessario momento di sintesi previsto dall'articolo 366 bis in relazione al denunciato difetto di motivazione ex articolo 360 numero 5 c.p.c. vedi in tali termini, fra le tante, Cass. 8 marzo 2013 numero 5858 , osserva la Corte che il motivo è privo di pregio. La pronuncia impugnata appare infatti sorretta da un iter logico del tutto congruo e conforme ai principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui perché l'incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere.La valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata vedi, fra le altre, Cass. 10 settembre 2011 numero 17977 . Nello specifico, così come riportato nello storico di lite, la Corte territoriale ha accertato, alla stregua degli espletati accertamenti medico-legali, che il B. era affetto da una sindrome ansioso-depressiva non definita dall'ausiliare nominato in prime cure, di tale gravità da far venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e da seriamente inibire la sua capacità di valutazione dell'atto, al momento in cui aveva rassegnato le proprie dimissioni. Anche con riferimento a tale accertamento di merito, così come in generale, va, quindi, affermato che la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'articolo 360, primo comma numero 5 , cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità v. fra le altre Cass. sez. I 20 giugno 2006 numero 14267 , ribadendosi nel contempo che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'articolo 360 numero 5 c.p.c., non equivale alla revisione del ragionamento decisorio , ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità , con la conseguenza che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa v., fra le altre, Cass. cit. 1° settembre 2011 numero 17977 . Nello specifico, appare evidente la carenza di fondo che connota il presente ricorso, con il quale il B. si è limitato a criticare gli approdi ai quali era pervenuta la Corte territoriale in ordine all'accertamento del proprio stato di incapacità naturale, facendo leva su generici principi elaborati in tema, e concernenti il ricorso ai dati induttivi desumibili delle condizioni in cui versa il soggetto in epoca antecedente o successiva al compimento dell'atto ritenuto pregiudizievole, ma omettendo di sorreggere le critiche formulate, con il richiamo ai dati documentali sui quali l'accertamento delle proprie condizioni psico-fisiche si basava consulenza medico-legale d'ufficio e di parte . Né risultano rimarcate evidenti lacune dell'iter motivazionale sotteso alla impugnata decisione. Per consolidato orientamento di questa Corte la motivazione omessa o insufficiente è infatti configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l'obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest'ultimo tesa all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione in termini, di recente, Cass. 4 aprile 2014 numero 8004, Cass. SS.UU.25 ottobre 2013 numero 24148 .Invero il motivo di ricorso ex articolo 360, co. 1, numero 5, c.p.c., non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l'attendibilità e la concludenza nonché scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione,dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge vedi fra le numerose altre, Cass. cit. numero 8004/14 . Inoltre, per la configurabilità del vizio, è necessario che sussista un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica della controversia tale da far ritenere che, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con giudizio di certezza e non di mera probabilità vedi Cass. 14 novembre 2013 numero 25068 elementi questi che nella specie, per quanto sinora detto, appaiono del tutto carenti. I motivi formulati dal ricorrente tendono infatti a risolversi in critiche che, omettendo di fare riferimento specifico al tenore della relazione d'ufficio, corredata dalle complete osservazioni formulate dal perito di parte, mirano ad una rivisitazione delle considerazioni di merito operate dalla Corte territoriale senza che vengano evidenziati - è bene ribadirlo - in violazione del criterio della autosufficienza del ricorso, elementi fattuali e giuridici idonei ad inficiarne la comprovata coerenza e congruità motivazionale. La Corte territoriale, ha infatti proceduto ad una disamina della relazione peritale stilata nel corso del giudizio di merito, che aveva escluso che il B. fosse affetto da uno stato di malattia di tale gravità da escludere, anche temporaneamente, la sua capacità di intendere e di volere, con motivazione che non risulta inficiata, per la correttezza che la connota, dalle doglianze formulate. In definitiva, alla stregua degli illustrati principi esposti, il ricorso va respinto. Il governo delle spese del presente giudizio di Cassazione segue il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma il 24 settembre 2014.