Fatti identici, identici giudicati

Il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22388, depositata il 22 ottobre 2014. Il fatto. La Corte d’appello di Bari confermava la pronuncia di primo grado con la quale era stata accolta la domanda proposta dal lavoratore intesa a conseguire pronuncia dichiarativa di illegittimità del licenziamento e di condanna alla reintegra nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il datore di lavoro, lamentandosi che la Corte d’appello era pervenuta a tali conclusioni disattendendo la tesi da lui sostenuta, secondo cui il licenziamento non era stato intimato in violazione del principio del ne bis in idem”, essendo stato motivato dal passaggio in giudicato di una sentenza di condanna del dipendente per peculato, concretante ipotesi specifica di risoluzione del rapporto, del tutto autonoma rispetto alla situazione fattuale che aveva giustificato in precedenza, l’esercizio del potere disciplinare. Il principio del ne bis in idem”. La Corte è intervenuta ricordando, come è stato più volte affermato, che, ai fini del ne bis in idem”, occorre avere riguardo al criterio della identità sostanziale dei fatti oggetto dei diversi procedimenti instaurati, indipendentemente cioè dalla diversa qualificazione attribuita ai fatti stessi dall’organo giudiziario che li ha valutati. Infatti, il principio generale del ne bis in idem” tende ad evitare che per lo stesso fatto reato si svolgano più procedimenti e si emettano più provvedimenti anche non irrevocabili l’uno indipendente dall’altro in violazione del principio stesso. Infatti, a fronte di una identica condotta contestata nella sua concretezza, non è consentito sanzionare detta condotta due o più volte a seguito di una diversa valutazione e/o configurazione giuridica. La suddetta regola presenta un carattere generale essendo connaturata alla stessa ratio dell’ordinamento processuale, estendibile, pertanto, alla normativa disciplinare regolante il rapporto di lavoro. Gli stessi principi sono stati di recente posti a fondamento di una decisione dei giudici della CEDU 4 marzo 2014, dove si imponeva l’evidenza della violazione del principio di consunzione del potere disciplinare che, una volta esercitato, non può essere nuovamente attivato per i medesimi fatti già sanzionati. Sulla base delle argomentazioni suesposte, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 2 luglio – 22 ottobre 2014, numero 22388 Presidente Vidiri – Relatore Lorito Svolgimento del processo La Corte d’appello di Bari con sentenza in data 2/7/12 confermava la pronuncia di primo grado con la quale era stata accolta la domanda proposta da C.L. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane intesa a conseguire pronuncia dichiarativa di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 31/12/02, e di condanna alla reintegra nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno ex articolo 18 l. 300/70. La Corte territoriale accreditata dalla società Poste Italiane secondo cui il licenziamento non era stato intimato in violazione del principio del ne bis idem , essendo stato motivato dal passaggio in giudicato di una sentenza di condanna del dipendente per peculato in relazione ad un importo pari a L. 280.000, concretante ipotesi specifica di risoluzione del rapporto ex articolo 54 c.c.numero l. di settore, del tutto autonoma rispetto alla situazione fattuale e giuridica che aveva giustificato in precedenza, l’esercizio del potere disciplinare. Diversamente, nella opinione dei giudici del gravame, con il contestato provvedimento espulsivo la società aveva reiterato l’esercizio del potere punitivo in relazione a fatti già contestati e sanzionati con sospensione del servizio e dalla retribuzione, per un giorno, in tal guisa consumando il potere disciplinare che, una volta esercitato, non può essere nuovamente attivato per gli stessi fatti già sanzionati. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la s.p.a. Poste Italiane affidato ad un unico motivo, cui resiste il C. con controricorso illustrato da memoria ex articolo 378 c.p.c Motivi della decisione Con l’unico mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 54 c.c.numero l. 11 gennaio 2001. Si rimarca, in sintesi, che parti sociali con tale disposizione, nella parte in cui prevede la comminazione del licenziamento per condanna passata in giudicato, quando i fatti costituenti reato possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario , hanno inteso attribuire specifica ed autonoma rilevanza al solo fatto del passaggio in giudicato della pronuncia, il quale, in sé considerato, è stato a priori valutato quale comportamento idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, sostenendo il recesso, in quanto fatto autonomamente rilevante. Osserva infatti la ricorrente che l'articolo 54 contemplava una serie di ulteriori diverse ipotesi di licenziamento, quali l'illecito uso, manomissione, distrazione, sottrazione di somme o beni di pertinenza della società la dolosa accettazione di somme o compensi a danno dell'utenza la violazione dolosa di leggi, regolamenti o doveri d'ufficio. Nel contesto descritto, la diversa opzione ermeneutica adottata dai giudici di merito in ordine alla insussistenza della autonoma valenza quale causa di risoluzione del rapporto, di una sentenza di condanna passata in giudicato, sarebbe priva di significato, risolvendosi in un mero duplicato delle precedenti ipotesi. La censura è infondata. L'assunto posto a base del ricorso non può essere condiviso, risultando la sentenza impugnata supportata da un iter argomentativo esauriente che si sottrae a qualsiasi doglianza in questa sede di legittimità perché rispondente alla logica e rispettosa dei principi giuridici sottesi alla fattispecie scrutinata. È stato, infatti, più volte affermato che ai fini del ne bis in idem occorre avere riguardo al criterio della identità sostanziale dei fatti oggetto dei diversi procedimenti instaurati, indipendentemente cioè dalla diversa qualificazione attribuita ai fatti stessi dall'organo giudiziario che li ha valutati. Siffatta problematica, con riferimento ai diversi profili giuridici che ad essa si ricollegano, è stata oggetto di elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in relazione alla rilevanza degli interessi coinvolti, e, segnatamente, nella materia giuspenalistica essendosi al riguardo osservato che il principio generale del ne bis in idem tende ad evitare che per lo stesso fatto reato si svolgano più procedimenti e si emettano più provvedimenti anche non irrevocabili l'uno indipendente dall'altro in violazione del principio stesso cfr. in tali precisi termini, ex plurimis Cass. penumero , Sez. 5, 10 luglio 1995 numero 1919 ed ancora che la suddetta regola presenta un carattere generale essendo connaturata alla stessa ratio dell'ordinamento processuale e, pertanto, con i dovuti adattamenti è applicabile alle procedure di cognizione e di esecuzione, al processum libertatis ed ad ogni forma di impugnativa, di riesame e di revoca di provvedimenti giudiziali, in ordine alle quali assume anche la funzione di garanzia dell'osservanza della tassatività delle ipotesi e dei termini assoluti di decadenza cfr tra le altre Cass. penumero , Sez. 6, 26 novembre 1993 numero 3586 . Né può di certo sottacersi che il giudice delle leggi - pur affermando con riferimento alle sentenze penali straniere che il principio del wne bis in idem non poteva essere collocato tra diritti inviolabili della persona umana in base alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà individuali ratificata dall'Italia con la legge 4 agosto 1955 numero 848 - aveva già in tempi risalenti rimarcato come l'inosservanza del principio del ne bis in idem, garanzia del processo giusto, risultasse capace di ledere i diritti individuali dell'uomo, riconosciuto dall'articolo 2 della Costituzione nonché il diritto di difesa, sancito dall'articolo 24 Corte cost. 25 marzo 1976 numero 69 . Un corollario delle considerazioni sinora svolte porta ad estendere i summenzionati dieta giurisprudenziali di cui al divieto del bis in idem alla normativa disciplinare regolante il rapporto di lavoro in relazione alla quale, come si evince dalla chiara lettera dell'articolo 7 della legge 20 maggio 1970 numero 300, e come ha evidenziato la dottrina giuslavoristica. Ed infatti non è consentito - a fronte di una identica condotta contestata nella sua concretezza - sanzionare detta condotta due o più volte a seguito di una diversa valutazione e/o configurazione giuridica, stante le ricadute pregiudizievoli scaturenti dall'inosservanza dello scrutinato principio in termini di rispetto della personalità del lavoratore e della sua stessa libertà di agire senza condizionamento di alcun genere nell'espletamento della sua attività lavorativa cfr. Cass. 27 marzo 2009 numero 7523, cui adde Cass. 25 maggio 2012 numero 8293, Cass.21 dicembre 2012 numero 23841 . Sul punto questa Corte ha avuto modo di evidenziare Cass. sez. lav., 2.4.1996 numero 3039 che in forza del generale principio ne bis in idem comune a tutti i rami del diritto, il potere di provocare una modificazione nel mondo giuridico dopo che sia stato efficacemente esercitato, dando luogo a quel mutamento, viene a mancare del suo oggetto e, quindi, si estingue per consunzione. Attraverso il divieto di riproposizione di una seconda domanda, di contenuto identico alla prima, si intende evitare la duplicazione delle azioni. Ragioni di completezza motivazionale sulla questione scrutinata, inducono a rimarcare che l'applicabilità del principio di consunzione in cui si compendia, appunto, la massima ne bis in idem ricavabile dal testuale disposto dell'articolo 90 c.p. e articolo 39 c.p.c. al procedimento disciplinare privatistico non ha incontrato specifica resistenza. In particolare, si è ritenuto che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto, a norma della L. numero 300 del 1979, articolo 7, u.comma di tenere conto della sanzione eventualmente applicata, entro il biennio ai fini della recidiva Cass. 11 giugno 1986 numero 3871 Cass. 4 luglio 1991 numero 7391 Cass. 8 settembre 1989 numero 3889 Cass. 17 gennaio 1992 numero 565 cui adde Cass. 28 gennaio 1999 numero 767, Cass. 21 gennaio 1993 numero 728 . Per concludere - ad ulteriore conforto di quanto sinora detto e dell'indicata natura generale del principio del ne bis in idem - va richiamata da ultimo, la recente decisione dei giudici della CEDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri contro Italia ricomma 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10 per le rilevanti ricadute che detta pronuncia può avere nell'ordinamento statale. Con essa, infatti, gli indicati giudici hanno affermato che dopo la condanna, divenuta definitiva, ad opera della Consob, di una società a sanzioni amministrative, l'avvio di un processo penale per gli stessi fatti viola il principio giuridico del ne bis in idem, dovendosi la suddetta sanzione considerarsi a tutti gli effetti equiparabile a quella penale, stante la loro natura repressiva e la particolare severità per i consequenziali e pregiudizievoli effetti sugli interessi del condannato, dovendo prevalere sulla forma, la sostanza della sanzione. Orbene, a siffatti principi si è attenuta la decisione impugnata laddove ha rimarcato che la pronuncia penale coperta dal giudicato aveva sanzionato quei medesimi fatti per i quali la società aveva già esercitato il potere disciplinare con l'irrogazione di una sanzione conservativa, i quali ben potevano ricondursi alla tipizzazione contrattuale collettiva di cui all'articolo 54, riferita alla illecita distrazione o sottrazione di somme, o beni di spettanza o di pertinenza della Società o ad essa affidati . Nell'ottica descritta si imponeva, quindi, l'evidenza della violazione del principio di consunzione del potere disciplinare che, una volta esercitato, non può essere nuovamente attivato per i medesimi fatti già sanzionati. La statuizione, per essere sorretta da congrua motivazione, coerente con i principi che governano la materia come delineati dalla giurisprudenza di questa Corte cui si è fatto richiamo, non resta scalfita dalle censure che le sono state mosse. Il ricorso va, pertanto, respinto. Il governo delle spese del presente giudizio segue, infine, il regime della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore degli avv.ti Filippo Aiello e Tommaso Quagliarella, dichiaratisi antistatari. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge, da distrarsi in favore degli avv.ti Filippo Aiello e Tommaso Quagliarella. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del d.p.r. numero 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.