Rapina all’ufficio postale, rinvio a giudizio per un dipendente: non basta per il licenziamento

Accuse gravissime nei confronti del lavoratore di Poste Italiane, come testimonia il procedimento in sede penale, a cui viene addebitato l’aver preso parte alla rapina. Ciò però non è sufficiente per legittimare il licenziamento in tronco deciso dall’azienda.

‘Colpo’ all’ufficio postale, e le indagini, a sorpresa, chiamano in causa anche un dipendente, rinviato addirittura a giudizio per avere contribuito alla rapina. Ma tali accuse – peraltro azzerate dalla pronuncia finale di assoluzione, in sede penale – non sono certo sufficienti per legittimare il provvedimento di licenziamento Cassazione, sentenza n. 20602, sez. Lavoro, depositata oggi . Licenziamento. A dar torto a Poste Italiane spa, per la verità, hanno già provveduto i giudici di merito, affermando la illegittimità del licenziamento in tronco intimato nei confronti di un dipendente per aver concorso, con altri, alla commissione di una rapina ai danni dell’azienda. Decisiva una semplice considerazione la società non è riuscita a provare, con certezza, la commissione , da parte del dipendente, dei fatti addebitatigli . Peraltro, viene aggiunto dai giudici di Appello, il semplice rinvio a giudizio non integra la giusta causa del licenziamento . Semplici sospetti Per Poste Italiane la questione non è affatto chiusa. Ecco spiegato il ricorso in Cassazione, centrato sulla gravità dei fatti addebitati al lavoratore , ossia la partecipazione alla rapina , e sulla sussistenza di suoi comportamenti sospetti , rilevati in sede penale . Anche in terzo grado, però, la posizione assunta dall’azienda viene ritenuta illegittima azzerato, in via definitiva, quindi, il licenziamento in tronco . Ciò perché manca la ‘prova provata’ della lesione del vincolo fiduciario , non essendo sufficiente il semplice rinvio a giudizio in sede penale , dove, peraltro, è arrivata poi l’ assoluzione per il lavoratore.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 giugno – 30 settembre 2014, n. 20602 Presidente Stile – Relatore Tria Svolgimento del processo 1.- La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello di Poste Italiane s.p.a. avverso le sentenze del Tribunale di Patti n. 994/05 e n. 2237/07, di accoglimento della domanda di R.C., diretta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento in tronco intimatogli da Poste Italiane per aver concorso con altri alla commissione di una rapina in danno della datrice di lavoro. La Corte dappello di Messina, per quel che qui interessa, precisa che a come affermato dal primo giudice, la società non è riuscita a provare con certezza la commissione, da parte del C., dei fatti addebitatigli ai fini del licenziamento e, d'altra parte, il semplice rinvio a giudizio non integra la giusta causa del licenziamento b quanto alla prescrizione, il termine quinquennale risulta rispettato perché la relativa decorrenza, per le retribuzioni non percepite nel periodo di sospensione cautelare, coincide con il passaggio in giudicato della sentenza penale di assoluzione, che condiziona la riconoscibilità del diritto e, nella specie il suddetto passaggio in giudicato è avvenuto l’1 dicembre 2000 e il ricorso introduttivo del giudizio è stato notificato il 20 febbraio 2003 c è corretta anche la condanna di Poste Italiane, disposta dal primo giudice, al pagamento delle retribuzioni non corrisposte da quantificare sulla base della retribuzione di fatto spettante fino all’atto della effettiva reintegra, non avendo la società fornito la prova certa della corresponsione dell’assegno alimentare nel periodo di sospensione dal servizio d infatti, la sospensione cautelare dal servizio non priva il lavoratore dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro, sicché ove essa sia disposta in pendenza di un procedimento penale, all’atto dell’assoluzione dell’imputato il datore di lavoro è tenuto alla corresponsione di tutte le retribuzioni arretrate a decorrere dalla data di emissione del provvedimento di sospensione cautelare nella specie 9 giugno 1995 . 2.- li ricorso di Poste Italiane s.p.a., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi resiste, con controricorso, R.C Motivi della decisione I - Sintesi dei motivi di ricorso 1.- Il ricorso è articolato in quattro motivi. 1.1.- Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, dell'art. 2697 cod. civ. e degli artt. 414, 416 e 420 cod. proc. civ. sulla giusta causa di licenziamento e la prova dei fatti addebitati. Si sostiene che, disattendendo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, la Corte d'appello avrebbe omesso di considerare - con palese violazione delle norme sull’onere della prova - che il lavoratore non aveva espressamente contestato - in nessuna parte del ricorso di primo grado - la propria partecipazione alla rapina, contestatagli in sede disciplinare. Conseguentemente, la Corte territoriale non avrebbe valutato che l’onere della prova del datore di lavoro circa la commissione dei fatti non poteva sorgere, in assenza della suddetta esplicita contestazione, essendo irrilevante 1 assoluzione intervenuta in sede penale peraltro ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen. data l’indipendenza del giudizio civile rispetto a quello penale. Nella descritta situazione la Corte messinese avrebbe dovuto semplicemente constatare la intervenuta lesione del vincolo fiduciario, dimostrata dalle estrema gravità dei fatti addebitati al lavoratore. 1.2.- Con il secondo motivo si denuncia insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Si ribadisce che, nell’affermare che la società non aveva assolto l’onere probatorio a suo carico, la Corte d'appello non avrebbe valutato adeguatamente il contenuto del ricorso introduttivo, la formula dubitativa dell’ assoluzione in sede penale nonché la sussistenza di comportamenti sospetti del C., rilevati in sede penale. 1.3.- In subordine, con il terzo motivo si denunciano - con riguardo alla omessa detrazione dell’assegno alimentare dalla quantificazione del risarcimento del danno - sia violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 416 e 420 cod. proc. civ. sia omessa o insufficiente motivazione. Si rileva che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d'appello, sulla base della CTU, la corresponsione dell’assegno alimentare, per tutto il periodo di sospensione facoltativa, è stata documentalmente provata dalla società e mai esplicitamente negata dal lavoratore. 1.4.- In ulteriore subordine, con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2948 cod. civ. nonché dell’art. 33 CCNL del 1994 in merito al rigetto dell'eccezione di prescrizione quinquennale del credito relativo alle retribuzioni non corrisposte nel periodo anteriore al licenziamento. Si sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la parziale prescrizione del diritto del lavoratore alla percezione dell’assegno alimentare - pari al 50% della retribuzione - sino alla data del licenziamento 19 dicembre 1998 con riguardo al periodo anteriore al quinquennio dalla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio 20 febbraio 2003 , essendo questo il primo atto interruttivo della prescrizione, come riconosciuto nella stessa sentenza impugnata a p. 6 . II - Esame delle censure 2.- Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte. 3.- In linea generale, va osservato che - nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nell’intestazione del primo, del terzo e del quarto motivo - tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per asseritamente errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi per esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d appello, anziché sotto il profilo della scorrettezza giuridica e della incoerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito. Viceversa, nella specie, le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l`iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione, sicché la sentenza impugnata va esente da ogni censura in questa sede. 4.- A ciò va aggiunto che il ricorso non risulta neppure conforme al principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione - da intendere alla luce del canone generale della strumentalità delle forme processuali - in base al quale il ricorrente che denunci il difetto di motivazione su un istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito trascrivendone il contenuto essenziale , fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne 1 individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. a pena di inammissibilità e dall’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. a pena di improcedibilità del ricorso , nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico vedi, per tutte Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698 Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726 Cass. 14 settembre 2012, n. 15477 . 5.- Tale ultimo inconveniente, con riguardo ai primi due motivi si traduce nel fatto che le relative censure risultano, in modo apodittico, rivolte a sostenere il mancato rispetto, da parte della Corte territoriale delle regole sull’onere della prova nonché l’erronea valutazione della gravità del comportamento del dipendente, senza offrire alcun elemento, a questa Corte, per potere vagliare la sussistenza, o meno, di tali supposte - e indimostrate - manchevolezze. Né va omesso di rilevare che le suindicate censure sembrano muovere dalla premessa secondo cui la Corte messinese avrebbe dovuto semplicemente constatare la intervenuta lesione del vincolo fiduciario, dimostrata dalla estrema gravità per i quali il lavoratore è stato rinviato a giudizio in sede penale. Ora, anche a prescindere dalla intervenuta assoluzione del lavoratore con sentenza passata in giudicato, va comunque, sottolineato che tale assunto non è conforme all’orientamento consolidato e condiviso di questa Corte, al quale la sentenza impugnata si è conformata, secondo cui il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall’art. 27, secondo comma, Cost. concerne le garanzie relative all`attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato,se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo a ciò di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna ne consegue che il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con 1 imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario - ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto - deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva vedi, per tutte Cass. 10 settembre 2003, n. 13294 Cass. 19 dicembre 2008, n. 29825 Cass. 1 luglio 2010, n. 15649 . 6.- Con riguardo agli ultimi due motivi, a causa del mancato rispetto del principio di specificità di cui si è detto sopra, risulta impossibile, in questa sede, prendere in considerazione ogni questione riguardante l'assegno alimentare, la relativa corresponsione nonché la prova di tale pagamento e, quindi, la eventuale prescrizione parziale del diritto del lavoratore alla percezione dell'assegno medesimo. III - Conclusioni 7.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione - liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q,M . La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 cento/00 per esborsi, euro 4000,00 quattromila/00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.