Quale trattamento economico spetta al personale non diplomatico?

Il rapporto di lavoro tra l’Amministrazione sita all’estero e il personale non diplomatico per i servizi prestati all’estero è disciplinato dal d.p.r. n. 18/1967, in base al quale il trattamento economico è fissato dal contratto individuale che tenga conto della vita e livello locale e di altri parametri specifici fissati dalla norma stessa. In questi casi non si applica la disciplina della contrattazione collettiva, essendo il rapporto di tipo privatistico.

Inoltre, il rapporto di lavoro del personale assunto a contratto direttamente dagli Uffici dell’Amministrazione siti all’estero è autonomo rispetto al rapporto di lavoro del personale direttamente dipendente dalla stessa Amministrazione, sicché non si riconosce nessun obbligo, al datore privato, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti medesime mansioni. E’ stato così deciso dalla Corte di Cassazione nella sentenza 20356, depositata il 26 settembre 2014. Il caso. Una lavoratrice, cittadina russa, premesso di essere stata assunta secondo la legge locale presso l’Ambasciata italiana a Mosca con contratto a tempo indeterminato, rilevava la disparità di trattamento esistente a suo discapito, tra il suo trattamento giuridico ed economico e quello riservato ad altri dipendenti assunti con le stesse modalità, ma di nazionalità italiana. Dal momento che le disparità derivavano dall’applicazione della legislazione del lavoro russa, la donna, divenuta nel frattempo cittadina italiana, chiedeva che al suo rapporto di lavoro fosse applicato lo stesso trattamento retributivo riservato ai colleghi assunti insieme a lei e chiedeva, inoltre, la condanna dell’Amministrazione degli Affari Esterni al pagamento delle differenze retributive. La Corte d’appello rilevava che la disciplina regolatrice del rapporto di lavoro in esame era costituita dall’art. 157 d.p.r. n. 18/1967, secondo il quale il trattamento economico del personale non diplomatico per i servizi prestati all’estero è fissato dal contratto individuale che tenga conto della vita e livello locale e di altri parametri specifici fissati dalla norma stessa. La Corte, non avendo la ricorrente dedotto che i parametri adottati nel suo caso fossero diversi da quelli indicati dalla legge, ma avendo semplicemente dedotto la disparità di trattamento rispetto ad altro personale in un contesto normativo che lega la retribuzione al costo della vita, rigettava la domanda poiché il trattamento era conforme alle disposizione di legge regolatrice. La donna ricorreva, allora, in Cassazione, denunciando errori di interpretazione e applicazione di legge. Due diversi rapporti di lavoro. La Cassazione, nell’affrontare il caso in esame, ricorda che il rapporto di lavoro è regolato da un contratto individuale stipulato tra l’Ambasciata italiana e Mosca. La disciplina di tale rapporto risiede nel d.p.r. n. 18/1967, in base al quale il contratto è regolato dalla legge del luogo in cui è stato stipulato. L’obiettivo del legislatore è quello di regolare il rapporto di lavoro del personale assunto a contratto direttamente dagli Uffici dell’Amministrazione siti all’estero in maniera autonoma rispetto al rapporto di lavoro del personale direttamente dipendente da quella stessa Amministrazione. Rapporto privatistico e la sua disciplina. Il rapporto di lavoro del personale assunto all’estero riveste carattere tipicamente privatistico e trova regolazione, non nella contrattazione collettiva del settore pubblico, ma direttamente nella disciplina speciale del d.p.r. n. 18/1967, che, invero, prescinde, nella fissazione della retribuzione del personale, dalla contrattazione collettiva e fa riferimento, invece, a parametri rilevabili nel luogo in cui si svolge la prestazione, quali le condizioni del mercato del lavoro, il costo della vita, e eventuali altre indicazioni indicate dalle organizzazioni sindacali. Nessun obbligo di garantire parità di trattamento. Nel caso di specie, la ricorrente non chiedeva un adeguamento della retribuzione secondo i parametri della proporzione e sufficienza, ma rilevava la mancata parità di trattamento. Ma, come specificato dalla Cassazione, non esiste , nell’ordinamento giuridico italiano, un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti medesime mansioni, posto che l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost. impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati Cass., n. 18602/2009 . La Corte rigetta, quindi, il ricorso.

Corte di Cassazione, sez Lavoro, sentenza 17 giugno – 26 settembre 2014, n. 20356 Presidente Lamorgese – Relatore Mammone Svolgimento del processo 1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Roma Bo.Na. , cittadina della Federazione russa, premesso di essere stata assunta dall'8.01.02, secondo la legge locale, presso l'Ambasciata d'Italia a Mosca con contratto di lavoro a tempo indeterminato, poneva in risalto la disparità di trattamento esistente a suo discapito tra il suo trattamento giuridico ed economico e quello riservato ad altri dipendenti assunti con le stesse modalità, ma di nazionalità italiana. Considerato che tale disparità derivava dall'applicazione della legislazione del lavoro russa, la predetta - nel frattempo divenuta anch'essa cittadina italiana assumendo il cognome B. - chiedeva che al suo rapporto di lavoro fosse applicato lo stesso trattamento retributivo riservato ai colleghi assunti assieme a lei e che l’Amministrazione degli Affari Esteri fosse condannata al pagamento delle conseguenti differenze retributive. 2.- Dichiarata dal Tribunale del lavoro e dalla Corte d'appello la carenza di giurisdizione del giudice italiano, proposto dalla predetta ricorso per cassazione, questa Corte con sentenza 2.12.11 n. 25761 dichiarava la giurisdizione e cassava la sentenza di secondo grado, rinviando alla Corte d'appello di Roma per la definizione del giudizio di merito. 3.- La Corte del giudizio di rinvio con sentenza 29.11.12 rigettava la domanda, rilevando che la disciplina regolatrice del rapporto di lavoro in questione è costituita dall’art. 157 del d.P.R. 5.01.67 n. 18, per il quale il trattamento economico del personale non diplomatico per i servizi prestati all'estero è fissato da contratto individuale che tenga conto del costo della vita a livello locale e da parametri specifici fissati dalla norma stessa. Non avendo la ricorrente dedotto che i parametri adottati nel suo caso fossero diversi da quelli indicati dalla legge, ma avendo solo dedotto la disparità di trattamento rispetto ad altro personale in un contesto normativo che ancora il livello retributivo al costo della vita locale, la Corte d'appello riteneva il trattamento conforme alla disposizione di legge regolatrice e rigettava la domanda. 4.- Avverso questa sentenza la signora B. propone ricorso illustrato da memoria risponde con controricorso il Ministero degli Affari Esteri. Motivi della decisione 5.- La ricorrente propone tre motivi di ricorso che possono sintetizzarsi come segue. 5.1.- Con il primo motivo, deducendo violazione di legge e carenza di motivazione la ricorrente sostiene che il giudice del rinvio non ha verificato se, nel caso di specie, fosse stata fatta corretta applicazione della disciplina regolatrice della materia - costituita dall'art. 157, comma 3, del d.P.R. 5.01.67 n. 18, recante la disciplina della retribuzione degli impiegati dell'Amministrazione assunti all'estero con contratto individuale, come sostituito dal d.lgs. 7.04.00 n. 103 nonché dall'art. 45, comma 1-2, del d.lgs. 30.03.01 n. 165 che garantisce parità di trattamento contrattuale a tutti i dipendenti - ignorando il reale contenuto della domanda, che è diretta al riconoscimento del trattamento economico praticato ad altri dipendenti, che, pur fornendo una prestazione di contenuto professionale inferiore, percepiscono una retribuzione superiore. In ogni caso l'onere di provare che il trattamento riconosciuto all'attrice fosse adottato nel rispetto delle dette disposizioni competeva all'Amministrazione datrice di lavoro. 5.2.- Con il secondo motivo è dedotta nuovamente violazione di legge e carenza di motivazione, contestandosi l'affermazione che il principio di parità di trattamento possa essere superato in presenza di cause giustiflcatrici che escludano il carattere discriminatorio della diversa retribuzione. Nessuna norma di legge o di contratto, infatti, consente che gli impiegati di nazionalità russa in servizio presso la sede diplomatica possano percepire una retribuzione di base inferiore a quella corrisposta ai colleghi di pari livello di nazionalità italiana o, addirittura, inferiore a quella di chi svolge mansioni di livello più basso. Ne risulterebbero violate i principi dell'art. 36 della Costituzione e varie fonti nazionali e sovranazionali per le quali ogni individuo, senza discriminazioni, ha diritto a eguale retribuzione in presenza di prestazione di eguale contenuto. 5.3.- Con il terzo motivo la sentenza impugnata è contestata nella parte in cui ha ritenuto inammissibile la domanda spiegata nell'atto di riassunzione di pagamento del trattamento di fine rapporto e di risarcimento del danno, da liquidare in via equitativa ex art. 1226 c.c., per il mancato godimento del giusto trattamento assistenziale e previdenziale nel periodo 8.01.02-25.05.11. La richiesta costituirebbe, infatti, solo una modifica della domanda, conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro della sig.ra B. avvenuto in corso di causa. 6.- Procedendo all'esame dei due primi motivi di ricorso, da trattare in unico contesto per l'evidente collegamento tra di essi esistente, deve rilevarsi che le censure sono formulate sotto il duplice profilo del vizio di legittimità e del vizio di motivazione, prospettato quale contraddittoria motivazione circa un punto controverso e decisivo del giudizio. Dal tenore delle censure, tuttavia, emerge la denunzia non di carenze derivanti dall'incongrua applicazione della tecnica motivazionale, quanto la denunzia di errori di interpretazione della legge, come tali ricollegabili giuridicamente non alla motivazione, quanto alla applicazione della legge. Tali considerazioni - nonostante la sentenza impugnata sia pubblicata in data 29.11.12 — consentono di escludere l'esistenza di una denunzia in senso tecnico del vizio di motivazione ed esimono il Collegio dal formulare il giudizio di ammissibilità dei due motivi alla luce della nuova formulazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c, che ammette il ricorso in caso di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti , secondo il testo introdotto dall'art. 54 del di 22.06.12 n. 83, conv. dalla l. 7.08.12 n. 134 ed in vigore dal'11.08.12. 7.- Passando all'esame dei due motivi, deve rilevarsi che oggetto della domanda è la determinazione del trattamento retributivo spettante alla dipendente e la sua parametrazione al trattamento riservato ad altri dipendenti dell'Amministrazione che svolgevano nella sede diplomatica attività simili a quelle corrispondenti alle mansioni della ricorrente. 8.- Dato che il rapporto di lavoro de quo risulta regolato da un contratto di lavoro individuale, stipulato tra l'Ambasciata d'Italia a Mosca e la ricorrente in conformità alle disposizioni della parte seconda del titolo secondo del d.P.R. 5.01.67 n. 18, e successive modificazioni ed integrazioni nonché della legislazione russa, deve di seguito riassumersi la disciplina del rapporto delineata da dette fonti. Il d.P.R. 5.01.67 n. 18, reca l'ordinamento dell'Amministrazione degli Affari esteri. Il Titolo Sesto di tale fonte normativa, fu riformulato dall'art. 1 del d.lgs. 7.04.00 n. 103, assumendo la rubrica Impiegati assunti a contratto dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti di cultura . Il decreto legislativo in questione fu emanato in esecuzione della delega conferita dall'att. 4 della l. 28.07.99 n. 266, recante, tra l'altro, norme per il riordino della carriera diplomatica e del personale del Ministero degli esteri. La più recente formulazione del Titolo Sesto prevede che le rappresentanze diplomatiche e gli altri soggetti sopra indicati possano assumere, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, in aggiunta alla normale dotazione organica, ulteriore personale necessario per le proprie esigenze di servizio, il quale svolge le mansioni previste nei contratti individuali art. 152 . Il contratto, per quanto non espressamente disciplinato dallo stesso Titolo Sesto, è regolato dalla legge del luogo in cui è stato stipulato art. 154 . Detto Titolo Sesto disciplina minuziosamente il regime giuridico del contratto, regolando i requisiti e le modalità di assunzione del personale art. 155 , i doveri dell'impiegato art. 156 , la retribuzione artt. 157 e 157 bis , l'orario di lavoro, il regime delle festività, delle ferie e dei permessi artt. 157 ter, 157 quater e 157 quinquies , le assenze dal servizio art. 157 sexies , il regime previdenziale artt. 158 e 158 bis , il regime disciplinare e della cessazione del rapporto artt. 161, 164, 166 , oltre particolari situazioni giuridiche tipiche del rapporto di lavoro in questione. Per quanto concerne la retribuzione il già richiamato art. 157 prevede che La retribuzione annua base è fissata dal contratto individuale tenendo conto delle condizioni del mercato del lavoro locale, del costo della vita e, principalmente, delle retribuzioni corrisposte nella stessa sede da rappresentanze diplomatiche, uffici consolari, istituzioni culturali di altri Paesi in primo luogo di quelli dell'Unione Europea, nonché da organizzazioni internazionali. Si terrà altresì conto delle eventuali indicazioni di massima fornite annualmente dalle organizzazioni sindacali. La retribuzione deve comunque essere congrua ed adeguata a garantire l'assunzione degli elementi più qualificati comma 1 che la retribuzione annua base è suscettibile di revisione in relazione alle variazioni dei termini di riferimento di cui al precedente comma e all'andamento del costo della vita comma 2 ed è determinata in modo uniforme per Paese e per mansioni omogenee comma 3 . 9.- Da tale disciplina schematicamente riassunta appare chiaro che l'obiettivo del legislatore con l'adozione delle richiamate norme è quello di regolare il rapporto di lavoro del personale assunto a contratto direttamente dagli Uffici dell'Amministrazione siti all'estero in maniera autonoma rispetto al rapporto di lavoro del personale direttamente dipendente da quella stessa Amministrazione. Nella logica dell'ordinamento dell'Amministrazione degli affari esteri questa distinzione è giustificata dalla circostanza che le funzioni svolte nell'ambito del servizio diplomatico dalla categoria del personale assunto a livello locale una funzione sono quelle proprie ma indeterminate delle esigenze di servizio della rappresentanza diplomatica interessata o degli uffici ad essa equiparata . Tale disciplina, già insita nell'originaria formulazione del d.P.R. n. 18 del 1967, come evidenziato, è stata più di recente adeguata alla luce della generale revisione dello stato giuridico del personale del Ministero degli affari esteri. Essa si inserisce nella generale riforma del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione intrapresa negli anni '90 e culminata nelle leggi delega che dettero, tra l'altro, luogo al testo unico sul rapporto di lavoro pubblico privatizzato d.lgs. 30.03.01 n. 165. Il rapporto di lavoro del personale assunto all'estero, in questo assetto riveste carattere tipicamente privatistico e trova regolazione non nella contrattazione collettiva del settore pubblico, ma direttamente nella disciplina speciale del Titolo Sesto del d.P.R. 5.01.67 n. 18, come emendato dal d.lgs. 7.04.00 n. 103. Con riferimento alla fissazione della retribuzione di questo personale, anzi, la disciplina dell'art. 157 del d.P.R. n. 18 prescinde dalla contrattazione collettiva e fa riferimento a parametri rilevabili nel luogo in cui si svolge la prestazione, quali le condizioni del mercato del lavoro, il costo della vita, le retribuzioni ivi corrisposte dalle altre rappresentanze diplomatiche, le eventuali indicazioni fornite dalle organizzazioni sindacali. 10.- Alla luce di tale impostazione legislativa deve essere risolto il problema dell'individuazione del rapporto esistente tra le retribuzioni delle due categorie di dipendenti sollevato dai motivi in esame e che parte ricorrente intende risolvere nel senso dell'equalizzazione automatica . Ad avviso del Collegio la norma regolatrice non può essere individuata nell'art. 45, comma 1-2, del d.lgs. 165, il quale, rimesso alla contrattazione collettiva il trattamento fondamentale ed accessorio del personale pubblico contrattualizzato comma 1 , prevede che Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all'articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi comma 2 . Questa disposizione infatti presuppone che il rapporto o i rapporti di lavoro sia o siano oggetto di regolazione collettiva, atteso che il principio di parità ivi enunziato opera nell'ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale Cass. 20.01.14 n. 1037 e 29.04.13 n. 10105 , dato che in questo ambito i contratti individuali di lavoro sono validi e conservano la loro validità purché rispettino il principio di parità di trattamento di cui all'art. 45, comma 2 Cass. 3.03.1 In. 5139 . Tale impostazione è resa evidente dallo stesso art. 45, il quale, nel disciplinare il trattamento economico accessorio tipica materia di regolazione collettiva del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi che si prestano all'estero presso le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari e le istituzioni culturali e scolastiche , rinvia limitatamente al periodo di servizio ivi prestato alle disposizioni del d.P.R. 5.01.67 n. 18 e successive modifiche comma 5 . 11.- Quanto alla pretesa violazione del parametro dell'art. 36 della Costituzione, alla stregua del primo comma della norma costituzionale il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro individuale risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell'art. 1419, comma 2, c.c., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dello stesso art. 36. Nella specie, tuttavia, non si chiede un adeguamento della retribuzione secondo i parametri della proporzione e sufficienza, ma si fa questione di mancata parità di trattamento, il che esclude la questione dal campo di applicazione della norma. In ogni caso, deve rilevarsi che, per pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell'ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l'art. 3 Cost. impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati Cass. 21.08.09 n. 18602, 19.07.07 n. 16015 e 20.05.04 n. 9643 . 12.- Con il secondo motivo si denunzia anche violazione di alcune fonti sovranazionali art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo sottoscritta dall'Italia il 14.12.1955 Convenzione OIL 6-22.06.62 ratificata con l. 13.07.66 n. 657 Patto internazionale relativo ai diritti economici e sociali adottato a New York il 16 e 19.12.66 e ratificato dalla l. 25.10.77 n. 881 art. 4 dell’European Social Charter del 26.02.65, ratificata dalla l. 3.07.65 n. 929 . A prescindere dalle condizioni fissate dalle stesse fonti pattizie per l'applicazione diretta delle dette disposizioni negli ordinamenti interni degli Stati aderenti, deve qui rilevarsi che le norme menzionate sono dettate per evitare differenziazioni delle retribuzioni in qualche modo ricollegabili a situazioni caratterizzate da intento discriminatorio o da oggettive discriminazioni per razza, religione, sesso, motivi politici ed altro. E non risulta, né tantomeno è allegato, che la dipendente in causa sia stata vittima di discriminazioni di alcun tipo. In ogni caso le dette norme internazionali trovano adeguato riscontro nella Costituzione nazionale, cui la parte ricorrente - salva la già discussa applicabilità dell'art. 36 - non dubita sia conforme la disciplina legislativa qui applicata. 13.- Con il terzo motivo si censura la dichiarazione di inammissibilità della domanda — spiegata nell'atto di riassunzione — di pagamento del trattamento di fine rapporto e di risarcimento del danno, da liquidare in via equitativa ex art. 1226 c.c., per il preteso mancato godimento del giusto trattamento assistenziale e previdenziale nel periodo 8.01.02-25.05.11. Il motivo è da ritenere infondato in ragione del principio che quello di rinvio è un giudizio a cognizione limitata, in cui il thema decidendum è predeterminato nella precedente fase del processo nell'ambito dei capi della sentenza cassati o da essi dipendenti v. per tutte Cass. 3.04.06 n. 7761 . 14.- In conclusione, infondati i tre motivi, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Il rigetto comporta le conseguenze amministrative previste dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30.05.02 n. 115, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. P.Q.M. La Corte così provvede a rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500 per compensi, oltre le spese prenotate a debito b ai sensi dell'art. 1, comma 1 quater, del d.P.R. 30.05.02 n. 115, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del e. 1 bis dello stesso art. 13.