Metà praticante, metà lavoratore… ma il professionista deve provare l’effettivo insegnamento

Ai fini del discrimine tra pratica professionale e lavoro subordinato occorre valutare se nell’espletamento dell’attività ricorressero effettivamente i caratteri della pratica professionale l’effettivo insegnamento, l’evoluzione delle mansioni svolte, l’assenza del vincolo di subordinazione unitamente all’iscrizione documentata alla pratica professionale. Ciò indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalle parti per connotare il rapporto di collaborazione. Se l’onere della prova del vincolo di subordinazione è a carico del lavoratore, la contraria prova dell’effettiva sussistenza dei caratteri sopra indicati è a carico del professionista o datore di lavoro .

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20231, pubblicata il 25 settembre 2014. La vicenda domanda di un geometra volta a far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno con uno studio di architetto, con conseguente condanna al pagamento delle retribuzioni spettanti. Un geometra adiva il Tribunale del lavoro al fine di far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno alle dipendenze di un architetto. Sosteneva di aver frequentato lo studio professionale ininterrottamente dal febbraio 1991 al settembre 1999 inizialmente ai fini del conseguimento dell’abilitazione alla professione di geometra, conseguita nell’anno 1996 dal maggio 1992 al settembre 1999 il rapporto era stato qualificato come lavorativo subordinato a tempo parziale, per cinque ore al giorno, aumentate nel corso del rapporto a sei e poi a sette ore giornaliere. In realtà, l’orario lavorativo osservato era a tempo pieno, per 40 ore settimanali. Il Tribunale del lavoro accoglieva in parte le domande. All’esito dell’appello, la Corte territoriale accertava la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e condannava il datore di lavoro al pagamento delle differenze di retribuzione derivanti. Ricorreva in Cassazione quest’ultimo per la riforma della sentenza di secondo grado. I requisiti della pratica professionale. Con il ricorso proposto, il titolare dello studio di architettura, considerato datore di lavoro, si duole della qualificazione del rapporto data dalla Corte d’Appello, ritenendo che il contratto di lavoro part-time stipulato il 2 maggio 1992 potesse trovare pacifica coesistenza con il rapporto di praticantato che l’estensione quantitativa del rapporto di lavoro subordinato a discapito di quello di praticantato comportava in sostanza la novazione dei due rapporti che infine la prova di tale novazione era a carico del lavoratore ricorrente. La Suprema Corte censura tale interpretazione. Si osserva prima di tutto che la pratica professionale si connota per la presenza di requisiti ben individuati primo fra tutti l’insegnamento che il dominus è tenuto ad impartire al proprio praticante, con la conseguente evoluzione delle mansioni svolte, derivante dall’apprendimento delle conoscenze professionali. Occorre inoltre l’assenza nel rapporto di qualsivoglia vincolo di subordinazione e infine l’ovvia formalizzazione dell’iscrizione al registro dei praticanti, di cui ne deve essere fornita idonea documentazione. La prova della natura subordinata è a carico del lavoratore, mentre il datore di lavoro deve dare la prova contraria dell’effettività della pratica professionale. La Suprema Corte dà atto che dalle risultanze dell’istruttoria del giudizio di merito è emerso che il rapporto di lavoro, formalizzato nel maggio 1992 come part-time, si era in realtà esplicato come di natura subordinata per tutto l’arco temporale della giornata di lavoro. Le deposizioni rese dai testi escussi hanno dato conferma che il lavoratore, nell’espletamento delle proprie mansioni, seguisse le direttive impartite dal titolare dello studio che non vi era differenza di tipologia di attività lavorativa nell’arco della giornata che venisse osservato un preciso orario di lavoro. Al contrario, dall’istruttoria era emerso che il periodo di praticantato era terminato nel novembre 1992 e che non era più ravvisabile quel necessario insegnamento da parte del dominus atto a far ritenere effettiva la pratica professionale. La Corte d’Appello, nella sentenza impugnata, dà ampio riscontro delle risultanze istruttorie, rendendo motivazione logica ed esaustiva delle conclusioni cui perviene. E dunque il ricorso proposto è stato rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 maggio – 25 settembre 2014, n. 20231 Presidente Lamorgese – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo Con la sentenza non definitiva n. 829 del 2010 la Corte d'Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo, accertava che F.F. aveva svolto attività di lavoro subordinato per 40 ore settimanali in favore di C.F. nel periodo dal 2/5/1992 al 1/9/1999 con la successiva sentenza definitiva n. 548 del 2011, all'esito della disposta consulenza tecnica contabile, condannava C.F. per il titolo accertato con la sentenza non definitiva al pagamento in favore del F. della somma di e 38.779,94 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Nella motivazione della Corte - incontestato essendo che il F., dopo avere conseguito il diploma di geometra, aveva frequentato continuativamente lo studio di architettura di C. F. per il periodo dal 5 febbraio 1991 ai 1 settembre 1999 - l' esito dell'istruttoria testimoniale aveva consentito di appurare che nella fase iniziale del rapporto tale frequentazione era stata giustificata dal praticantato necessario per conseguire l'abilitazione come geometra poi effettivamente conseguita nel 1996 . Per il periodo successivo alla primavera dei 1992, epoca dalla quale il rapporto di lavoro era stato regolarizzato con contratto di lavoro subordinato part-time dapprima per cinque ore al giorno, successivamente ampliate dal 1.10.1995 a sei ed infine dal 1.5.1996 a sette ore giornaliere, ad avviso della Corte il F. aveva lavorato a tempo pieno, svolgendo in qualità di lavoratore subordinato mansioni inerenti le attività svolte dallo studio professionale, seguendo le direttive del titolare, con una certa autonomia in alcune delle pratiche affidategli. Né poteva ritenersi che vi fosse stata un'attività distinta ed effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, in assenza del necessario insegnamento, di una reale evoluzione delle mansioni e dei fatto che risultava documentata la fine del periodo di praticantato nei novembre del 1992. Per la cassazione di entrambe le sentenze C.F. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, illustrato anche con memoria ex art. 378 e.p.c. F.F. è rimasto intimato. Motivi della decisione 1. Il ricorso per cassazione è affidato ad un unico motivo, con il quale C.F. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. nella quale sarebbe incorsa la Corte d'Appello non considerando che la domanda proposta in causa aveva ad oggetto l'estensione quantitativa del rapporto di lavoro subordinato a scapito di quello di praticantato e dunque, nella sostanza, una novazione dell'accordo ratificato nel contratto part-time del 2 maggio 1992, che presupponeva la pacifica coesistenza dei due rapporti. Ciò comportava che sarebbe stato onere del ricorrente dare specifica prova dell'avvenuta novazione e dunque del preteso assorbimento del rapporto di praticantato in quello di lavoro subordinato, sicché potesse ritenersi che tutta l'attività da lui svolta fosse ascrivibile a questa seconda forma contrattuale. 2. Il motivo non è fondato. Il Giudice di merito ha dato ampio riscontro delle circostanze di fatto emerse dall'istruttoria testimoniale, che manifestavano come il rapporto realizzatosi a far data dal 2.5.1992 successivamente alla formalizzazione con contratto part-time e per tutto l' orario di lavoro avesse presentato le caratteristiche della subordinazione, in considerazione delle mansioni svolte, attinenti le attività dello studio professionale, e del fatto che il ricorrente seguisse le direttive del titolare. Ha poi escluso che nell'ambito del complessivo orario di lavoro una parte della prestazione fosse effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, in assenza del necessario insegnamento, di una reale evoluzione delle mansioni e del fatto che risultava documentata la fine del periodo di praticantato nel novembre del 1992. In tal senso, quindi, ha valorizzato il principio di effettività cui occorre avere riguardo nell'individuazione della natura del rapporto, che importa che il nomen iuris utilizzato dalle parti, così come le modalità con le quali il rapporto è stato formalizzato, costituiscono solo uno degli elementi ai quali occorre avere riguardo, nella valutazione complessiva della situazione contestuale e successiva alla stipulazione del contratto finalizzata ad accertare l'oggetto effettivo della prestazione convenuta. Deve in proposito ribadirsi quanto già affermato tra le altre da Cass. Sez. L, Sentenza n. 9264 del 1810412007, ovvero che sia allorquando le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamene dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l'espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell'ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento dei rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l'esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve attribuire valore prevalente al comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto stesso. Tale conclusione deriva dal principio che è stato chiamato dell`indisponibilità del tipo contrattuale , più volte affermato dalla Corte costituzionale, ad avviso della quale non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall'ordinamento . e .a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l'applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri dei rapporto subordinato C. Cost. n. 121 del 29 marzo 1993 e n. 115 del 31 marzo 1994 . Il fatto che il rapporto di lavoro subordinato fosse stato regolarizzato per cinque ore al giorno non escludeva pertanto di per sé la possibilità di ritenere che esso si fosse svolto con orario pieno. Né ostava che anteriormente all'inizio della prestazione di lavoro subordinato e quindi sino al 1 maggio 1992 la frequentazione dello studio fosse stata giustificata dalla necessità di svolgere la pratica professionale per l'abilitazione di geometra periodo di praticantato terminato peraltro nel novembre 1992 , considerato che ad avviso della Corte da tale epoca, anche in considerazione delle esperienze pregresse acquisite, il rapporto tra le parti aveva assunto modalità diverse. 4. Alle considerazioni esposte segue il rigetto del ricorso non vi è luogo a condanna del soccombente dalle spese processuali del presente giudizio di legittimità, considerata la mancanza di attività difensiva da parte dell'intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso nulla sulle spese.