Se il danno non è prevedibile non deve essere risarcito

La prevedibilità del danno, richiesta dall’art. 1225 c.c., costituisce uno dei criteri di determinazione del danno risarcibile e si risolve in un giudizio astratto di probabilità del verificarsi di un futuro evento, secondo un parametro di normale diligenza del soggetto responsabile.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 17460, depositata il 31 luglio 2014. Il caso. Due lavoratrici, licenziate nel 1989 nell’ambito di un licenziamento collettivo, ricorrevano al Giudice del lavoro lamentando l’illegittimità del recesso e chiedendo - in estrema sintesi - la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quantificato nelle retribuzioni perdute dalla data del recesso sino al 31 maggio 1999. La Corte d’appello di Roma, dopo un lungo iter giudiziario ed in riforma della pronuncia di primo grado, limitava il risarcimento alle retribuzioni perdute sino alla sentenza del Pretore depositata nel giugno 1996 . Ad avviso della Corte, infatti, prima dell’entrata in vigore della l. n. 223/1991, non vigeva alcuna presunzione di corrispondenza del danno alle retribuzioni perdute nel periodo compreso tra il recesso e la reintegrazione. Doveva quindi farsi applicazione del principio sancito dall’art. 1225 c.c., per il quale il risarcimento del danno doveva essere limitato a quello prevedibile al momento dell’inadempimento, non potendo estendersi ad eventi che non fossero dal punto di vista del nesso causale ragionevolmente in connessione con l’inadempimento . Contro tale sentenza le lavoratrici proponevano ricorso alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. L’aliunde perceptum non è eccezione in senso stretto . Con un primo motivo, le ricorrenti lamentavano che solo in grado di appello, e dunque tardivamente, la società avesse introdotto il profilo di indagine relativo all’art. 1225 c.c. Motivo che non viene condiviso dalla Cassazione la quale, ribadendo un principio ormai consolidato Cass. n. 26828/2013 , afferma che il divieto di jus novorum ha ad oggetto le sole eccezioni in senso proprio e non si estende alle mere difese , ossia quelle deduzioni dirette alla contestazione dei fatti costitutivi della pretesa avversaria. In questo contesto deve inquadrarsi anche l’eccezione relativa all’ aliunde perceptum che è rilevabile anche in sede di rinvio, ove solo in occasione del suo svolgimento ne sia stata possibile la rilevazione e le relative circostanze di fatto siano state ritualmente acquisite al processo . Il risarcimento deve seguire un criterio di regolarità causale . Con un altro motivo, le ricorrenti lamentavano come l’imprevedibilità di cui all’art. 1225 c.c. non costituisse un limite all’esistenza del danno, ma solo alla sua misura, con l’effetto che il relativo onere probatorio poteva essere assolto anche tramite presunzioni semplici che, nella specie, dovevano indurre a ritenere prevedibile il mancato reinserimento delle ricorrenti nel mercato del lavoro. Motivo che, ancora una volta, non viene condiviso dalla Corte la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. La Cassazione concorda sul fatto che l’art. 1225 c.c. costituisca un limite alla sola misura dell’ammontare del danno, determinato tuttavia con riguardo alla prevedibilità astratta inerente ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, cioè, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute osservando un criterio di regolarità causale. Nel caso di specie, ad avviso della Corte, la valutazione effettuata dai Giudici di appello era coerente, poiché attribuiva al datore di lavoro le conseguenze del proprio inadempimento, senza tuttavia estenderlo a danni ulteriori rispetto a quelli ragionevolmente connessi a quest’ultimo. Le ricorrenti potevano ridurre il danno usando l’ordinaria diligenza . In questo contesto, il Giudice di secondo grado aveva correttamente evidenziato che le ricorrenti, superato un primo periodo di asserita incolpevole inoccupazione durato 7 anni , ben potevano attivarsi per rinvenire altra occupazione. Tale inerzia, ad avviso della Corte, interrompe la regolarità causale tra inadempimento e danno, impedendo di attribuire al datore le conseguenze pregiudizievoli non ragionevolmente connesse alla sua condotta.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 24 giugno – 31 luglio 2014, n. 17460 Presidente Macioce – Relatore Arienzo Svolgimento del processo Con sentenza del 13.3.2007, la Corte di appello di Roma, in riforma della impugnata decisione, respingeva la domanda di L.M. e di C.A. intese ad ottenere il risarcimento dell'ulteriore danno subito per effetto del licenziamento collettivo loro intimato il 10.11.1989, dichiarato illegittimo, rispetto al quale, con sentenza confermata in cassazione, avevano visto risarcito il danno soltanto per il periodo fino al 18.12.1992. Le ricorrenti avevano, infatti, richiesto il risarcimento del danno anche per il periodo dal 18.12.1992 fino al 3.6.1996 ed, assumendo di non avere prestato alcuna attività lavorativa successivamente alla sentenza del Pretore di Frosinone del 3.10.1996 che aveva liquidato in loro favore i danni per il periodo suddetto, avevano domandato il risarcimento anche per il periodo successivo al 30.6.1996 e sino al 31.5.1999, per un importo pari a lire 64.611.32. Il Tribunale adito, respinta l'eccezione di giudicato sul rilievo che la condanna non poteva che essere limitata alla data della sentenza ed osservato che le lavoratrici erano rimaste in stato di disoccupazione, aveva ritenuto provato il danno dedotto e condannato la società al pagamento, in favore di ciascuna delle ricorrenti, della somma di euro 68.842,40, oltre accessori di legge. Rilevava la Corte dei merito che non poteva essere confermata la sentenza del Tribunale in quanto, come affermato da Cass. 10614/02, nel regime anteriore alla legge 223/91 non vigeva la presunzione di cui all'art. 18 della legge 300170 di corrispondenza dei danno alle retribuzioni con riferimento al periodo dal licenziamento alla reintegrazione. Aggiungeva che la Corte di appello di Perugia, in sede di rinvio dalla Cassazione, aveva accertato che il licenziamento aveva continuato a spiegare i suoi effetti e che le ricorrenti avevano usato l'ordinaria diligenza per eliminare la situazione di danno, così confermando la sentenza del Pretore di Frosinone del 30.10.1996. Osservava che, tuttavia, l'oggetto dei giudizio era limitato ai danni per il periodo successivo, rispetto ai quali non poteva condividersi quanto affermato dal giudice di prime cure, in quanto occorreva avere riguardo al principio di cui all'art. 1225 c. c. per il quale il risarcimento dei danno, in caso di inadempimento contrattuale, a differenza che per il danno da responsabilità aquiliana, doveva essere limitato ai danni prevedibili, non potendo estendersi ad eventi che non fossero dal punto di vista del nesso causale ragionevolmente in connessione con l'inadempimento. Secondo il giudice del gravame, dopo il periodo di sette anni di disoccupazione, per il quale avevano già ottenuto il risarcimento, la mancanza di occupazione delle ricorrenti non poteva più seriamente collegarsi all'originario inadempimento, per cui il ricorso doveva essere respinto. Per la cassazione di tale decisione ricorrono la L. e la C., affidando l'impugnazione a due motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c, cui resiste, con controricorso, la società. Motivi della decisione Con il primo motivo, le ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell'art. 437 c.p.c., in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., osservando che la società appellante aveva introdotto solo nel ricorso in appello l'eccezione finalizzata all'applicazione della disposizione di cui all'art. 1225 c. c. e che la deduzione imponeva un nuovo tema di indagine precluso in sede di gravame, non integrando una mera diversa qualificazione giuridica, onde l'eccezione di violazione dell'art. 1225 c. c. doveva essere dichiarata inammissibile. Con il secondo motivo, lamentano violazione e falsa applicazione dell'art. 1225 c. c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., rilevando che il requisito della prevedibilità del danno, correlato all'elemento psicologico, è inapplicabile alla responsabilità extracontrattuale in quanto non richiamato dall'art. 2056 c. c., avendo scelto il legislatore di non commisurare il risarcimento al grado della colpa. In via subordinata, anche ove ritenuto applicabile l'art. 1225 c. c., osservano che l'imprevedibilità non costituisca un limite all'esistenza del danno, ma alla misura dello stesso. Peraltro, l'onere della prova relativo poteva essere assolto mediante il ricorso a presunzioni semplici, che dovevano indurre a ritenere prevedibile il mancato reinserimento delle ricorrenti nel mercato del lavoro. Il ricorso è infondato. I motivi possono vanno trattati congiuntamente, attesa la evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l'oggetto. Premesso che nel rito dei lavoro, il divieto di jus novorum in grado di appello, di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. ha ad oggetto le sole eccezioni in senso proprio e non si estende alle eccezioni improprie ed alle mere difese, ossia alle deduzioni volte alla contestazione dei fatti costitutivi e giustificativi allegati dalla controparte a sostegno della pretesa, è stato affermato da questa Corte, sia pure con riferimento al giudizio di rinvio dalla Cassazione, che nei giudizi di impugnativa di un licenziamento, il cosiddetto aliunde perceptum , come fatto sopravvenuto dedotto nel primo momento utile, è rilevabile anche in sede di rinvio, ove solo in occasione del suo svolgimento ne sia stata possibile la rilevazione e le relative circostanze di fatto siano state ritualmente acquisite al processo cfr. Cass 29.11.2013 n. 26828 . E', inoltre, principio pacifico quello alla cui stregua, in tema di risarcimento del danno da inadempimento, l'imprevedibilità, alla quale fa riferimento l'art. 1225 cod. civ., costituisce un limite non all'esistenza del danno, ma alla misura del suo ammontare, determinando la limitazione del danno risarcibile a quello prevedibile non da parte dello specifico debitore, bensì avendo riguardo alla prevedibilità astratta inerente ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, cioè, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute cfr. Cass. 29.7.2011 n. 16763 e, con riferimento ad un'ipotesi di promessa di vendita di immobile altrui, Cass. 18.9.2012 n. 15639, che esclude i danni che non rientrano nella normalità delle circostanze secondo un criterio di comune esperienza . Nella specie la Corte di cassazione ha escluso che il danno possa ritenersi quantificabile in base a quanto previsto dall'art. 18 I. 300170 con riferimento ad un licenziamento collettivo intimato anteriormente all'entrata in vigore della legge 223/91, sicchè non si tratta di ridurre la misura sanzionatoria di legge, predeterminata quanto all'ammontare del risarcimento, ma, vertendosi in ipotesi di danno da responsabilità contrattuale - essendo il licenziamento illegittimo fonte di responsabilità a tale titolo cfr., tra le tante, Cass. 7.5.2004 n. 8720 - , deve aversi riguardo alla prevedibilità dei danni conseguenti all'illegittimità del recesso, costituendo quello della prevedibilità un parametro di legge in quanto tale oggetto di valutazione da parte del giudice dei merito. Nello specifico, la motivazione del giudice del gravame è corretta in relazione alla valutazione delle conseguenze dell'inadempimento datoriale, in quanto coerente con i principi di diritto in tema di responsabilità contrattuale, che sicuramente genera una presunzione di imputabilità al debitore, ma non ne determina una responsabilità per danni al di là di quelli prevedibili dal punto di vista della sussistenza di un nesso causale secondo un criterio di ragionevole derivazione dal comportamento inadempiente. Come già precisato, non si tratta, invero, di riduzione della misura risarcitoria di legge, ma di determinazione delle conseguenze pregiudizievoli connesse all'illegittimità del licenziamento collettivo, sicuramente sussistenti in relazione al perdurante stato di disoccupazione, ma in misura, ritenuta dalla Corte del merito, in modo corretto e conforme ai principi richiamati, non congruamente determinata dal primo giudice per l'intero periodo dedotto, potendo il danno ulteriore essere evitato dalle ricorrenti attraverso l'uso di ordinaria diligenza nella ricerca di altra attività lavorativa. Il giudice del gravame ha al riguardo evidenziato come fosse presumibile che, per quanto difficilmente realizzabile nell'immediatezza del recesso, le stesse potessero attivarsi per il rinvenimento di altra collocazione lavorativa quanto meno dopo un periodo di asserita incolpevole disoccupazione, protrattosi per sette anni dal licenziamento sino all'ottobre 1996, data della sentenza del Pretore di Frosinone . Ciò è conforme ai principi in tema di responsabilità contrattuale, nell'ambito della quale giova ribadire che la prevedibilità di cui all'art. 1225 cod. civ. costituisce uno dei criteri di determinazione dell'ambito del danno risarcibile, consistente in un giudizio di probabilità del verificarsi di un futuro danno espresso in astratto, secondo l'apprezzamento della normale diligenza del soggetto responsabile, che deve tenere peraltro conto di circostanze di fatto concretamente conosciute, attenendo la stessa non già al giudizio di responsabilità, bensì al danno considerato nel suo concreto ammontare, nonché identificandosi con il criterio della regolarità causale, che attribuisce significato giuridico alle conseguenze che possono verificarsi quando lo svolgimento causale ha andamento regolare cfr., tra le altre, Cass. 28.11.2003 n. 18239 . Il ricorso, alla luce delle svolte considerazioni, deve essere respinto e le spese dei presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza delle ricorrenti. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese dei presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed in euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché spese generali in misura del 15%.