Dipendente limita il proprio diritto di recesso: si può fare

E' legittimo e valido il patto negoziale con cui il dipendente assume l’obbligo di non esercitare il proprio diritto di recesso, per un determinato lasso di tempo.

La libertà del lavoratore di disporre del proprio diritto di recesso è confermata, con stanchezza, dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17010/2014, depositata il 25 luglio. Il lavoratore ha autonomia contrattuale. Un dipendente firmava con il proprio datore di lavoro una clausola di durata minima garantita del contratto di lavoro a tempo indeterminato. In caso di recesso durante il periodo garantito, il dipendente avrebbe dovuto versare, in favore del datore di lavoro, la penale pattuita e così è stato. Il lavoratore recedeva dal contratto prima della scadenza della durata minima ed il datore di lavoro tratteneva, a titolo di penale, il TFR e parte dei contributi previdenziali. Il dipendente, allora iniziava l’iter processiale al fine di ottenere la dichiarazione di nullità della clausola di durata minima del contratto. Sin dagli anni settanta la Corte di Cassazione si è espressa a favore della legittimità delle clausole di durata minima del rapporto di lavoro, pattuite non solo in favore del lavoratore, ma anche del datore di lavoro, a condizione che esse fossero limitate nel tempo e comunque mai perpetue, posta la possibilità di rinnovare la clausola. Dottrina vs Giurisprudenza. La questione della legittimità e, quindi, della validità delle clausole di durata minima si pone con riferimento alla libertà di contrarre e di disporre liberamente della volontà di lavorare. Secondo una dottrina piuttosto risalente, l’art. 2118 c.c., che prevede il diritto del lavoratore di recedere dal rapporto a tempo indeterminato con congruo preavviso, è una norma imperativa e, quindi, inderogabile. Di conseguenza, l’atto negoziale con cui il lavoratore assume l’obbligo di non esercitare il proprio diritto di recesso per un certo lasso di tempo è nullo ai sensi del combinato disposto degli artt. 1324 e 1418 c.c Non solo, un simile atto sarebbe nullo sia qualora fosse unilaterale, sia qualora fosse inserito all’interno di una pattuizione bilaterale. Contrariamente a quanto affermato dalla dottrina, secondo la Corte di Cassazione, la clausola di durata minima del contratto non contrasta né con le norme imperative, né coi principi fondamentali dell’ordinamento. La legge, infatti, non pone nessun limite all’autonomia privata, in tema di recesso, eccezion fatta per casi di recesso per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c Il lavoratore può, quindi, liberamente pattuire una clausola di garanzia minima del rapporto e, in ottemperanza ai principi generali sull’indampimento, qualora il lavoratore recedesse anticipatamente, sarebbe responsabile nei confronti del datore di lavoro - che aveva fatto affidamento sulla durata minima del rapporto - con conseguente obbligo del risarcimento del danno. La clausola penale può bilanciare gli interessi in gioco. Nel caso di specie, le parti avevano pattuito il versamento di una penale in favore del datore di lavoro, in caso di recesso anticipato del lavoratore. È noto che la funzione della clausola penale sia stabilire anticipatamente il quantum del risarcimento del danno, evitando così alla parte danneggiata di dover quantificare l’ammontare del danno subito. A presidio di tale automatismo è posta la possibilità di riduzione equitativa della penale, ad opera del giudice. Così è successo nel caso di specie, ove la Corte territoriale ha operato un bilanciamento degli interessi, affermando la legittimità della clausola di durata minima e disponendo il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro, con un minor onere per il lavoratore che si è visto ridurre l’ammontare della penale da pagare. Ecco che la clausola penale, o meglio, la possibilità di ridurla in via equitativa, può essere uno strumento utile a riequilibrare le posizioni delle parti. La Corte, quindi, demolisce la difesa del lavoratore per cui la clausola di durata minima del contratto sarebbe particolarmente pesante per i lavoratori più modesti, che, di solito, hanno meno potere negoziale qualora vi fosse una grave disparità dovuta all’onerosità delle clausole, la riduzione equitativa della penale potrebbe essere uno strumento di riequilibrio, che non intaccherebbe la validità della clausola di durata minima. La grinta della Suprema Corte. Nel ribadire la legittimità della clausola di durata minima del rapporto di lavoro, la Corte sottolinea con forza come tale principio sia ormai consolidato e come sia vile il tentativo di screditarlo. L’uniforme interpretazione della legge rappresenta la più piena realizzazione del principio di eguaglianza e favorisce la ragionevole durata dei processi, poiché è proprio la certezza del diritto e l’affidamento sulla tendenziale stabilità dei principi di diritto a rappresentare un forte argine deflativo del contenzioso! Pertanto, in tema di clausola di durata minima del contratto, nessun revirement all’orizzonte.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 23 aprile – 25 luglio 2014, n. 17010 Presidente Stile – Relatore Amendola Svolgimento del processo 1.- B.M. esponeva al Tribunale di Perugia che aveva sottoscritto, quale dipendente dell'allora Cassa di Risparmio dell'Umbria, una clausola di durata minima garantita del contratto di lavoro a tempo indeterminato per il periodo dal gennaio 2001 al dicembre 2004, con la previsione che, in caso di recesso, avrebbe dovuto pagare una penale di 50 milioni di lire aggiungeva che, in seguito alle dimissioni del 14 marzo 2002 la Banca, vantando diritto alla penale pattuita, aveva trattenuto l'intero trattamento di fine rapporto ed aveva chiuso senza autorizzazione la posizione previdenziale del Fondo complementare aziendale cui il B. era iscritto, accreditando il relativo saldo sul conto corrente intrattenuto presso la Banca datrice di lavoro, da cui veniva incamerata una ulteriore somma per giungere all'importo complessivo della penale. Pertanto chiedeva - per quanto qui ancora interessa - che venisse dichiarata la nullità della clausola di durata minima garantita, con restituzione della somma netta di Euro 25.822,84, nonché l'illegittimità della chiusura della posizione contributiva presso il Fondo di Previdenza aziendale, con condanna della Banca al risarcimento dei danni. Il Tribunale di Perugia riteneva la nullità della clausola impugnata, per violazione di norma imperativa, e rigettava la domanda relativa alla liquidazione della posizione contributiva dell'istante. La Corte di Appello di Perugia, con sentenza del 14 marzo 2007, ha riformato la decisione del primo giudice nella parte in cui aveva sancito la nullità della clausola di durata minima garantita, riducendo l'importo della penale ad Euro 10.000,00, ed ha respinto l'appello del B. relativo alla liquidazione senza consenso della posizione previdenziale del medesimo. Per il primo aspetto la Corte si è richiamata a quell'orientamento dei giudici di legittimità secondo cui il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto. Sulla chiusura della posizione previdenziale del B. ha rilevato che, in base all'art. 31 del Regolamento del Fondo aziendale del 3 marzo 2000, posteriore al d. lgs. n. 124 del 1993, la Banca si era limitata alla liquidazione sotto forma di capitale dell'ammontare del conto pensione individuale maturato alla data di cessazione del rapporto di lavoro, che era l'unica cosa che avrebbe potuto fare l'ex dipendente della sua posizione presso detto Fondo. 2.- Il ricorso di B.M. ha domandato la cassazione della sentenza per due motivi, illustrati da memoria. Ha resistito UNICREDITO ITALIANO Spa già Banca dell'Umbria 1462 Spa con controricorso. Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 e.e. nonché della l. n. 230 del 1962 e degli artt. 1, 2, 4, 16, 23 35 e 36 Cost. in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c Si sostiene che la norma contenuta nell'art. 2118 c.c., che prevede il diritto del lavoratore di poter recedere dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso, è imperativa e inderogabile ex art. 1418 c.c., per cui l'atto negoziale, con cui il lavoratore assume l'obbligo di non esercitare per un determinato periodo il diritto di recesso è, sia se unilaterale, sia se inserito nel contesto di una pattuizione bilaterale, nullo ex art. 1324 e 1418 c.c Con il secondo mezzo di gravame si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2117 c.c., dell'art. 10 del d. lgs. n. 124 del 1993, degli artt. 1175 e 1375 c.c. e 1853 c.c., nonché degli artt. 31 e 34 del Regolamento del Fondo di Previdenza aziendale complementare e degli artt. 1362, 1363, 1365, 1366, 1369 e 1370 c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, co. 1, nn. 3 e 5, c.p.c Si argomenta che, ai sensi dell'art. 10 del d. lgs. n. 124 del 1993, nel caso di risoluzione di un rapporto di lavoro di un iscritto ad una forma pensionistica complementare, questi ha diritto ad esercitare ciascuna delle tre opzioni previste nel primo comma di detto articolo, senza limiti di tempo, con disposizione dal contenuto inderogabile, per cui è nulla qualsiasi difforme normativa presente nei regolamenti delle forme pensionistiche complementari. Sicché il soggetto che amministra il Fondo non potrebbe attuare l'opzione al posto del lavoratore interessato, ma dovrebbe invitarlo a farlo in un congruo termine. Il ricorrente opina altresì che gli artt. 31 e 34 del regolamento 3.3.2000 del Fondo di Previdenza Aziendale Complementare delle prestazioni Inps per i dipendenti della Spa Banca dell'Umbria 1462 vanno interpretati nel senso che anche gli iscritti nella Sezione B, che hanno maturato dieci anni di iscrizione al Fondo, hanno il diritto di esercitare le tre opzioni previste dall'art. 34 per coloro che non hanno raggiunto i dieci anni di iscrizione. 2.- Il ricorso non può essere accolto. 2.1- Con il primo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 c.c. nonché della L. n. 230 del 1962 e degli artt. 1, 2, 4, 16, 23 35 e 36 Cost. in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c Con quesito di diritto formulato ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. pro tempore vigente, si interroga la Corte sul se la norma contenuta nell'art. 2118 c.c., che prevede il diritto del lavoratore di poter recedere dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso, sia imperativa e inderogabile ex art. 1418 c.c., per cui l'atto negoziale, con cui il lavoratore assume l'obbligo di non esercitare per un determinato periodo il diritto di recesso, possa considerarsi nullo ex art. 1324 e 1418 c.c Si critica la Corte distrettuale per essersi uniformata all'orientamento di legittimità secondo il quale non sarebbe contrastante con alcuna norma o principio giuridico la clausola di durata minima garantita prevista nell'ambito di un rapporto di lavoro, in quanto la specificità delle fattispecie concrete in relazione alle quali tale principio è stato affermato non consentirebbe indebite generalizzazioni e, comunque, esso determinerebbe perniciose conseguenze nel caso in cui un dipendente si impegnasse a non esercitare il suo diritto di recesso per dieci, venti o trenta anni . Il motivo è infondato in ragione dei principi di diritto reiteratamente espressi da questa Corte e dai quali il Collegio non ritiene di doversi discostare. Sin dagli anni '70 la giurisprudenza di legittimità ha più volte scrutinato l'ammissibilità della clausola di relativa stabilità per una durata minima garantita del rapporto di lavoro, pattuita non solo a favore del prestatore d'opera ma anche del datore di lavoro, con il solo limite che il vincolo non acquisisca durata permanente, anziché temporanea, in virtù dell'eventuale carattere continuativo della possibilità di rinnovo Cass. n. 2941 del 1976 Cass. n. 2151 del 1976 Cass. n. 4144 del 1974 Cass. n. 2304 del 1974 Cass. n. 368 del 1971 . Più di recente questa Corte si è dovuta misurare su motivi di ricorso per cassazione che denunciavano la nullità ed inefficacia di clausole siffatte per ragioni analoghe a quelle prospettate dall'odierno ricorrente, in quanto inciderebbero direttamente non solo sulla libertà di contrattare, ma sulla libertà di lavorare, ponendosi così in contrasto con i principi generali dell'ordinamento giuridico . A tali obiezioni la sentenza della S.C. n. 1435 del 1998 ha replicato che non è ravvisabile - contrariamente a quanto sostenuto - alcun contrasto della clausola con norme e principi dell'ordinamento giuridico. Nessun limite è infatti posto dalla legge all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, che comporti, fuori dell'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 cod. civ., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del periodo minimo di durata del rapporto detta garanzia è analoga a quella destinata ad operare nel contratto di lavoro a tempo determinato, che consente il recesso anticipato del dipendente solo per giusta causa né può certamente prospettarsi, in relazione alle clausole pattizie che regolano l'esercizio della facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, una limitazione della libertà contrattuale del lavoratore, in violazione della tutela assicurata dai principi dell'ordinamento . Tale principio è stato continuativamente affermato da questa Corte in successive occasioni Cass. n. 17817 del 2005 Cass. n. 18376 del 2009 Cass. n. 18547 del 2009 , senza mutamenti, tanto da assumere consistenza di indirizzo consolidato. Orbene, una volta che l'interpretazione della regula iuris è stata enunciata con l'intervento nomofilattico della Corte regolatrice essa ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto dalle novelle del 2006 art. 374 c.p.c. e 2009 art. 360 bis c.p.c., n. 1 Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011 . Si è altresì rilevato, sebbene con specifico riferimento alle disposizioni processuali, che se la formula della legge, la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l'una e l'altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire - e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario - l'interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile cfr. Cass. SS.UU. n. 10864 del 2011 . Invero il rafforzamento della funzione nomofilattica, attuato con strumenti processuali diretti a consolidare la uniforme interpretazione della legge , rappresenta, sul piano dei principi costituzionali, da una parte una più piena realizzazione del principio di eguaglianza art. 3, co. 1, Cost. e d'altra parte indirettamente favorisce anche la ragionevole durata del processo art. 111, co. 2, Cost. , perché è proprio la certezza del diritto e l'affidamento sulla tendenziale stabilità dei principi di diritto a rappresentare un forte argine deflativo del contenzioso. In sintesi, il principio costituzionale per il quale il giudice è soggetto soltanto alla legge - e non ai precedenti - è necessariamente bilanciato dal principio di eguaglianza, che vuole tutti uguali davanti alla legge, coniugato con il principio della unità del diritto oggettivo nazionale art. 65 Ord. Giud. . Avendo la Corte territoriale deciso la controversia al suo esame applicando un orientamento più volte espresso dai giudici di legittimità la sentenza d'appello non è meritevole di censura. Né gli argomenti diffusamente proposti da parte ricorrente, finalizzati ad un revirement , rappresentano reali elementi di novità che inducano a mutare il precedente orientamento. Si tratta di opinioni dottrinali risalenti, certamente note a questa Corte nel momento in cui ha enunciato e ribadito il principio di diritto qui condiviso. Quanto al rilievo, pure esposto dal ricorrente, secondo cui il richiamato orientamento sarebbe maturato avuto riguardo a casi particolarissimi -controversie tra piloti e compagnie aeree - è appena il caso di osservare che la statuizione secondo cui nessun limite è infatti posto dalla legge all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto in alcun modo trova ragione giustificatrice in qualche aspetto concreto della vicenda al vaglio della Corte, che ne costituisce solo l'occasione, esprimendo piuttosto un principio di chiara valenza generale. Infine, circa il pericolo che l'affermazione di detto principio potrebbe condurre ad abusi e prevaricazioni in danno di operai o badanti , tale rischio, pure paventato dall'istante, oltre a non avere alcuna attinenza con la fattispecie concreta sottoposta al vaglio dei giudici di merito, trascura del tutto il contrappeso rappresentato dal fatto che la natura di clausola penale ex art. 1382 c.c., attribuibile alle pattuizioni in discorso, con funzione di liquidazione preventiva del danno quale lecita espressione dell'autonomia privata Cass. n. 18195 del 2007 Cass. n. 9161 del 2002 , consente, ai sensi dell'art. 1384 c.c., l'esercizio del potere di riduzione equitativa, anche d'ufficio, da parte del giudice, in caso di manifesta eccessività della penale ovvero tenuto conto dell'entità dell'adempimento dell'obbligazione principale. Il che è anche accaduto per il B. che si è giovato della riduzione equitativamente operata dalla Corte distrettuale da Euro 25.822,84 sino ad Euro 10.000,00. 2.2.- Con il secondo mezzo di gravame si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2117 c.c., dell'art. 10 del d. lgs. n. 124 del 1993, degli artt. 1175 e 1375 c.c. e 1853 c.c., nonché degli artt. 31 e 34 del Regolamento del Fondo di Previdenza aziendale complementare e degli artt. 1362, 1363, 1365, 1366, 1369 e 1370 c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, co. 1, nn. 3 e 5, c.p.c Il motivo, così come formulato in ricorso, presenta un duplice profilo di inammissibilità. L'art. 366 bis c.p.c., nel testo vigente all'epoca di pubblicazione della sentenza impugnata 14 marzo 2007 , stabiliva che nei casi previsti dall'art. 360, primo comma, numeri 1 , 2 , 3 e 4 , l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall'art. 360, primo comma, n. 5 , l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione . La funzione propria del quesito di diritto è di far comprendere alla Corte di legittimità, dall'immediata lettura di esso, l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare Cass. n. 8463 del 2009 . Per tale ragione esso deve compendiare ex multis Cass. SS.UU. n. 2658 del 2008 Cass. n. 19769 del 2008 n. 7197 del 2009 n. 22704 del 2010 a la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito b la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice c la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare al caso di specie in termini, da ultimo, Cass. n. 12248 del 2013 . La carenza anche di uno solo di tali elementi comporta l'inammissibilità del ricorso Cass. n. 24339 del 2008 . Dal punto di vista della formulazione il quesito deve essere strutturato in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata Cass. n. 1416 del 2014 . Esso poi non può essere desunto dal contenuto del motivo Cass. n. 20409 del 2008 . Nell'ipotesi di motivo ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. esso deve essere concluso da un momento di sintesi o di riepilogo, a pena di inammissibilità. Si è infatti affermato che, per le doglianze di vizio di motivazione, occorre la formulazione - con articolazione conclusiva e riassuntiva di uno specifico passaggio espositivo del ricorso - di un momento di sintesi o di riepilogo v. Cass. n. 16002 del 2007 SS.UU. n. 20603 del 2007 Cass. n. 27680 del 2009 , il quale indichi in modo sintetico, evidente ed autonomo rispetto al tenore testuale del motivo, il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, come pure - se non soprattutto - le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione tale requisito non può ritenersi rispettato quando solo la completa lettura dell'illustrazione del motivo - all'esito di una interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione della parte ricorrente - consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure da ultimo, Cass. n. 12248 del 2013 . Pertanto nei casi di motivo promiscuo, in cui si prospettano sia violazioni di legge che difetti di motivazione, nei limiti in cui tale formulazione può dirsi ammissibile allorquando la parte argomentativa renda possibile l'operazione di interpretazione e sussunzione delle censure, è comunque necessario articolare distinti quesiti e momenti di sintesi cfr. Cass. SS.UU. n. 7770 del 2009 e Cass. n. 976 del 2008 . Nella specie, in cui si denunciano plurime violazioni di legge contestualmente a vizi motivazionali, l'unitario motivo è concluso da una serie di enunciati dai quali non è dato comprendere quale sia il quesito di diritto - con esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare al caso di specie - e quale sia il momento di sintesi riferibile ad un fatto storico controverso e decisivo. Il motivo in esame è poi inammissibile per violazione dell'art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., secondo cui il ricorso in cassazione tra l'altro deve contenere, a pena di inammissibilità , la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda . Per consolidato orientamento di questa Corte la disposizione, oltre a richiedere la specifica indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell'art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., anche che esso sia prodotto in sede di legittimità per tutte v. Cass. SS.UU. n. 28547 del 2008 . In particolare le stesse Sezioni unite sent. n. 7161 del 2010 hanno successivamente articolato i seguenti distinguo a qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di quelle fasi, la produzione può avvenire per il tramite della produzione di tale fascicolo, ferma restando la necessità di indicare nel ricorso la sede in cui esso ivi è rinvenibile e di indicare che il fascicolo è prodotto, occorrendo tali indicazioni perché il requisito della indicazione specifica sia assolto b se il documento risulti prodotto nelle fasi di merito dalla controparte, è necessario che il ricorrente indichi che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito della controparte e che - cautelativamente e comunque stante l'autonoma previsione dell'art. 369 c.p.c., n. 4 citato, che riferisce l'onere di produzione direttamente al ricorrente, per il caso che quella controparte possa non costituirsi in sede di legittimità o possa costituirsi senza produrre il fascicolo o possa produrlo senza il documento - produca in copia il documento stesso appunto ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ed indichi tale modalità di produzione nel ricorso c se si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, ipotesi che stante il tenore dell'art. 372 c.p.c., comma 1, continua a riguardare il caso dei documenti relativi alla nullità della sentenza impugnata o all'ammissibilità del ricorso, è necessario che il ricorrente indichi nel ricorso la produzione, individuando il documento e, quindi, lo produca unitamente a questo d se si tratti documenti attinenti alla fondatezza del ricorso che si sono formati dopo le fasi di merito e comunque dopo l'esaurimento della possibilità di produrli in esse sono necessari adempimenti simili a quelli di cui alla lettera precedente . Nell'impugnazione che ci occupa il ricorrente, sebbene riporti il testo delle norme del Regolamento del Fondo di Previdenza Aziendale Complementare delle prestazioni Inps per i dipendenti della Spa Banca dell'Umbria 1462 di cui invoca la corretta interpretazione, non indica specificamente in alcun punto del motivo esposto in quale sede processuale risulti prodotto il documento richiamato. 3.- Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge.