Niente cumulo totale pensione-retribuzione al pubblico dipendente part-time

Posto che l'art. 1, comma 185, l. n. 662/1996 è norma eccezionale poiché consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente, per quanto a tempo non più pieno ma parziale, e il contemporaneo conseguimento, entro specificati limiti, del trattamento pensionistico di anzianità in costanza del rapporto, il pubblico dipendente che ha trasformato il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, ai sensi dell’art. 1, comma 185, l. n. 662/96, con godimento parziale del trattamento pensionistico raggiunto, non può usufruire del cumulo totale di entrambi i trattamenti, ai sensi dell’art. 44 l. n. 289/2002.

La somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione del dipendente part-time non può superare l’ammontare di retribuzione spettante a parità di condizioni al lavoratore a tempo pieno. Così afferma la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 16513 pubblicata il 21 luglio 2014. Domanda di una lavoratrice volta ad ottenere il diritto al cumulo del reddito da pensione con quello da lavoro dipendente, ai sensi della Legge n. 289/2002. Una lavoratrice, passata da rapporto a tempo pieno a part-time, ai sensi dell’art. 1 comma 185 della L. 662/96, il cui rapporto a tempo pieno era stato trasformato per usufruire del godimento parziale del trattamento pensionistico raggiunto, aveva richiesto al Tribunale del lavoro l’accertamento del diritto al cumulo di trattamento pensionistico e retributivo. Con il ricorso proposto veniva chiesta la condanna dell’INPS a corrispondere la pensione di anzianità spettante in misura integrale, ai sensi dell’art. 44 L. n. 289/2002. Il Tribunale adito accoglieva la domanda. Proponeva appello l’INPS ma la Corte d’Appello di Milano respingeva il gravame, evidenziando che sia la L. n. 662/96 sia la n. 289/2002 dovevano considerarsi norme di carattere generale che quest’ultima aboliva il divieto di cumulo e che si doveva estendere anche alle fattispecie previste dalla L. n. 662/96 che non vi erano ragioni di distinzioni tra dipendenti pubblici e privati in relazione alla materia trattata. Proponeva così ricorso in Cassazione l’INPS, con due motivi di censura, trattati congiuntamente dalla Corte. L’evoluzione del divieto di cumulo. Inizialmente la Legge n. 153/1969 aveva stabilito il divieto di cumulo tra pensione di anzianità dei dipendenti privati con reddito da lavoro dipendente divieto ribadito d.lgs. n. 503/1992. Il lavoratore doveva dunque necessariamente risolvere il rapporto di lavoro per poter usufruire della prestazione pensionistica. Dopo una prima riforma avvenuta nel 1995, con le leggi n. 388/2000 art. 72 e 289/2002 art. 44 , il divieto di cumulo era stato abrogato, così consentendo di cumulare integralmente reddito da pensione e reddito da lavoro. Tale regime tuttavia, insegna la Suprema Corte, doveva ritenersi applicabile unicamente all’impiego privato, rimanendo escluso il pubblico impiego. L’art. 1, comma 185, L. n. 662/96 è norma speciale La norma contenuta nell’articolo 1, comma 185, legge n. 662/1996 è nata come eccezione favorevole, in deroga al precedente regime generale di divieto di cumulo. Con essa si consentiva al pubblico dipendente, una volta raggiunta la possibilità di usufruire di trattamento pensionistico, di trasformare il proprio rapporto di lavoro da full-time in part-time, riducendo proporzionalmente la retribuzione lavorativa, cumulandola con il trattamento pensionistico, anch’esso proporzionalmente ridotto, in modo da ottenere in via cumulativa un importo che non doveva superare quello derivante dalla retribuzione percepita da un lavoratore a tempo pieno nelle medesime condizioni. Tale norma, afferma la Corte, deve qualificarsi come eccezionale, avendo portata derogatoria rispetto ai principi generali di incumulabilità nel sistema in allora vigente dei trattamenti. Trattandosi di norma di carattere eccezionale, non può applicarsi il regime dell’abrogazione tacita di cui all’art. 15 delle Preleggi, in quanto la disciplina generale come tale è da ritenersi l’art. 44 L. n. 289/2002 , salvo diversa espressa volontà del legislatore, non può spingersi a mutare norme dettate per disciplinare singole o particolari fattispecie dal legislatore precedente. non imponeva la cessazione dell’attività lavorativa. L’articolo 1, comma 185, legge n. 662/1996 prevedeva la possibilità di cumulo parziale dei trattamenti, alla condizione che il rapporto di lavoro venisse trasformato da tempo pieno a tempo parziale. Con ciò introducendo una deroga favorevole per il dipendente pubblico rispetto a quello privato che, diversamente doveva risolvere il rapporto di lavoro per poter beneficiare del trattamento pensionistico. Questo carattere eccezionale fa sì che la successiva modifica legislativa di carattere generale non possa incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo parziale previsto dalla norma speciale in origine più favorevole . L’interpretazione data dalla Corte di Cassazione considera dunque quali requisiti indispensabili per poter usufruire del trattamento pensionistico,oltre al raggiungimento della necessaria anzianità contributiva e assicurativa, la cessazione di qualsiasi tipo di rapporto di lavoro alla data di presentazione della domanda di pensione. La possibilità di proseguire il rapporto di lavoro pubblico, sia pure trasformato in tempo parziale, e di beneficiare del trattamento pensionistico in costanza di rapporto costituisce senza dubbio eccezionalità, rispetto alla generalità del regime pensionistico previsto con conseguente intangibilità della speciale disciplina relativa. Le considerazioni sopra illustrate appaiono conformi al principio giurisprudenziale già più volte affermato dalla Suprema Corte in precedenti decisioni che così si può sintetizzare La somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti pubblici part-time ex art. 1, comma 185, L. n. 662/1996 non può superare in ogni caso l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno . Il ricorso proposto dall’INPS ha così trovato pieno accoglimento, con conseguente rigetto della domanda originariamente proposta dalla lavoratrice.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 giugno – 21 luglio 2014, n. 16513 Presidente Mammone – Relatore Garri Fatto e diritto La Corte d'appello di Milano - sezione lavoro ha rigettato l'impugnazione proposta dall'Inps avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Milano, con la quale era stato dichiarato il diritto della ricorrente G.R.E. di vedersi cumulato il reddito da pensione con quello di lavoro dipendente ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 44 a decorrere dall'1 gennaio 2003, con condanna dell'istituto previdenziale alla corresponsione del trattamento pensionistico per tale periodo, maggiorato degli accessori di legge. La Corte territoriale ha disatteso le tesi dell'Istituto secondo il quale l'art. 44 della L. n. 289 del 2002, che aveva abolito il divieto di cumulo tra pensioni di anzianità coi redditi di lavoro a decorrere dal gennaio del 2002, non trovava applicazione nei confronti dell'appellata in quanto la lavoratrice pensionata di anzianità in deroga al predetto divieto assoluto di cumulo, aveva usufruito dei benefici della previgente disciplina di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, restando in servizio con orario ridotto a far tempo dalla data di pensionamento così cumulando il reddito da lavoro con quello pensionistico in misura ridotta, senza superare, in ogni caso, il trattamento complessivo spettante ad un dipendente di pari posizione in servizio a tempo pieno. Secondo il giudice d'appello lo speciale regime di cumulo stabilito con il D.M. n. 331 del 1997 non comporta le conseguenze che l'Inps vi ricollega. Si tratta infatti di una norma di fonte secondaria, di esecuzione di una di rango primario, e non può pertanto condurre all'esclusione della normativa generale di cui alla L. n. 338 del 2000, art. 72 e L. n. 289 del 2002, art. 44 normativa indicativa di una progressiva estensione della possibilità di cumulo dei redditi da lavoro e da pensione. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l'Inps, che affida l'impugnazione a due motivi. Resiste con controricorso la G. . Tutto ciò premesso si rileva che la materia oggetto di esame nella presente controversia è stata più volte scrutinata da questa Corte che proprio con riguardo alle medesime censure ha affermato che L'art. 1, comma 185, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 è norma eccezionale poiché consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente, per quanto a tempo non più pieno ma parziale, e il contemporaneo conseguimento, entro specificati limiti, del trattamento pensionistico di anzianità in costanza del rapporto, con lo stesso datore di lavoro, derogando ai principi generali per cui il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell'attività di lavoro dipendente. Ne deriva che la suddetta disciplina — contenente l'esplicita previsione che la somma dell'ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti a tempo parziale non possa superare l'ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di condizioni, presti la sua attività a tempo pieno - non è derogabile dalla successiva normativa generale di cui all'art. 44 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, abolitrice del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro subordinato, senza che possa trovare spazio alcuna censura costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico”. cfr Cass. nn. 25800 del 2011 . Ciò in quanto 1. fin dall'inizio L. n. 153 del 1969, art. 22 la pensione di anzianità dei dipendenti privati è stata incumulabile per l'intero con il reddito da lavoro dipendente e detta in cumulabilità piena con il reddito da lavoro subordinato è rimasta inalterata D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, commi 1 e 2 , dovendo il lavoratore subordinato risolvere il rapporto di lavoro D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, comma 6 per poter godere della prestazione pensionistica. Un'ulteriore tappa del processo evolutivo riguarda la fase di regime della riforma del 1995 vale a dire le pensioni da liquidare esclusivamente con il sistema contributivo. Tale riforma aveva previsto la vigenza, fino al compimento da parte dell'interessato dell'età di 62 anni, del regime di incumulabilità con il reddito da lavoro dipendente, nella sua interezza, e con il reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo e invece dall'età di 63 anni in poi, del regime di incumulabilità della pensione con i redditi sia da lavoro dipendente che da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente l’importo del trattamento minimo L. n. 335 del 1995, art. 1, commi 21 e 22 . Detti limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro sono ormai sostanzialmente superati ed attualmente le pensioni di anzianità sono intermente cumulabili con i redditi da lavoro tanto autonomo che dipendente, purché il lavoratore abbia una determinata anzianità contributiva L. n. 388 del 2000, art. 72 e L. n. 289 del 2002, art. 44 . La L. n. 243 del 2004 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi contenenti norme intese tra l’altro ad eliminare progressivamente il divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro art. 1, comma 1, lett. b , ma la delega non è stata attuata tuttavia successivamente ha provveduto alla liberalizzazione la L. n. 133 del 2008, art. 19. 2. Anche ove sia ritenuto che il regime di liberalizzazione sia ormai operante per tutti i settori, deve preliminarmente, ai fini della decisione della questione all'esame, individuarsi la natura della norma contenuta nella L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, nata come eccezione di favore in deroga al vecchio regime generale, per valutare se la stessa sia resistente o meno al processo di evoluzione nel senso della liberalizzazione sopra delineata. A norma dell'art. 15 preleggi, infatti, l'abrogazione tacita si realizza sia quando le disposizioni della nuova legge siano incompatibili con quelle della legge anteriore, sia quando la nuova legge regoli l'intera materia già regolata dalla legge anteriore, non potendo ovviamente coesistere, in quest'ultimo caso, due leggi che regolino per intero la medesima materia. Tuttavia, la regola dell'abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella successiva, invece, generale ritenendosi che la disciplina generale - salvo espressa volontà contraria del legislatore - non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente. 3. La norma di cui si discute art. 1 commi 185 e 187 legge 662/96 deve indubbiamente qualificarsi come eccezionale, avendo portata derogatoria, nel sistema in vigore all'epoca della sua emanazione, rispetto ai principi generali in tema di incumulabilità tra pensione di anzianità e redditi di lavoro e prevedendo la possibilità di cumulo sia pure limitato, nel senso che l'importo della pensione viene ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione dell'orario normale di lavoro riduzione comunque non superiore al 50% e che la somma della pensione e della retribuzione non può in ogni caso superare l'ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno. Per il pubblico impiego, con il D.M. 29 luglio 1997, n. 331, è stato emanato in esecuzione di quanto previsto dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 187 il regolamento concernente i criteri e le modalità da applicare ai pubblici dipendenti di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, per usufruire della possibilità di cumulare, ai sensi dell'art. 1, commi da 185 a 189, della legge citata, l'importo della pensione di anzianità con l'ammontare della retribuzione conseguente alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, prevedendosi determinate condizioni per l'operatività della trasformazione con diritto al cumulo parziale, tra cui quella della insussistenza nella qualifica funzionale di appartenenza di situazioni di esubero. 4. Il carattere di eccezionalità della normativa, che non consente alla normativa successiva di carattere generale di incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo parziale, deve essere collegato anche alla circostanza che il conseguimento del trattamento pensionistico, sia pure ridotto, non è subordinato, dalla legge 662/96, alla cessazione dell'attività lavorativa. Ed invero, il diritto alla pensione, nella generalità dei casi, ai sensi della L. n. 153 del 1969, art. 22, comma 1, lett. c , matura in capo al lavoratore interessato alla presenza di un duplice requisito, rappresentato dal raggiungimento dell'anzianità contributiva e dalla cessazione dell'attività lavorativa subordinata alla data di presentazione della relativa domanda. Con la riforma introdotta dal D.Lgs. n. 503 del 1992, il legislatore ha ribadito che il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell'attività di lavoro dipendente art. 10, comma 6 , estendendo tale requisito anche alla pensione di vecchiaia art. 1, comma 7 . Per entrambe le disposizioni citate il requisito della cessazione del rapporto di lavoro costituisce, infatti, una presunzione di bisogno che giustifica l'erogazione della prestazione sociale ai sensi dell'art. 38 Cost Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato e la produzione, che ne consegue, di reddito da lavoro - dopo il perfezionamento dei requisiti - esclude lo stato di bisogno del lavoratore . e, quindi, anche l'esigenza di garantire al lavoratore medesimo ai sensi dell'art. 38 Cost., comma 2 mezzi adeguati alle esigenze di vita . 5. La eccezionalità della citata norma del 1996 deve, pertanto, ravvisarsi, alla luce dei principi appena richiamati, nella peculiarità della fattispecie prevista, che consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente per quanto part time ed il contemporaneo conseguimento del trattamento pensionistico di anzianità in costanza di rapporto, sia pure trasformato, con lo stesso datore di lavoro. Da tali considerazioni deve discendere pertanto l'intangibilità di una disciplina eccezionale, che sicuramente risulta derogatoria rispetto ai principi in materia pensionistica quanto al conseguimento del diritto alla prestazione, da parte di normativa generale successiva che abolisce il divieto di cumulo, ma comunque mantiene fermo il principio dalla necessità di interruzione del rapporto lavorativo. 6. Ciò si desume anche da quanto previsto testualmente dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44, comma 2, parte seconda laddove è previsto che la disposizione si applica - oltre che agli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002 e nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto parziale o totale di cumulo art. 44, comma 2, 1^ parte, L. citata - anche agli iscritti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002. Quest'ultima disposizione art. 4 comma 2 L. 489/2002 infatti prevede si che anche coloro che sono già pensionati di anzianità possono accedere al regime di totale cumulabilità dal primo gennaio 2003, subordinatamente al pagamento dell'una tantum, tuttavia questa facoltà è espressamente condizionata alla interruzione del rapporto di lavoro , mentre al contrario non è stato interrotto ed è quindi fuori del raggio di applicazione di detta normativa. Tali principi sono stati reiteratamente affermati da questa Corte anche con sentenze ed ordinanze successive alla sentenza sopra citata cfr. Cass. 3515 del 2014 e 20389 del 2013, 8047 e 8046 del 2012, 4900 del 2012 . Poiché si condividono le considerazioni sopra riportate e si intende dare continuità ai principi esposti il ricorso va accolto in quanto manifestamente fondato. Per l'effetto la domanda della G. , non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, deve essere rigettata. La complessità della disciplina esaminata giustifica la compensazione tra le parti delle spese dell'intero processo. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l'originaria domanda proposta da G.R.E. . Compensa tra le parti le spese dell'intero processo.