Accordata tutela reintegratoria anche per i dirigenti pubblici

L’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una P.A. con un dirigente, sia dell’amministrazione centrale che degli enti territoriali, comporta l’applicazione, al rapporto fondamentale sottostante, della disciplina dell’art. 18, l. n. 300/1970, con le conseguenze reintegratorie.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 8077 del 7 aprile 2014. Il fatto. Un Dirigente Provinciale impugnava dinnanzi al Tribunale di Gorizia il licenziamento intimatogli con lettera, per giusta causa, in quanto aveva denunciato dei fatti penalmente rilevanti posti in essere dal proprio datore di lavoro, cui la stampa locale aveva dato ampio rilievo, proprio perché si trattava di personaggi pubblici. L’uomo chiedeva principalmente l’applicazione della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e, in subordine, il pagamento dell’indennità supplementare prevista dall’art. 30 del ccnl dirigenti locali e l’indennità sostitutiva del preavviso. La Provincia è tenuta a indennizzare. Il Tribunale riteneva l’insussistenza della giusta causa e della giustificatezza del recesso, e l’inapplicabilità della reintegrazione, perciò condannava la Provincia a corrispondere al ricorrente l’indennità di mancato preavviso e l’indennità supplementare. In appello la decisione veniva confermata, ma la tutela reale non veniva applicata sia perché ciò avrebbe comportato una tutela rafforzata del dirigente pubblico rispetto a quello privato, sia perché sarebbe stato in contrasto con la disciplina prevista dal ccnl di settore. Conseguentemente ricorreva per cassazione la Provincia con ricorso principale lamentando la scorrettezza del dirigente, nel condannare le condotte del proprio datore di lavoro. In via incidentale invece, ricorreva il dirigente danneggiato, lamentando la non corresponsione di quanto dovuto ex art. 18 l. n. 300/1970. Denunciati i fatti illeciti dei propri superiori. Riguardo al ricorso principale, il Collegio ritiene che la denuncia da parte del dipendente di fatti attribuiti ai propri superiori, non viola il dovere di diligenza, di subordinazione o di fedeltà, non potendosi ipotizzare che rientri tra i doveri del dipendente tacere fatti illeciti che veda accadere attorno a sé in azienda o che lo riguardino personalmente. Pertanto se da un lato la denunzia di fatti illeciti è legittima, altra cosa è la precipua volontà di arrecare un danno al proprio datore di lavoro mediante dichiarazioni false. Nel caso di specie, dalle risultanze processuali, non emergeva che il dipendente avesse travalicato i limiti consentiti dalla sua condotta, cosicché il ricorso principale deve ritenersi rigettato. Sì alla tutela reintegratoria. Riguardo invece il ricorso incidentale, la Corte ritiene la doglianza fondata, difatti dà continuità al principio secondo cui l’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una P.a. con un dirigente, sia dell’amministrazione centrale che degli enti territoriali, comporta l’applicazione, al rapporto fondamentale sottostante, della disciplina dell’art. 18 l. n. 300/1970, con le conseguenze reintegratorie . Ammette dunque che la tutela reintegratoria ai dirigenti pubblici si pone in coerenza con i principi di imparzialità e buon andamento della P.a., e rileva che neanche la contrattazione collettiva per il personale della dirigenza del comparto Regioni-Autonomie locali osta all’accordare la tutela reintegratoria in sede giudiziale al dirigente illegittimamente licenziato. In ragione di tale motivo accolto la sentenza impugnata viene cassata.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 febbraio – 7 aprile 2014, numero 8077 Presidente Roselli – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo Il Dott. E.G. , Dirigente della Provincia di Gorizia dal dicembre 1982, impugnava davanti al Tribunale di Gorizia il licenziamento intimatogli con lettera del 7 febbraio 2003 per giusta causa, configurata nell'avere presentato denunce all'Autorità Giudiziaria penale nei confronti della Giunta provinciale, del suo Presidente e del Segretario Generale, cui la stampa locale aveva dato ampio rilievo, aventi ad oggetto fatti falsi e privi di riscontro, tanto che il Tribunale aveva assolto gli imputati per insussistenza del fatto. Chiedeva in principalità l'applicazione della tutela reale prevista dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e, in subordine, il pagamento dell'indennità supplementare prevista dall'art. 30 del CCNL dirigenti enti locali e l'indennità sostitutiva del preavviso. Il Tribunale con la sentenza numero 66/2004 riteneva l'insussistenza della giusta causa e della giustificatezza del recesso riteneva inapplicabile la reintegrazione e condannava la provincia di Gorizia a corrispondere al ricorrente l'indennità di mancato preavviso e l'indennità supplementare. La sentenza veniva gravata d'appello dal Dott. E. , cui resisteva la Provincia di Gorizia che proponeva a sua volta appello incidentale. La Corte d'Appello di Trieste confermava la sentenza impugnata, solo ritoccando in aumento le indennità riconosciute. In motivazione, ribadiva il difetto di giusta causa e di giustificatezza del licenziamento ed argomentava che l'avere presentato denuncia penale non poteva configurare un atto illegittimo, costituendo manifestazione dei diritti riconosciuti dagli artt. 21 e 24 della Costituzione e non risultando che l'E. avesse travalicato con dolo o colpa grave i limiti di tali diritti. Aggiungeva che non poteva tenersi conto dell'esito del giudizio penale, atteso che avverso la sentenza del Tribunale che aveva assolto gli imputati con la formula perché il fatto non sussiste era stato proposto appello da parte del Pubblico Ministero e che l'Amministrazione non aveva dimostrato l'esistenza di un danno all'immagine ed alla credibilità dell'istituzione. Riteneva poi l'inapplicabilità della c.d. tutela reale, sia perché ciò avrebbe comportato una tutela rafforzata del dirigente pubblico rispetto a quello privato, sia perché sarebbe stato in contrasto con la previsione degli artt. 27 e 30 del CCNL di settore, che prevedono la corresponsione di un'indennità supplementare per il caso di licenziamento illegittimo inoltre, l'E. non aveva dimostrato di essere un c.d. dirigente minore, categoria cui ricollegava una tutela più intensa. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Provincia di Gorizia, affidato a quattro motivi, cui ha resistito il Dott. E. che ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a due motivi, cui la Provincia di Gorizia ha replicato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1. Preliminarmente i ricorsi devono essere riuniti ex art. 335 c.p.c. in quanto proposti avverso la medesima sentenza. 2. Come primo motivo del ricorso principale la Provincia di Gorizia deduce la Violazione e falsa applicazione dell'art. 2129 c.c. e degli artt. 24 e 21 della Costituzione, in relazione alla configurazione come giusta causa della falsità della denuncia penale presentata da un lavoratore a carico del datore di lavoro . Sostiene che la falsità dell'accusa costituisce un elemento sicuramente rilevante nella valutazione della giusta causa, com'è dimostrato dal fatto che l'esercizio dei diritti di libera manifestazione del pensiero e di difesa non scrimina dai reati di calunnia o diffamazione chi falsamente accusa un altro soggetto. 3. Come secondo motivo, deduce Violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell'art. 295 c.p.c. in relazione alla non definitività dell'accertamento penale . Argomenta che poiché la Corte d'Appello riteneva che l'accertamento della falsità o meno della denuncia fosse rilevante, avrebbe dovuto sospendere il processo ex art. 295 c.p.c. Aggiunge che oggi la falsità delle accuse mosse dal Dott. E. è definitivamente accertata, considerato che la Corte d'Appello di Trieste con la sentenza del 13 febbraio 2008 ha dichiarato inammissibile l'appello del Pubblico Ministero avverso la sentenza di assoluzione del Tribunale. 2.3.a. I primi due motivi sono connessi in quanto attengono entrambi alla condotta contestata al Dott. E. , per cui possono essere esaminati congiuntamente. Essi sono entrambi infondati. La rilevanza a fini disciplinari della denuncia da parte del dipendente all'autorità giudiziaria di fatti attributi ai propri superiori è stata oggetto di numerose pronunce di questa Corte, che ha sempre ritenuto che essa non viola i doveri di diligenza, di subordinazione o di fedeltà artt. 2104 e 2105 c.c. , non potendosi ipotizzare che rientri fra i doveri del prestatore di lavoro il tacere fatti illeciti da un punto di vista penale, civile od amministrativo che egli veda accadere intorno a sé in azienda o che lo riguardino personalmente, e che la legittimità del comportamento del lavoratore che denuncia al giudice penale un fatto posto in essere dal datore di lavoro nei suoi confronti deriva sia dal principio dettato dall'art. 24, primo comma, della Costituzione, con il quale viene garantita a tutti i cittadini, senza distinzioni di sorta e verso chiunque, la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, sia dal più generale principio contenuto nell'art. 21, primo comma, della stessa Costituzione, che tutela il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione . Cosa diversa è la precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro mediante false accuse, od anche il travalicare, con dolo o con colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva nel riferire all'autorità giudiziaria i fatti, nonché la condotta del dipendente che con il propalare la notizia all'interno o all'esterno dell'azienda abbia arrecato offesa all'onore ed alla reputazione del datore di lavoro in tal senso Cass. numero 1749 del 16/02/2000, numero 13738 del 16/10/2000, numero 6501 del 14/03/2013 . Condotte, queste, ulteriori rispetto al mero inoltro della denuncia, che devono essere dedotte e dimostrate dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 legge numero 604/66. In tal senso, l'accertamento compiuto dal giudice penale in esito alla denuncia del dipendente costituisce uno degli elementi della complessa valutazione che attiene alla legittimità della condotta, ma non l'indispensabile antecedente logico-giuridico di questa, sicché non sussiste la pregiudizialità necessaria che ai sensi dell'art. 295 c.p.c. impone la sospensione del procedimento pregiudicato. Nel caso in esame, la Corte ha fatto corretta applicazione di tali principi, ed ha esaminato le risultanze processuali concludendo che non risultava provato che il dipendente avesse travalicato i limiti consentiti alla sua condotta, con valutazione delle risultanze processuali che attiene al merito della controversia, né tale passaggio motivazionale è stato fatto oggetto di censura dal ricorrente principale. 2.3.b. La Provincia ricorrente valorizza poi l'accertamento contenuto nella sentenza del Tribunale di Gorizia che ha assolto gli imputati con la formula perché il fatto non sussiste gravata da appello del P.M. ritenuto inammissibile . Non riporta però in alcun modo il contenuto della sentenza assolutoria, né i passaggi della motivazione che ritiene rilevanti al fine di comprovare la tesi secondo la quale la valutazione del giudice penale avrebbe manifestato la ricorrenza nel dipendente della situazione soggettiva riprovevole sopra individuata, per cui il motivo è sotto tale aspetto inammissibile in quanto non fornisce gli elementi per valutare la decisività della censura al fine di disattendere l'esito della sentenza gravata. L'esistenza di un giudicato penale di assoluzione non è infatti di per sé elemento univoco nel senso di prospettare l'intento calunnioso o la denuncia esorbitante con colpa grave dalla verità oggettiva, potendo l'accertamento di non sussistenza dei fatti derivare da incertezze probatorie o acquisizioni successive ai fatti stessi che ne mutano la lettura ed il significato. Il ricorso si pone sotto tale aspetto in insanabile contrasto con il principio reiteratamente affermato da questa Corte, secondo il quale II ricorrente che denunci in sede di legittimità il difetto di motivazione sulla valutazione di risultanze probatorie o processuali, ha l'onere di indicare specificamente il contenuto dell'elemento non adeguatamente valutato, provvedendo alla sua trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative Cass. Ord. numero 17915 del 30/07/2010, Sent. numero 13677 del 31/07/2012 . 4. Come terzo motivo la ricorrente deduce Violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., dell'art. 5 della L. 604 del 1966 e dell'art. 2119 c.c. in ordine alla prova della risonanza sociale delle denunzie inoltrate alla magistratura penale dal Dott. E. e causative del suo licenziamento . Sostiene che la risonanza negativa della denuncia non era configurata nella contestazione di addebito come fatto determinante il recesso, ma solo come fatto di contorno ulteriormente aggravante la condotta, sicché la sua mancanza non poteva reagire sulla legittimità del recesso che la risonanza della denuncia in una cittadina di piccole dimensioni poteva ritenersi fatto notorio e che la stessa era stata ammessa dallo stesso Dott. E. , che aveva prodotto molti ritagli di stampa. 4.a. Anche tale motivo è infondato. Preliminarmente, si osserva che esso tende a sollecitare da parte di questa Corte un nuovo esame delle risultanze istruttorie e quindi della valutazione compiuta dal giudice d'appello in ordine ad uno degli aspetti della vicenda, inammissibile in questa sede. Nel merito, occorre tuttavia rilevare che la risonanza mediatica di una pur legittima denuncia a carico di amministratori pubblici è un fatto, invero frequente, che purtuttavia di per sé generalmente prescinde dalla condotta del denunciante e deriva dal ruolo pubblico degli incolpati. Essa non è quindi da ritenersi un elemento addebitabile al dipendente a fini disciplinari in via autonoma, potendo incidere sulla gravità della condotta solo quando questa comunque sia a monte , già nella fase della presentazione della denuncia, addebitabile nel senso più sopra evidenziato. Diverso è anche qui il caso in cui la risonanza sia provocata artatamente dalla condotta del dipendente, o quando il contenuto della notizia sia falsato per effetto del suo intervento, circostanza questa che neppure la ricorrente deduce essersi verificato. 5. Come quarto motivo la Provincia di Gorizia lamenta Violazione e falsa applicazione degli artt. 1424 c.c. e 112 c.p.c. per non avere la Corte d'Appello valutato se la causale del recesso potesse configurare un giustificato motivo in luogo della contestata giusta causa, come era stato richiesto nell'appello incidentale. 5.a. Il motivo è infondato, in quanto il vaglio della legittimità del recesso è stato effettuato dalla Corte d'Appello sia sotto il profilo della sussistenza della giusta causa sia sotto il profilo della sua giustificatezza, che sono stati entrambi ritenuti insussistenti all'esito di completa ed esaustiva disamina delle circostanze di causa. Il ricorso principale deve conclusivamente essere rigettato. 6. Il Dott. E. ha proposto a sua volta ricorso incidentale per la cassazione della sentenza di merito nella parte in cui ha respinto la sua domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 della L. 300 del 1970. Come primo motivo, lamenta Violazione degli artt. 21 e 51 II comma D.lgs. 165/2001 nonché dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost. . Argomenta che il principio in forza del quale il dirigente pubblico ha diritto alla tutela reale per il caso di illegittimo licenziamento, affermato da Cass. 2233/2007, sarebbe inderogabile da parte dell'autonomia privata, derivando alla disposizione di legge contenuta nell'art. 18 della L. 300 del 1970, per cui non avrebbero rilevanza le disposizioni della contrattazione collettiva che dispongono in difformità. 6.a. Il motivo è fondato. Occorre infatti dare continuità al principio più volte ribadito da questa Corte - con riferimento al regime anteriore all'entrata in vigore della L. 92/2012, applicabile ratione temporis - secondo il quale l’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una P.A. con un dirigente, sia dell'amministrazione centrale che degli enti territoriali, comporta l'applicazione, al rapporto fondamentale sottostante, della disciplina dell'art. 18 della legge numero 300 del 1970, con le conseguenze reintegratorie, mentre all'incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria Cass. 1 febbraio 2007 numero 2233, Cass. 31 luglio 2012 numero 13710, Cass. 13 giugno 2012 numero 9651 e Cass. 29 luglio 2013 numero 18198, riferita a dipendente comunale . Tanto si è ritenuto in applicazione della previsione dell'art. 51 del D.Lgs. numero 165 del 2001 che, dopo avere affermato al 1 comma che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato secondo le disposizioni dell'art. 2 commi 2 e 3 e dell'art. 3 comma 1, che comprendono anche i dirigenti, prevede, al comma 2, che la L. 20 maggio 1970, numero 300 e successive modificazioni ed integrazioni si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. Al riguardo si è affermato che, poiché il rapporto fondamentale stabile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall'art. 21 del D.Lgs. 30 marzo 2001 numero 165 a quello della categoria impiegatizia e poiché la L. 15 luglio 1966 numero 604 all'art. 10 si riferisce ai dirigenti privati, la L. numero 300 del 1970 non si applica con i limiti categoriali di cui alla L. numero 604 del 1966, ma l'estensione operata dall'art. 51, comma 2 cit. si riferisce anche al rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici. Né si determina in tal modo un trattamento preferenziale del dirigente pubblico rispetto a quello privato, considerato che la disciplina delle due dirigenze non è sovrapponibile poiché il procedimento qualificatorio della categoria dirigenziale si basa nel settore pubblico sulla ricorrenza di presupposti formali, non assumendo alcun rilievo l'esercizio delle mansioni effettivamente svolte ed ivi esiste una scissione, ignota al diritto privato, fra l'acquisto della qualifica di dirigente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali a tempo. È stato poi osservato che accordare la tutela reintegratoria anche ai dirigenti pubblici si pone in coerenza con i principi di imparzialità e di buon andamento della Pubblica amministrazione, in quanto solo in tal modo di ripristinerebbe la fisiologia organizzativa e si porrebbe pienamente rimedio alla disfunzione che consegue al licenziamento illegittimo. 6.b. La Corte d'Appello ha ritenuto che la soluzione sopra prospettata si porrebbe in contrasto con i principi contenuti nel CCNL per i Dirigenti degli enti locali, che detta una disciplina di tutela obbligatoria, ovvero risarcitoria, per il dirigente illegittimamente licenziato. L'analisi delle norme contrattual-collettive del settore consente tuttavia di escludere che esista siffatto contrasto. L'art. 30 del CCNL 10.4.1996 per il personale della dirigenza del comparto Regioni - Autonomie locali, nel testo concordato in sede sindacale in data 12.6.1996 - confermato per tali aspetti dall'art. 18 del CCNL del 23.12.1999 - prevede che ove il Collegio di conciliazione disciplinato dal comma 4 accolga il ricorso presentato dal dirigente licenziato, dispone a carico dell'amministrazione un' indennità' supplementare determinata entro certi limiti in relazione alla valutazione dei fatti e delle circostanze emerse ed all'età del dirigente. Analoga disposizione è contenuta nell'art. 13 del CCNL del 12.2.2002, che configura in termini indennitari la sanzione per l'amministrazione all'esito delle procedure di conciliazione ed arbitrato previste e disciplinate ai sensi degli arti 56, 65 e 66 del D.lgs. 165/2001 che accertino l'illegittimità del licenziamento. Le disposizioni richiamate sono espressamente dettate per dare un contenuto alle statuizioni degli organismi di conciliazione, chiamati a pronunciarsi sul licenziamento del dirigente. Esse però non contengono una previsione di carattere generale che configuri allo stesso modo i poteri del giudice, escludendo che in tale sede possa essere adottata una pronuncia reintegratoria, ed anzi premettono esplicitamente e fanno salva la possibilità del dirigente di adire l'autorità giudiziaria. Né dal sistema della contrattazione può evincersi una preclusione alla reintegrazione del dirigente illegittimamente licenziato, considerato che il comma 15 lettera b dello stesso art. 30 del CCNL del 1996 prevedeva al contrario che il Collegio, in fase di prima applicazione del contratto e sino al 30.9.1997, disponesse la reintegrazione del dirigente qualora accertasse la nullità o l’ingiustificatezza del recesso. Definitivamente esplicito è poi l'art. 11 del CCNL 22.2.2010 che, sotto la rubrica Reintegrazione del dirigente illegittimamente licenziato , prevede che, a domanda, l'ente reintegri in servizio il dirigente illegittimamente o ingiustificatamente licenziato dalla data della sentenza che ha dichiarato l'illegittimità o l'ingiustificatezza del recesso e detta le modalità della riammissione in servizio. Può quindi ritenersi che la contrattazione collettiva per il personale della dirigenza del comparto Regioni-Autonomie locali non osta all'accordare la tutela reintegratoria in sede giudiziale al dirigente illegittimamente licenziato. 7. Come secondo motivo, il ricorrente incidentale lamenta Insufficiente/contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo riguardante la configurabilità della sua figura dirigenziale quale dirigente minore . Sostiene che la Corte, nel ritenere che in ordine a tale circostanza non era stata fornita prova adeguata, avrebbe trascurato di valutare la circostanza, di cui si dava atto nelle premesse della motivazione, che egli nel maggio del 2000 aveva ricevuto un incarico di studio e di consulenza in luogo della posizione di dirigente della struttura e che gli artt. 22,40 e 41 del CCNL differenziano le posizioni dirigenziali che comportano da quelle che non comportano la direzione di strutture . 7.a. L'esame del motivo è assorbito dall'accoglimento del motivo precedente, dal momento che l'eventuale esito positivo non determinerebbe alcun ulteriore risultato favorevole per il ricorrente. 8. Segue a quanto premesso la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di merito, individuata come da dispositivo, per le statuizioni che conseguono alla ritenuta applicabilità dell'art. 18 della L. numero 300 del 1970 nel testo vigente al momento dell'irrogazione del licenziamento, anteriore alle modifiche apportatevi dalla L. 92/2012 come conseguenza dell'illegittimità del recesso, nonché per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi rigetta il ricorso principale accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d'Appello di Venezia, in diversa composizione, la quale provvederà anche per le spese.