Il danno alla salute del dipendente non comporta necessariamente anche il riconoscimento del danno alla professionalità

Il danno alla professionalità non può essere considerato in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo invece onere del dipendente provare tale danno dimostrando, ad esempio, un ostacolo alla progressione di carriera.

Lo afferma la Cassazione nella sentenza n. 172 dell’8 gennaio 2014. La vicenda . La questione al centro della fattispecie in esame vede il Comune di Roma convenuto in una richiesta di risarcimento danni da mobbing in favore di un suo dipendente. Quest’ultimo, infatti, asseriva di essere stato destinatario di provvedimenti disciplinari e trasferimenti dichiarati illegittimi. Il giudice di prime cure condannava l’ente pubblico al risarcimento del danno. Nel successivo grado di appello la sentenza del Tribunale veniva parzialmente riformata dimezzando sostanzialmente la misura del risarcimento. In particolare il giudice del gravame ha escluso il danno alla professionalità ritenendolo non provato nemmeno presuntivamente, in quanto il dipendente ha comunque svolto mansioni di tipo amministrativo, in relazione alle quali il periodo di forzata inattività non ha provocato la perdita di opportunità lavorative per il dipendente medesimo. Quest’ultimo avanza, pertanto, ricorso davanti alla Suprema Corte. Mobbing e risarcimento danni . Al fine di meglio comprendere la fattispecie in questione occorre ricordare che il mobbing costituisce un fenomeno del tutto sfornito di qualsiasi normativa disciplinatrice sia civile che penale e le cui implicazioni, normalmente aventi notevoli ripercussioni sulla salute del lavoratore, sono regolate solo grazie alla funzione suppletiva della giurisprudenza che lo ritiene riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c. e dovuta ad una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di lavoro o dai dirigenti protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e la emarginazione del dipendente nell'ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell'equilibrio psico-fisico e della personalità del medesimo si veda per tutte la Cass. n. 7382/2010 . Quindi, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio-afflittivo realizzati in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore la prova dell'elemento soggettivo, ossia l'intento persecutorio-afflittivo. La quantificazione del danno non patrimoniale . Preliminarmente, è opportuno premettere che in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore biologico, morale, esistenziale ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha pertanto duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi cfr. in tal senso Cass. n. 10527/2011, n. 15414/2011 cfr., in materia di danno subito dal lavoratore, anche Cass. n. 9238/2010, n. 23053/2009 . In particolare una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha affermato che il danno biologico - cioè la lesione della salute -, quello morale - cioè la sofferenza interiore - e quello dinamico-relazionale - altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona - costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili cfr. Cass. n. 20292/2012 . Peraltro, come opportunamente osserva tale ultima sentenza, questa conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972/2008 delle SS.UU., giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti. Per il dipendente va riconosciuto il danno alla professionalità . Nella fattispecie il dipendente sostiene la sussistenza di una contraddizione nella sentenza della Corte di appello. Secondo il dipendente ricorrente, infatti, il giudice del gravame avrebbe affermato la sussistenza del danno a seguito dell’illegittima condotta realizzata dal Comune di Roma, tuttavia, da tale premessa a fatto derivare l’esclusione del danno alla professionalità, ritenendo la mancanza di allegazione di circostanze che lo avrebbero determinato. Inoltre il dipendente ritiene che il comportamento a suo dire illecito del Comune di Roma è stato caratterizzato da discriminazione e da persecuzione psicologica, e, pertanto, ha comportato necessariamente la mortificazione morale e l’emarginazione professionale. Di conseguenza, secondo il dipendente ricorrente, il danno alla professionalità dovrebbe essere ritenuto almeno presunto. Per contro il Comune di Roma ritiene di non avere posto in essere un comportamento mobbizzante, in quanto non ha disposto alcun trasferimento, ma solo un cambio di funzioni nell’esercizio di legittimi poteri imprenditoriali. Pertanto, per l’ente comunale sarebbe stato impossibile potere adempiere a quanto richiesto dalla dipendente, tanto più che era stato obbligato al cambio di funzioni a causa della mancata erogazione dei fondi destinati all’Ufficio Formazione del Personale. I precedenti della Cassazione . Si rivela opportuno, in proposito, ricordare come la Corte di Cassazione, in un proprio precedente, consapevole della difficoltà di dimostrare il mobbing, ha facilitato la strada al risarcimento del danno anche quando gli episodi che mortificano il dipendente non fanno parte di un disegno persecutorio cfr. Cass. n. 18927/2012 . Per la Corte è sufficiente che ci sia una casistica e, si tratti di azioni, che se esaminate singolarmente, appaiano idonee a minare quella integrità psico-fisica che il datore di lavoro ha l'obbligo di tutelare, in base a quanto previsto dalla legge e dalla Costituzione. Se la vittima fornisce dunque validi indizi per far presumere che le discriminazioni lamentate siano davvero esistite, l'onere di provare il contrario spetta al datore di lavoro. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il danno patito alla propria integrità psico-fisica si legge nella sentenza in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice di merito, pur nella accertata insussistenza di un accertamento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni comportamenti denunciati esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro. Danno biologico diverso dal danno alla professionalità . Per la Suprema Corte il riconoscimento del danno biologico non implica necessariamente il riconoscimento del danno alla professionalità in quanto si tratta di voci di danno che hanno presupposti completamente differenti il danno biologico si riferisce, infatti, al fisico del lavoratore, mentre il danno alla professionalità all’aspetto della sua prestazione e capacità lavorativa. La Cassazione, invero, sottolinea che il danno alla professionalità non può essere considerato in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo invece onere del dipendente provare tale danno dimostrando, ad esempio, un ostacolo alla progressione di carriera. Infatti, la Suprema Corte in un autorevole precedente, ha già affermato che la liquidazione del danno alla professionalità non può prescindere dalla prova da parte del lavoratore dell'esistenza del danno e del nesso causale tra lo stesso e il demansionamento. Inoltre, trattandosi di danno non patrimoniale, deve essere evitata qualsiasi duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale che abbiano la medesima fonte causale cfr. Cass. n. 20980/2009 . Nella fattispecie in esame, invece, il ricorrente non ha neppure dedotto circostanze che inducano ad affermare l’esistenza del tipo di danno richiesto, affermando, invece, un’inammissibile danno alla professionalità in re ipsa . Per queste ragioni la Cassazione ritiene infondato anche il secondo motivo di ricorso, affermando che il ricorrente non può ricavare dalle circostanze di fatto un particolare tipo di danno, quale quello alla professionalità il quale richiede, invece una specifica allegazione e prova, non potendo in alcun modo confondersi o includersi nel danno biologico. La Cassazione conferma, quindi, il ragionamento della Corte di appello secondo cui svolgendo la lavoratrice mansioni di tipo amministrativo, non poteva presumersi che la forzata inattività le avesse fatto perdere opportunità lavorative o avesse comportato l’obsolescenza della sue conoscenze.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 19 novembre 2013 - 8 gennaio 2014, n. 172 Presidente Lamorgese Relatore Maisano Svolgimento del processo Con sentenza del 25 febbraio 2009 pubblicata il 28 novembre 2009 la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 15 novembre 2005, ha condannato il Comune di Roma al risarcimento del danno da mobbing in favore di T.C. nella misura di Euro 16.000,00 in luogo di quella di Euro 30.000,00 riconosciuta dal giudice di primo grado. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia ritenendo provato il danno subito dalla T. a causa della condotta mobizzante posta in essere dal Comune di Roma concretizzatasi in provvedimenti disciplinari e trasferimenti dichiarati illegittimi tale danno è stato quantificato sulla base della consulenza tecnica d'ufficio che ha riconosciuto il danno alla salute della dipendente. Tuttavia la Corte romana ha escluso il danno alla professionalità ritenendolo non provato nemmeno presuntivamente, avendo la T. comunque svolto mansioni di tipo amministrativo in relazione alle quali il periodo di forzata inattività dovuto al comportamento illegittimo del Comune di Roma, non ha prodotto conseguenze in termini di perdita di opportunità lavorative o obsolescenza, circostanze queste nemmeno dedotte dalla dipendente. La T. propone ricorso per cassazione avverso tale pronuncia, articolato su due motivi. Resiste con controricorso il Comune di Roma che svolge ricorso incidentale affidato ad un unico motivo. La T. resiste con controricorso al ricorso incidentale avversario. La stessa T. ha presentato memoria. Motivi della decisione I ricorsi vanno riuniti essendo proposti avverso la medesima sentenza. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, n. 5 cod. proc. civ. In particolare si deduce che la Corte territoriale avrebbe contraddittoriamente affermato la sussistenza del danno patito dalla ricorrente a seguito dell'illegittima condotta posta in essere dal Comune di Roma nei suoi confronti, escludendo, poi, l'esistenza del danno alla professionalità adducendo la mancanza di allegazione delle circostanze che lo avrebbero determinato, circostanze invece ritenute sussistenti ai fini del danno riconosciuto. Con il secondo motivo si assume violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in tema di illecito civile, responsabilità civile per inadempimento contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro, mobbing, nonché risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale derivante lesione alla sfera della professionalità del lavoratore in particolare violazione e falsa applicazione delle orme di cui agli artt. 1218, 2103, 2087, 2043 e 2059 cod. civ., nonché dell'art. 2 Cost., in relazione all'art. 360, n. 3 cod. proc. civ. violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di onere della prova, presunzioni semplici, valutazione ed apprezzamento delle risultanze istruttorie e dei fatti non contestati in particolare violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 e segg. cod. civ., e 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione all'art. 360, n. 3 cod. proc. civ. In particolare si deduce che l'acclarato comportamento mobizzante del Comune di Roma, caratterizzato da discriminazione e da persecuzione psicologica, avrebbe necessariamente determinato mortificazione morale ed emarginazione professionale, per cui il danno alla professionalità dovrebbe essere ritenuto almeno presunto. Con l'unico motivo del ricorso incidentale si lamenta violazione e falsa applicazione delle norme in materia di inadempimento contrattuale, obbligo di protezione datoriale dell'integrità psico-fisica e della personalità materiale del lavoratore, dequalificazione, demansionamento e mobbing, presunzioni semplici ed onere probatorio segnatamente, violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2087, 2013, 2697, 2729 e segg. cod. civ., e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, n. 3 cod. proc. civ. In particolare si deduce che il Comune di Roma non avrebbe posto in essere un comportamento mobbizzante non avendo disposto alcun trasferimento, ma solo un cambio di funzioni nell'esercizio dei legittimi poteri imprenditoriali, ed al quale sarebbe stato comunque obbligato a causa della mancata erogazione dei fondi destinati all'Ufficio Formazione del Personale, per cui sarebbe stato impossibile potere adempiere a quanto richiesto dalla dipendente. Il primo motivo del ricorso principale è infondato. Non sussiste alcuna logica contraddittorietà nel riconoscimento del danno biologico e nel rigetto della domanda relativa al danno alla professionalità. È di palmare evidenza che le due voci di danno hanno presupposti completamente diversi, essendo una relativo al fisico del lavoratore, mentre la seconda alla sua professionalità e cioè all'aspetto della sua prestazione e capacità lavorativa. Del tutto coerente è quindi una pronuncia, come quella impugnata, che riconosca un tipo danno e ne disconosca un altro. D'altra parte il danno alla professionalità non può essere considerato in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo invece onere del dipendente provare tale danno dimostrando, ad esempio, un ostacolo alla progressione di carriera. Questa Corte ha più volte affermato che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno cfr. Cass. 30 settembre 2009 n. 20980 . Nel caso in esame l'attuale ricorrente principale nemmeno ha dedotto circostanze che inducano ad affermare l'esistenza del tipo di danno richiesto, affermando, invece, un'inammissibile danno alla professionalità in re ipsa. Anche il secondo motivo del ricorso principale è infondato. Infatti la ricorrente, nell'affermare che le circostanze di fatto dedotte sono acclarate e nemmeno contestate dal Comune di Roma, pretende di ricavare dalle stesse circostanze un particolare tipo di danno, quale quello alla professionalità che, come detto a proposito del primo motivo, richiede una specifica allegazione e prova. Anche il ricorso incidentale proposto dal Comune di Roma è infondato. Le circostanze di fatto poste a fondamento della domanda di risarcimento del danno della T. sono pacifiche, e la Corte territoriale ha esattamente ritenuto che il datore di lavoro avrebbe dovuto provare di avere fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare il danno alla dipendente. Nel caso in esame è pacifico che la dipendente ha subito sanzioni e trasferimenti dichiarati illegittimi, per cui correttamente è stato ritenuto sussistente il presupposto per la condanna del datore di lavoro responsabile al risarcimento del danno morale e biologico subito dalla dipendente destinataria di provvedimento poi riconosciuti illegittimi. In ordine alle circostanze dedotte dal ricorrente incidentale, si osserva che il ricorso difetta anche del requisito dell'autosufficienza non essendo indicate con sufficiente chiarezza le risultanze istruttorie da cui ricavare la sussistenza delle circostanze da cui ricavare la necessità dei provvedimenti adottati nei confronti della T. . Stante la reciproca soccombenza le spese di giudizio vanno compensate fra le parti. P.Q.M. La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta Compensa fra le parti le spese di giudizio.