Se le condizioni di salute rendono impossibile la prestazione, il licenziamento è legittimo, anche per le categorie protette

La sopravvenuta inidoneità del lavoratore alla prestazione lavorativa richiesta e l’impossibilità per l’azienda di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con le limitazioni indicate dal medico competente, legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo a nulla rilevando l’appartenenza del lavoratore alla categoria di cui alla Legge n. 68/1999 sul collocamento obbligatorio, né che il numero di lavoratori disabili occupati in azienda sia inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3 della stessa Legge n. 68/1999.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 28426, pubblicata il 19 dicembre 2013. Il caso. Una lavoratrice disabile, assunta ai sensi della Legge n. 68/1999, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo, in quanto, in conseguenza delle limitazioni dettate dal medico competente, era risultata via via sempre meno utilizzabile in azienda, fino a divenire impossibile il suo impiego in azienda. Impugnato il licenziamento, Il Tribunale respingeva la domanda. Proponeva allora appello la lavoratrice, ma analogamente la Corte d’Appello lo rigettava, ritenendo giustificato il recesso. Proponeva così ricorso in cassazione la lavoratrice. La quota di riserva ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 68/1999 La ricorrente propone un motivo di censura, adducendo la violazione delle norme di cui alla Legge n. 68/1999. In particolare ritiene violato il disposto dell’articolo 10, n. 4, della citata legge, in quanto, al momento del licenziamento, il numero di lavoratori occupati obbligatoriamente categorie protette era inferiore alla quota di riserva prevista dall’articolo 3 delle legge medesima. applicabile solo ai licenziamenti per riduzione di personale. Secondo la Suprema Corte, l’interpretazione delle norme invocate dalla lavoratrice è infondata. Le norme in esame prendono in considerazione i casi di licenziamento per riduzione del personale, licenziamenti collettivi e per soppressione del posto di lavoro cosiddetto licenziamento economico . Nel caso in esame, il recesso venne adottato non per ragioni di contenimento dei costi bensì per l’inidoneità sopravvenuta della lavoratrice a rendere la prestazione lavorativa e dunque ad essere utilmente impiegata nella struttura aziendale. Pertanto la fattispecie prescinde dal requisito numerico di riserva invocato dalla ricorrente. Né la sentenza impugnata pare affetta di vizi di motivazione. La Corte d’appello ha correttamente e sufficientemente motivato la propria decisione, fondata sulla accertata sussistenza del motivo di recesso addotto cioè sulla effettiva sussistenza dell’impossibilità ad un utile impiego della lavoratrice. E poiché la Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, non ha il potere di riesaminare autonomamente nel merito delle vicende processuali, deve concludersi per la totale infondatezza del ricorso proposto e dunque con il suo rigetto.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 luglio – 19 dicembre 2013, n. 28426 Presidente Lamorgese – Relatore Amoroso Motivi in fatto ed in diritto 1. Con ricorso al Tribunale di Novara S.M. conveniva in giudizio la società W.P.B. Water Pump Bearing GmbH & amp Co. KG. esponendo di essere stata assunta alle dipendenze della convenuta il 7.7.1986 in quanto appartenente a categoria protetta equiparati agli orfani di guerra , con qualifica di operaia e mansioni di guida macchine specializzata di essere stata addetta, nel corso del rapporto, a diverse mansioni e, a partire dal 9.6.2003. a mansioni incompatibili con il suo stato di salute che, a seguito di certificato di idoneità con limitazioni, emesso dallo Spresal Servizio prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro il 15.10.2003, era stata impiegata in un numero di mansioni sempre minore, fino a rimanere di fatto inoperosa per metà della giornata lavorativa che con lettera, del 26.5.2006 era stata licenziata per asserito giustificato motivo oggettivo consistente nel fatto che, a seguito delle limitazioni all'idoneità stabilite dal medico competente dello Spresal, la prestazione parziale e frammentata che lei era in grado di offrire non poteva essere utilmente impiegata in azienda. Ciò premesso, chiedeva dichiararsi l'inefficacia del licenziamento perché intimato durante lo stato di malattia, e comunque la sua illegittimità per violazione della quota di riserva ex L. 68/1999 e per insussistenza del dedotto giustificato motivo, con le conseguenze di cui all'art. 18 St. lav. chiedeva altresì la condanna della convenuta al risarcimento dei danni per il demasionamento subito e per la sindrome depressiva causata dall'illegittimo licenziamento. Costituendosi in giudizio, la W.P.B. contestava il fondamento della domanda, chiedendone il rigetto. Istruita la causa, con sentenza del 15.12.2010 - 7.4.2011 il Tribunale di Novara adito dichiarava l'inefficacia del licenziamento fino al termine della malattia e respingeva ogni altra domanda. 2. Avverso detta sentenza interponeva appello la sig.ra S. , con ricorso depositato il 17.5.2011 chiedendone la riforma. L'appellata, costituitasi, resisteva al gravame. Con sentenza del 17.1.2012 - 19 marzo 2012 la Corte d'appello di Torino rigettava l'appello compensando le spese del grado. 3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l'originaria ricorrente con 23 motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. La ricorrente ha depositato memoria. 4. Il ricorso, articolato in 23 motivi, oggettivamente connessi e quindi suscettibili di esame congiunto, è infondato. 5. Tale è il motivo con cui si deduce la violazione dell'art. 10, quarto comma, legge n. 68 del 1999 la ragione dell'annullabilità del licenziamento si applica - secondo la ricorrente - non solo ai disabili ex L. n. 68/1999 ma anche alle categorie equiparate ex art. 18. La questione è infondata. L'art. 10 della legge n. 68 del 1999, che detta norme in ordine al rapporto di lavoro dei disabili obbligatoriamente assunti, prevede al quarto comma che il recesso di cui all'art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all'art. 3 della legge medesima. Quindi il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al quale si riferisce tale disposizione, non può che essere quello per soppressione del posto ossia il cd. licenziamento economico in simmetria con il licenziamento collettivo per riduzione di personale. Consegue che, ove anche ai lavoratori assimilati ex art. 18 L. n. 68 del 1999 cit. ai disabili orfani e dei coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, ovvero in conseguenza dell'aggravarsi dell'invalidità riportata per tali cause, nonché dei coniugi e dei figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di guerra, di servizio e di lavoro e dei profughi italiani rimpatriati fosse da riconoscere la stessa protezione, comunque nella specie mancherebbe il presupposto di fatto della soppressione del posto atteso che quello intimato alla ricorrente non può qualificarsi tale essendo sorretto invece dalla diversa ragione connessa alla ridotta attitudine della stessa a svolgere le sue mansioni. 6. Infondato è poi il motivo con cui il ricorrente lamenta la genericità delle ragioni addotte nella lettera di licenziamento, che avrebbe comportato la lesione del suo diritto di difesa. L'art. 2 della L. 604/1966 non prevedeva, all'epoca, alcun obbligo di motivazione della lettera di licenziamento, obbligo che sorge solo a seguito della richiesta in tal senso da parte del lavoratore, da formularsi entro 15 giorni dal licenziamento, a decorrere dalla quale l'azienda ha 7 giorni per comunicare i motivi del recesso. Comunque nella specie la lettera di licenziamento - ha apprezzato la Corte territoriale - è motivata più che chiaramente, con riferimento al fatto che. a seguito delle limitazioni all'idoneità stabilite dal medico competente e dallo Spresal, la prestazione parziale e frammentata che la sig.ra S. era in grado di offrire non poteva essere utilmente impiegata in azienda. La struttura dell'organizzazione aziendale era tale da non consentire l'utilizzazione della sig.ra S. in mansioni diverse da quelle che svolgeva al momento del licenziamento e che, non potendo essere da lei svolte per più di quattro ore complessive nell'arco della giornata interrotte, dopo due ore di lavoro, da due ore di pausa , non costituivano una prestazione utile per l'azienda. Fermo restando - come pure correttamente deduce la ricorrente - che il controllo del giudice sul corretto esercizio del potere disciplinare, ai sensi degli art. 3 L. n. 604 del 1966 e 7 stat. lav. non può avere ad oggetto fatti diversi da quelli contestati e recepiti nella motivazione del licenziamento che siano emersi nell'istruzione della causa, anche se essi abbiano delle analogie con quelli contestati Cass., sez. lav., 12 gennaio 2005, n. 428 . Né c'è violazione del giudicato. La Corte d'Appello nella sent. n. 885/2007, resa inter partes e richiamata dalla ricorrente, non ha affatto accertato che esistessero mansioni alternative cui adibire la sig.ra S. , avendo solo affermato - come puntualmente rileva la pronuncia impugnata della Corte territoriale - che il conferimento dell'incarico esteso anche al quesito in oggetto ricerca di altre mansioni compatibili con lo stato di salute della lavoratrice era determinato dalla necessità di individuare mansioni alternative nel caso in cui il consulente avesse ritenuto non compatibili le mansioni assegnate e svolte al momento della visita peritale. Tale evenienza non si è verificata in quanto il C.T.U. ha ritenuto compatibili le mansioni svolte dalla ricorrente e non vi era quindi necessità di estendere l'accertamento . 7. Inammissibili sono poi i plurimi profili di censura riferibili a vizi di motivazione invocando la ricorrente un sindacato di merito che non compete a questa Corte né è compatibile con il giudizio di legittimità. In generale questa Corte, quale giudice di legittimità, non ha il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento. Il vizio di motivazione può emergere solo se, dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risultante dalla sentenza impugnata, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità - non equivale alla revisione del ragionamento decisorio , ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Nella specie, non ravvisandosi nell'iter argomentativo della Corte d'appello violazioni di legge ed incongruenze o deficienze motivazionali, gli ulteriori motivi del ricorso devono essere disattesi. 8. Nel complesso il ricorso va rigettato. Alla soccombenza consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 50,00 per esborsi oltre Euro 3.000,00 tremila per compensi d'avvocato ed oltre accessori di legge.