Il dipendente timbra il cartellino dei colleghi? Il licenziamento è legittimo

La presunzione di innocenza dell’imputato riguarda solo questa figura, essendo regola esclusiva del processo penale tale principio, pertanto, non può escludere l’autonomo accertamento dei fatti disciplinarmente rilevanti nell’esercizio dei poteri datoriali.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 27810, depositata il 12 dicembre 2013. Timbra il cartellino al posto dei colleghi scatta il licenziamento in tronco. La pronuncia in esame trae origine dal giudizio con cui il dipendente licenziato per giusta causa ha impugnato la misura espulsiva comminatagli dopo che il datore di lavoro gli aveva contestato l’addebito di aver registrato, alla presenza di testimoni carabinieri , attraverso il lettore delle presenze, i badges dei dipendenti applicati all’ufficio di cui era responsabile apponendo la marcatura in entrata dei colleghi, il dipendente aveva così certificato l’inizio dell’attività lavorativa dei medesimi, pur essendo gli stessi, in effetti, assenti al predetto orario. Nel corso del giudizio di merito, il ricorrente ha affermato che la sanzione disciplinare non avrebbe potuto essergli irrogata in pendenza di un processo penale per i medesimi fatti, valendo anche nel processo civile la presunzione di innocenza fino alla condanna dell’imputato con sentenza passata in giudicato. La presunzione di non colpevolezza vale solo per l’imputato, non per il dipendente licenziato. La Suprema Corte ha ritenuto esente da censure la decisione della Corte territoriale secondo cui la presunzione di innocenza dell’imputato riguarda solo questa figura, essendo regola esclusiva del processo penale. Pertanto, non si può impedire al datore di lavoro di compiere, nell’esercizio dei propri poteri, un autonomo accertamento dei fatti disciplinarmente rilevanti, come, difatti, è avvenuto nella fattispecie in questione. Già in altre occasioni, i Giudici di legittimità hanno affermato che, dalla presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, co. 2, Cost., non consegue necessariamente l’impossibilità, fino alla condanna definitiva, di qualsiasi pregiudizio di natura civilistica a carico del lavoratore penalmente imputato. Con riferimento alla materia giuslavoristica, dalla norma costituzionale può essere tratto il diverso principio del minimo danno che deve derivare dalla pendenza del procedimento penale tale principio implica, più limitatamente, che la condanna penale ed, a maggior ragione, la pendenza del processo non possono riflettersi automaticamente nella causa di lavoro, ossia senza la mediazione di valutazioni discrezionali del giudice civile o di organi disciplinari cfr. Cass., n. 7048/1994 . Il lavoratore che mina irreparabilmente la fiducia del datore non può sperare di farla franca”. La Cassazione ha ritenuto congruamente motivata la decisione del giudice di merito anche in ordine alla proporzionalità tra addebito e recesso datoriale. Peraltro, già in altre occasioni, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che la timbratura del cartellino, nell’apposito apparecchio marcatempo, effettuata falsamente in favore di altro collega di lavoro, configura il deliberato e volontario tentativo di trarre in inganno il datore di lavoro tale condotta è idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario caratterizzante il rapporto di lavoro fra le parti e legittima il recesso Cass., n. 24796/2010 . In proposito, è noto il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza cfr., ex plurimis , Cass., n. 7096/2012 .

Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza 24 ottobre – 12 dicembre 2013, n. 27810 Presidente La Terza – Relatore Garri Fatto e diritto Con ricorso notificato il 21 dicembre 2011, V.M. chiede, con due motivi, la cassazione della sentenza depositata il 29 settembre 2011 e avviata alla notifica a mezzo del servizio postale il successivo 13 ottobre, con la quale la Corte d'appello di Potenza, confermando la decisione di primo grado, ha respinto le sue domande di impugnazione del licenziamento per giusta causa, comunicatogli dalla datrice di lavoro Poste Italiane s.p.a. con lettera del 4 agosto 2008, a seguito della contestazione disciplinare del 7 luglio precedente, contenente l'addebito di avere registrato in data 31 marzo 2008, alla presenza di testimoni carabinieri , attraverso il lettore delle presenze i badges dei dipendenti applicati all'ufficio di cui era responsabile, apponendo così la marcatura in entrata dei suoi colleghi e, in tal modo, certificando l'inizio dell'attività lavorativa dei medesimi pur essendo gli stessi, in effetti, assenti al predetto orario . I motivi di ricorso attengono a 1 - vizio di motivazione sulla valutazione della prova e violazione dell'art. 27 Cost. 2 - Omessa pronuncia su di un punto decisivo della controversia. Violazione artt. 112 c.p.c. e 7 L. n. 300/70. Erronea applicazione degli artt. 342 e 434 c.p.c Resiste alle domande la società con rituale controricorso. Il procedimento è regolato dagli artt. 360 e segg. c.p.c. con le modifiche e integrazioni successive, in particolare quelle apportate dalla legge 18 giugno 2009 n. 69. Ritiene la Corte di condividere le considerazioni contenute nella relazione depositata ai sensi dell'art. 375 c.p.c Ed infatti col primo motivo, il ricorrente lamenta la mancata specificazione da parte della Corte territoriale delle ragioni di rigetto del primo motivo di appello, relativo alla inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo stesso ricorrente in sede di giudizio penale promosso in parallelo per truffa aggravata e alla violazione dell'art. 27 Cost Quanto al primo profilo, la Corte territoriale ha viceversa affermato che il giudice di primo grado non aveva in alcun modo utilizzato tali dichiarazioni in sede penale, ma le risultanze dell'ampia istruttoria testimoniale e documentale svolta, affermazione che il ricorrente contesta solo genericamente, vale a dire senza dedurre, per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, specifici fatti della controversia autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e senza contestare l'istruttoria e deducendo unicamente che il giudizio sarebbe stato fondato sugli atti del P.M., senza mai peraltro indicare se, come e quando tali atti siano stati acquisiti al giudizio civile. Sotto il secondo profilo il ricorrente ribadisce che la sanzione disciplinare non avrebbe potuto essergli irrogata in pendenza di un processo penale per i medesimi fatti, valendo anche nel processo civile la presunzione di innocenza fino alla condanna dell'imputato con sentenza passata in giudicato. A tale motivo di appello, la Corte territoriale ha correttamente risposto che la presunzione di innocenza dell'imputato riguarda appunto quest'ultima figura, vale a dire è regola esclusiva del processo penale il che non esclude l'autonomo accertamento dei fatti disciplinarmente rilevanti nell'esercizio dei poteri datoriali, come operato dalla società. Infine, il ricorrente lamenta la mancata sospensione del processo civile. Non avendo peraltro dedotto di avere tempestivamente proposto tale richiesta nel giudizio di merito, la relativa censura appare proposta per la prima volta in questa sede, ove pertanto non può essere presa in esame. Il motivo è pertanto manifestamente infondato. Col secondo motivo, il V. censura la sentenza, in quanto la Corte territoriale non avrebbe in alcun modo preso in considerazione il motivo di appello che aveva lamentato l'omesso esame delle doglianze da lui svolte in primo grado e trascurate dal relativo giudice, omettendo al riguardo una pronuncia. Il motivo può ritenersi specifico solo per ciò che riguarda la censura di tardività della contestazione disciplinare, indicata come operata, senza alcuna giustificazione oggettiva, solo in data 7 luglio 2008, relativamente a fatti del 31 marzo precedente, censura che il ricorrente avrebbe svolto nel ricorso introduttivo del giudizio e quindi col motivo di appello che lamentava l'omessa pronuncia del giudice di primo grado, motivo che i giudici dell'appello avevano ritenuto inammissibile in quanto introdotto dall'appellante con la deduzione di mancato esame delle proprie difese e formulato con la mera riproduzione del contenuto del ricorso introduttivo. Anche questo motivo è manifestamente infondato. Esso non attiene infatti al vizio di omessa pronuncia su di un motivo di appello, ma investe la decisione della Corte territoriale laddove ha ritenuto generico il motivo stesso, in quanto formulato con la mera riproduzione del contenuto del ricorso originario, senza la evidenziazione dei punti suscettibili di condurre ad una decisione favorevole per l'appellante che non sarebbero stati esaminati dal giudice di primo grado. Questa valutazione di inammissibilità non viene censurata per le ragioni che la sostengono impossibilità di individuare gli specifici snodi delle difese non esaminati dal giudice di primo grado , ma enucleando solo oggi una di tali doglianze originarie, senza dimostrare in alcun modo che essa era individuabile dalla Corte territoriale sulla base dell'atto di appello, come specifico motivo dello stesso. Per le considerazioni esposte il ricorso deve essere respinto. Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. LA CORTE Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si liquidano in Euro 3000,00 per compensi professionali ed in Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.