Impianti aziendali sotto sequestro: nessuna retribuzione per il lavoratore

Nel caso in cui gli impianti aziendali siano oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo, venendo meno la possibilità di utilizzo della struttura, la società è oggettivamente impossibilitata a ricevere la prestazione del lavoratore, il quale non può pretendere di offrire la propria prestazione e quindi di avere la retribuzione.

È quanto risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 26953, depositata il 2 dicembre 2013. Se il datore avesse consentito ai lavoratori di rendere la prestazione lavorativa, avrebbe commesso un reato cui avrebbero concorso gli stessi dipendenti Un lavoratore si era visto rigettare la domanda volta a ottenere la condanna della ex società datrice al pagamento della retribuzione di una mensilità intera e di 20 giorni del mese di dicembre. La Corte d’Appello, infatti, aveva riscontrato che, nel periodo cui si riferisce la richiesta di corresponsione, la società si trovava nella oggettiva impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa del ricorrente, in quanto i suoi impianti erano stati oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo, per molteplici reati ambientali contestati al relativo amministratore unico. Di conseguenza, per quell’arco di tempo, la datrice non era in possesso dell’impianto produttivo, nel quale poter far lavorare i propri dipendenti, non per sua volontà o per impedimenti a essa imputabili. Quindi, in sede di merito, era stato sostenuto che i lavoratori non potevano pretendere di offrire la loro prestazione e di avere la retribuzione. Per la cassazione di tale sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso. A suo dire, la Corte di Appello non avrebbe considerato che il rapporto di lavoro era stato risolto dalla società con missiva, in data 20 dicembre, in cui si comunicava la decisione aziendale di cessare la attività produttiva e, quindi, di recedere dal contratto di lavoro in tale comunicazione non era affatto menzionato il provvedimento di sequestro. Quindi, il recesso, per il lavoratore, sarebbe da ricondursi allo stato di crisi. Con un’ulteriore doglianza, egli ha sottolineato che la Corte distrettuale era giunta alla decisione senza considerare il provvedimento di dissequestro e che il sequestro era stato conseguenza di fatti imputabili all’attività aziendale. La Suprema Corte ha ritenuto i motivi infondati. Gli Ermellini hanno precisato che la pretesa azionata ha ad oggetto il diritto alla retribuzione per un periodo antecedente al licenziamento. Società oggettivamente impossibilitata a ricevere la prestazione del lavoratore. Premesso ciò, il Collegio ha osservato che la Corte di merito non ha dichiarato risolto di diritto il rapporto di lavoro, ma ha ritenuto l’obbligazione del datore di lavoro, in relazione al periodo novembre-dicembre - anteriore al recesso del 20 dicembre -, estintasi per impossibilità sopravvenuta. A proposito dell’intervenuto dissequestro degli impianti, Piazza Cavour ha rilevato che dalla sentenza impugnata risulta che tale circostanza era stata solo allegata ma non provata. Quando alla omessa valutazione della imputabilità alla società dei fatti che avevano comportato l’adozione da parte dell’autorità giudiziaria del provvedimento di sequestro, il S.C. ha affermato che la datrice aveva impugnato la misura cautelare tentando di ottenere il dissequestro degli impianti, quindi, ponendo in essere quanto era nella sua disponibilità per rimuovere la causa della impossibilità sopravvenuta. Inoltre, per i giudici di legittimità, l’essere stata destinataria della misura cautelare non è circostanza di per sé sufficiente a dimostrare la sussistenza dei fatti posti a fondamento della stessa e cioè, nell’assunto del ricorrente, l’aver posto in essere una gestione irregolare del ciclo produttivo . Alla luce di ciò, il ricorso è stato rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 ottobre - 2 dicembre 2013, n. 26953 Presidente Vidiri – Relatore Tria Svolgimento del processo 1.— La sentenza attualmente impugnata respinge l'appello proposto da D.B.P. avverso la sentenza del Tribunale di Trani, in data 3 marzo 2006, di rigetto della domanda del lavoratore volta ad ottenere la condanna della ex datrice di lavoro TIFILTEX s.p.a. al pagamento della retribuzione della mensilità di novembre 2004 e dei primi venti giorni di dicembre 2004. La Corte d'appello di Bari, per quel che qui interessa, precisa che a risulta per tabulas che nel periodo di cui al ricorso la società TIFILTEX si trovava nella oggettiva impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa del ricorrente, in quanto gli impianti della società sono stati oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo del GIP del Tribunale di Trani datato 13 luglio 2004, per molteplici reati ambientali contestati al relativo amministratore unico b il Tribunale del riesame di Bari, con provvedimento del 20 settembre 2004, ha annullato solo in parte il decreto di sequestro preventivo c ne consegue che per il periodo cui si riferisce la richiesta di corresponsione della retribuzione la società TIFILTEX non era in possesso dell'impianto produttivo, nel quale poter far lavorare i propri dipendenti, non per sua volontà o per impedimenti ad essa imputabili d i lavoratori non potevano, quindi, pretendere di offrire la loro prestazione e quindi di avere la retribuzione e la mancata produzione di documentazione attestante la messa in mora della società dimostra che i dipendenti erano consapevoli della suddetta situazione e d'altra parte se il datore di lavoro avesse consentito ai lavoratori di rendere la prestazione lavorativa, avrebbe commesso un reato cui avrebbero concorso gli stessi dipendenti. 2.- Il ricorso di D.B.P. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi resiste, con controricorso, TIFILTEX s.p.a. in liquidazione. Motivi della decisione 1 - Sintesi dei motivi di ricorso. 1.- Il ricorso è articolato in tre motivi. 1.1- Con il primo motivo di ricorso si deduce 1 omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. 2 violazione e falsa applicazione art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. degli artt. 1256, 1463 e 1462 cod. civ. nonché dell'ad. 112 cod. proc. civ Si assume che la Corte di appello non avrebbe considerato alcune circostanze pacifiche e documentate in atti decisive per il giudizio, in particolare che il rapporto di lavoro era stato risolto dalla TIFILTEX con missiva in data 20 dicembre 2004 in cui si comunicava la decisione aziendale di cessare la attività produttiva e, quindi, di recedere dal contratto di lavoro con il ricorrente con rinuncia della società alla prestazione lavorativa durante il periodo di preavviso e con la precisazione che l'indennità sostitutiva del preavviso e le altre indennità sarebbero state corrisposte unitamente alla restituzione dei documenti di lavoro, non appena possibile che in tale comunicazione non era affatto menzionato il provvedimento di sequestro penale preventivo da cui la società era stata attinta nel luglio 2004 che la stessa TIFILTEX, nei propri scritti difensivi, aveva ribadito che il licenziamento era dovuto alla grave crisi economica da cui era stata colpita unitamente a tutto il settore tessile che, quindi, il recesso non era da ricondursi, per espressa ammissione della società stessa, ad una oggettiva impossibilità sopravvenuta. Pertanto, il giudice del gravame aveva finito per individuare il motivo del recesso imputandolo ad una impossibilità di utilizzo della struttura aziendale neppure dedotta dalla società, ciò in palese violazione del principio di cui all'art. 112 cod. proc. civ 1.2.- Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta violazione e falsa applicazione degli art. 1256, 1463 e 1462 cod. civ., dell'art. 3 della legge n. 604/ del 1966 e dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 avendo la Corte di merito errato nel dichiarare la risoluzione del rapporto di diritto ai sensi dell'art. 1463 cod. civ. in contrasto con il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui le ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa debbono essere fatte valere esclusivamente mediante il licenziamento e le sue regole, anche causali, per garantire i coinvolti interessi alla certezza e stabilità dell'occupazione. Peraltro, nel caso in esame, neppure la società datrice di lavoro aveva ritenuto sussistente situazione di impossibilità oggettiva, ricollegabile al sequestro penale degli impianti, di impedimento alla prosecuzione del rapporto ed infatti non aveva fatto immediatamente ricorso al recesso per giustificato motivo oggettivo la impossibilità sopravvenuta ma aveva licenziato il personale dopo tre mesi in esito ad una procedura ex lege n. 223 del 1991. Sino alla data del licenziamento, quindi, il rapporto era pacificamente proseguito con conseguente obbligo per la società di corrispondere le retribuzioni relative al mese di novembre 2004 e per i venti giorni di dicembre 2004. 1.3.- Con il terzo motivo di ricorso si deducono 1 omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto controverso 2 omesso erroneo apprezzamento delle risultanze istruttorie 3 violazione e falsa applicazione degli artt. 1256, 1463 e 1462 cod. civ Si sostiene che la Corte di appello sia giunta alla conclusione secondo cui, a seguito del sequestro penale degli impianti, si era verificata una oggettiva situazione di impossibilità sopravvenuta senza valutare se la TIFILTEX avesse ancora la possibilità di utilizzare la prestazione del lavoratore nonostante il detto provvedimento di sequestro e senza considerare il provvedimento di dissequestro disposto il 12 ottobre 2004 ed eseguito con la rimozione dei sigilli il 13 ottobre 2004. Inoltre, non sarebbe stato tenuto in debito conto che il sequestro penale era conseguenza di fatti imputabili all'attività aziendale e tutt'altro che imprevedibili e certamente evitabili con una regolare gestione del ciclo produttivo. 2 - Esame delle censure. 2.- Il Collegio ritiene di dovere dare continuità all'orientamento recentemente espresso da questa Corte nella sentenza 4 settembre 2013, n. 20319, in una controversia relativa ad altro ex dipendente della TIFILTEX s.r.l. ora s.p.a. in liquidazione, introdotta, in questa sede, con un ricorso uguale a quello attualmente in esame. 2.1.- In tale sentenza, in primo luogo, sono stati dichiarati infondati i primi due motivi del ricorso, trattati congiuntamente in quanto logicamente connessi. Al riguardo è stato affermato quanto segue È opportuno precisare che la pretesa azionata ha ad oggetto il diritto alla retribuzione per un periodo antecedente al licenziamento del 20 dicembre 2004. Ciò detto, osserva il Collegio che la Corte di merito non ha dichiarato risolto di diritto il rapporto di lavoro ma ha ritenuto l'obbligazione del datore di lavoro, in relazione al periodo novembre — dicembre 2004 anteriore al recesso del 20 dicembre, estintasi per impossibilità sopravvenuta. In tal senso va inteso il richiamo contenuto nella impugnata sentenza alla giurisprudenza di legittimità sulla risoluzione di diritto del contratto di lavoro quando venga meno la possibilità di utilizzo della struttura aziendale. Conferma di ciò è dato dal fatto che la Corte di appello ha condiviso la decisione del Tribunale di Trani che aveva rigettato la pretesa del ricorrente sul rilievo che, con riferimento al periodo novembre — dicembre 2004, la società era stata oggettivamente impossibilitata a ricevere la prestazione del ricorrente in ragione della esistenza del detto provvedimento di sequestro degli impianti. Quanto, poi, alla dedotta violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. la stessa non ricorre in quanto, secondo i principi ripetutamente affermati da questa Corte cfr., ex ceteris, Cass. 26 giugno 2009 n. 15073 Cass. 17 luglio 2007 n. 15925, 12 aprile 2006 n. 8519, 24 maggio 2005 n. 10922 e 1 settembre 2004 n. 17610 , incorre nella violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice che, esorbitando dai limiti della mera qualificazione giuridica della domanda, sostituisca la causa petendi dedotta in giudizio con una differente, fondata su un fatto diverso da quello allegato. Nel caso in esame è lo stesso ricorrente ad affermare che la Corte di merito aveva inquadrato la fattispecie in termini neppure dedotti dalla società con ciò finendo con l'ammettere che l'intervenuta chiusura degli stabilimenti produttivi era un circostanza che, comunque, era stata allegata dalla TIFILTEX al fine di essere esonerata dall'obbligo di corrispondere la retribuzione richiesta . 2.2. - Anche il terzo motivo è stato dichiarato infondato, osservandosi al riguardo che Come risulta dalla motivazione della impugnata sentenza la Corte di appello ha rilevato che la circostanza relativa all'intervenuto dissequestro degli impianti in data 12.10.2004 era stata solo allegata ma non provata. Inoltre, ha precisato che il Tribunale del riesame in data 20.9.2004 aveva confermato il sequestro in relazione solo ad alcuni dei reati contestati allo scopo di vietare la continuazione delle attività di cui capi di imputazione C , D ed F — cioè lo scarico delle acque reflue industriali sul suolo, l'approvvigionamento idrico necessario per il ciclo della lavorazione in assenza di autorizzazione, l'abbandono in modo incontrollato di rifiuti speciali consistenti in plastica, cavi elettrici, blocchi di cemento in tubi in PVC — ovvero di quelle attività collegate all'utilizzo degli stabilimenti di produzione che non vi era neppure la prova che l'autorità giudiziaria avesse concesso alla società di poter far uso degli impianti oggetto di sequestro. Quanto alla omessa valutazione della imputabilità alla società dei fatti che avevano comportato l'adozione da parte dell'autorità giudiziaria del provvedimento di sequestro, va rilevato che TIFILTEX ha impugnato la detta misura cautelare tentando di ottenere il dissequestro degli impianti, quindi, ponendo in essere quanto era nella sua disponibilità onde rimuovere la causa della impossibilità sopravvenuta. Inoltre, l'essere stata destinataria della misura cautelare non è circostanza di per sé sufficiente a dimostrare la sussistenza dei fatti posti a fondamento della stessa e cioè, nell'assunto del ricorrente, l'aver posto in essere una gestione irregolare del ciclo produttivo . 4 – Conclusioni. 3.- In sintesi, per le suesposte ragioni che il Collegio, come si è detto, condivide, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione - liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 50,00 cinquanta/00 per esborsi, Euro 2500,00 duemilacinquecento/00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.