L’obbedienza ad un ordine illegittimo, costituente reato, non giustifica il lavoratore

Il lavoratore, al quale viene impartito dal superiore un ordine palesemente illegittimo, comportante anche la commissione di reati, può sindacare nel merito tale ordine e disattenderlo. In caso contrario, la condotta penalmente rilevante, derivante dall’esecuzione dell’ordine illegittimo costituisce comportamento sanzionabile disciplinarmente, fino a dar luogo a giusta causa di licenziamento.

Principio, questo, affermato dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 24334, pubblicata il 29 ottobre 2013. La vicenda. Un lavoratore pubblico Agenzia delle Entrate era stato licenziato per giusta causa, in conseguenza di comportamenti illeciti e costituenti reato, attuati tuttavia in obbedienza ad ordini impartiti dal superiore gerarchico. Questi infatti, preso atto dell’imminenza dello spirare della prescrizione per la riscossione di imposte, aveva ordinato agli impiegati di procedere alla notifica dei verbali di accertamento direttamente ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza esperire il preventivo accesso presso la residenza dei destinatari. Il lavoratore aveva passivamente eseguito gli ordini e per tali fatti era stato sottoposto a procedimento penale, conclusosi, dopo una serie di pronunce di primo e secondo grado, con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Impugnato il licenziamento, il Tribunale in primo grado aveva respinto il ricorso. Proposto appello, la Corte d’appello aveva dichiarato illegittimo il licenziamento. Proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate e ricorso incidentale il lavoratore. L’ordine illegittimo è sindacabile La Corte d’Appello, riformando la sentenza del giudice di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato al lavoratore, quale conseguenza dei comportamenti, penalmente rilevanti, messi in atto a seguito dell’ordine illegittimo sulle modalità di notifica dei verbali di accertamento. Osservava la Corte di merito che non poteva ravvisarsi dolo nel comportamento del lavoratore, in quanto questi, pur potendo sindacare nel merito l’ordine illegittimo ricevuto, di fatto aveva adottato un atteggiamento passivo, difficilmente superabile e comunque il dipendente aveva agito nella convinzione di perseguire l’interesse dell’ente. ed eseguirlo ugualmente può dar luogo a sanzione disciplinare. La Corte di legittimità censura l’interpretazione data dai giudici d’appello, affermando che il dipendente ben può e deve rifiutarsi di eseguire un ordine palesemente illegittimo, tanto più se, come nel caso di specie, potrebbe costituire ipotesi di reato. Non solo l’art. 23 del CCNL del comparto ministeri, applicato al rapporto per cui è causa, espressamente prevede una precisa procedura da applicarsi in caso di ordini palesemente illegittimi, con dovere del pubblico dipendente dapprima di sindacare l’ordine verso il proprio superiore e poi, soltanto ove quest’ultimo lo rinnovi in forma scritta, darne esecuzione. Diversamente il pubblico dipendente sarà passibile di sanzione disciplinare, fino ad ipotizzare, a seconda della gravità dei fatti contestati, il licenziamento. La contraddittorietà della sentenza d’appello. I giudici della Suprema Corte rilevano una palese illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza df’appello impugnata. La Corte territoriale infatti da un lato ha ritenuto sindacabile, in quanto palesemente illegittimo, l’ordine impartito al lavoratore richiamando altresì il citato art. 23 del CCNL. Dall’altro ha ritenuto quest’ultimo esente da responsabilità, tenuto conto delle circostanze in cui ha agito, della totale inerzia dell’amministrazione nel tempo nonostante il ripetersi dei comportamenti scorretti, della convinzione pur errata di agire nell’interesse del proprio ente. Argomentando inoltre, sulla sproporzione tra fatti illeciti commessi e sanzione massima irrogata. Ma, osserva la Suprema Corte, la motivazione resa dai giudici di merito appare viziata sia per illogicità nella motivazione resa, là dove si esclude il dolo, pur evidenziando la possibilità di critica dell’ordine impartito, sia per omesso esame dei fatti di causa, tenuto conto della normativa contrattuale, pur richiamata in sentenza. La Corte d’appello infatti avrebbe dovuto valutare, alla luce del comportamento tenuto da entrambe le parti, la proporzionalità della sanzione irrogata al lavoratore. Al contrario nulla è stato analizzato ed argomentato sul punto. A tal proposito, i giudici di legittimità, nel cassare con rinvio la sentenza impugnata, concludono con un invito” al giudice del rinvio di esaminare le risultanze istruttorie della causa, in particolare per ciò che riguarda l’inerzia colpevole dell’amministrazione di fronte ai comportamenti scorretti messi in atto dal lavoratore. Eventualmente ridimensionando in termini di proporzionalità la sanzione espulsiva inflitta e motivando la decisione con argomenti più esaurienti rispetto a quelli esposti nella sentenza cassata.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 marzo - 29 ottobre 2013, n. 24334 Presidente Vidiri – Relatore D’Antonio Svolgimento del processo Con sentenza depositata il 3/8/2010 la Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato illegittimo il licenziamento senza preavviso comminato in data 8/2/2005 dall'Agenzia delle Entrate - Direzione Generale del Lazio al dipendente S.A. ritenendo che detto licenziamento non fosse proporzionato per gravità ai fatti addebitati e contestati al lavoratore. La Corte territoriale ha esposto che nel periodo dal 1986 al 1991, essendo prossimi i termini di prescrizione per la riscossione dell'imposta di bollo, il direttore dell'Ufficio radio, bollo e assicurazioni dell'Agenzia aveva ordinato agli impiegati di procedere alla notifica dei verbali di accertamento ai sensi dell'articolo 140 c.p.c. senza il preventivo accesso presso la residenza dei notificando che lo S. si era attenuto a dette istruzioni ed aveva percepito un compenso di lire 750 per ciascuna notifica che era stato rinviato a giudizio per tali fatti dal GIP del Tribunale di Roma nel 1995 e che l'Agenzia delle Entrate aveva avviato il procedimento disciplinare e poi lo aveva sospeso dal servizio. La Corte d'appello ha riferito, altresì, che con sentenza del 20 dicembre 1999 lo S. era stato condannato per detti fatti i reati di falso, abuso d'ufficio,peculato e truffa , sentenza poi annullata in data 8 maggio 2002 dalla Corte d'Appello di Roma in seguito alla quale era stato riammesso in servizio e che il Tribunale di Roma, cui il giudizio era stato rinviato a seguito della dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado, aveva dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione e che subito dopo l'Agenzia delle Entrate lo aveva licenziato senza preavviso. La Corte territoriale ha escluso la sussistenza del dolo nella condotta del lavoratore ed ha affermato che poteva soltanto ritenersi provato che lo S. avesse materialmente posto in essere le condotte indicate nei capi di imputazione della sentenza del Tribunale penale. Ha rilevato, altresì, che non era condivisibile la tesi del primo giudice secondo cui la convinzione del ricorrente di aver operato nell'interesse dell'amministrazione, evitando che spirassero i termini di prescrizione dei credito contributivi, non potesse ritenersi idonea ad escludere l'illiceità del suo operato. Secondo la Corte, inoltre, con riferimento alla normativa collettiva, andava esclusa la rilevanza del richiamo, nella lettera di licenziamento, all'articolo 25, comma 5, lett. D del CCNL dei Ministeri del 1995 e ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione inflitta rispetto al fatto contestato occorreva tenere conto che lo S. aveva obbedito ad un ordine che,quindi, mancava qualsiasi autonomia dell'azione e che il comportamento era certamente da censurare ma non fino al punto da farne conseguire il licenziamento poiché in definitiva tutto si risolveva in una atteggiamento passivo rispetto agli ordini, passività però oggettivamente difficilmente superabile. La Corte ha sottolineato, altresì, che il rapporto era proseguito, dopo la conoscenza dei fatti contestati al dipendente, senza problemi per circa sei anni,dal 1995 fino al 1998 e, dopo una sospensione, da luglio 2002 fino al 2005 che tali fatti erano incompatibili con l'impossibilità di prosecuzione del rapporto e che il dirigente, il quale aveva ordinato di procedere alle notifiche direttamente, non solo non era stato sanzionato ma promosso. Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione l'Agenzia delle Entrate formulando due motivi. Si costituisce lo S. depositando controricorso con ricorso incidentale basato su un motivo. Motivi della decisione Ai sensi dell'art. 335 cpc il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti perché proposti avverso la stessa sentenza. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge e del CCNL per avere la Corte territoriale negato la sussistenza di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione irrogata. Con il secondo motivo denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la Corte d'Appello da un lato affermato che il dipendente era tenuto a sindacare la legittimità dell'ordine illegittimo e quindi a non eseguirlo e, dall'altro, sostenuto che la convinzione del ricorrente, peraltro non superabile, di aver agito nell'interesse dell'Agenzia avrebbe inciso sull'illiceità del suo operato e sulla proporzionalità della sanzione comminatagli. Con il ricorso incidentale il lavoratore denuncia violazione di legge per avere la Corte territoriale illegittimamente ridotto la misura del risarcimento del danno dovuto liquidando le retribuzioni non percepite dal licenziamento e fino alla scadenza del terzo anno successivo 8/2/2008 . Il ricorso principale deve essere accolto restando assorbito quello incidentale. Con il primo motivo la ricorrente denuncia più specificamente violazione e falsa applicazione dell'articolo 25, comma 5, lettera d e comma 7 del C.C.N.L. comparto ministeri del 1995 riproposto nella successiva contrattazione del C.C.N.L. delle agenzie fiscali del 2002 , dell'articolo 23, comma 3, lettera h delle C.C.N.L. comparto ministeri del 1995,nonché dell'articolo 51 codice penale. art. 360 n. 3 cpc . - Rileva che il licenziamento è stato comminato in base all'art. 25, comma 5, lettera d del CCNL comparto Ministeri secondo il quale il licenziamento senza preavviso è previsto per la commissione in genere-anche nei confronti di terzi - di atti o fatti, anche dolosi, che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro . Osserva che detta disposizione conteneva una tipizzazione delle conseguenze di un determinato fatto illecito consentendo al giudice soltanto di verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla norma senza disattenderla e richiamarsi ai criteri generali contenuti nel primo comma. Lamenta che, invece, il giudice d'appello aveva dato rilievo assorbente ed applicato i criteri generali stabiliti all'articolo 25,comma 1 rilevanza della violazione di norme e disposizioni, grado di disservizio o di pericolo provocato dalla negligenza, l'esistenza di circostanze attenuanti, responsabilità derivanti dalla posizione di lavoro occupata dal dipendente, comportamento complessivo del lavoratore con particolare riguardo a precedenti disciplinari nell'ambito del biennio , criteri applicabili solo in assenza di una tipizzazione da parte del CCNL della sanzione da irrogare a fronte di un determinato fatto illecito. Rileva,infatti, che il successivo 9^ comma dell'articolo 25 citato stabiliva che le mancanze non espressamente previste nella presente elencazione sono sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1^, facendosi riferimento, quanto all'individuazione dei fatti sanzionabili, ai doveri dei lavoratori di cui all'articolo 23 e, quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti e ciò a riprova della residualità del ricorso ai criteri generali, in assenza di una tipizzazione da parte della contrattazione. - Osserva, ancora, che la Corte aveva dunque violato le norme della contrattazione collettiva anche in considerazione del fatto che l'articolo 23, comma terzo, lettera h menzionava tra gli obblighi del dipendente quello di eseguire gli ordini inerenti all'espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano impartiti dai superiori. Se ritiene che l'ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l'ha impartito dichiarandone le ragioni se l'ordine è rinnovato per iscritto ha il dovere di darne esecuzione. Il dipendente non deve, comunque, eseguire l'ordine quando l'atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo . norma conforme al contenuto dell'art. 51 cp . Con il secondo motivo la ricorrente sottolinea in particolare la contraddittorietà della sentenza per aver la Corte territoriale sostenuto che il dipendente era tenuto a sindacare la legittimità dell'ordine illegittimo e quindi a non eseguirlo, ma poi era giunta a disapplicare la norma accogliendo la tesi del lavoratore sul presupposto che la convinzione del ricorrente, peraltro non provabile, di aver agito nell'interesse dell'agenzia avrebbe inciso sull'illiceità del suo operato e sulla proporzionalità della sanzione comminata. Osserva, inoltre, che in sentenza non erano ravvisabili elementi idonei a giustificare l'affermazione della Corte circa l'insuperabilità della passività del lavoratore di fronte agli ordini del superiore. Lamenta l'esistenza di una motivazione del tutto insufficiente circa l'esistenza del dolo insito nella condotta del dipendente dolo affermato in sede penale in cui lo S. era stato assolto solo per prescrizione mancando alcun elemento probatorio utile al fine di accertare l'assoluzione nel merito e l'insussistenza di circostanze che possano mitigare la sanzione inflitta. Rileva che risulta provata l'intenzionalità della condotta, la consapevolezza e volontà che il comportamento posto in essere avrebbe determinato l'erogazione dei compensi non dovuti,ossia un ingiusto vantaggio patrimoniale in relazione ad una quantità innumerevole di atti 43.000 . Le censure sono fondate. Premesso che costituiscono fatti pacifici che lo S. ha ammesso di aver provveduto alla notifica dei verbali di accertamento ai sensi dell'art. 140 cpc senza effettuare il previo accesso domiciliare, che ciò è avvenuto in relazione ad un considerevole numero di atti 43.000 ed in ossequio all'ordine del direttore dell'ufficio e che il ricorrente era consapevole delle disposizione di cui all'art. 139 e 140 cpc e della necessità di un infruttuoso accesso al domicilio del notificando cfr sentenza del Tribunale riportata nel ricorso ai fini dell'autosufficienza , la motivazione della sentenza impugnata appare, da un lato, contraddittoria, in ordine all'affermata esclusione del dolo nel comportamento del lavoratore, perché dopo aver rimarcato che il ricorrente non era tenuto ad osservare l'ordine impartitogli comportante anche la commissione di reati perché illegittimo potendo, quindi, sindacarne il merito, e dopo aver ancora evidenziato che era di certo errata la convinzione dello S. di operare nell'interesse dell'amministrazione per evitare che spirassero i termini di prescrizione dei crediti derivanti dai verbali di accertamento di mancato pagamento del bollo, ha poi la decisione in modo contraddittorio ridimensionato la gravità del fatto addebitato affermando che nel caso di specie dovesse tenersi conto dell'esclusione di qualsiasi personalità e autonomia indipendente dell'azione ,dovendosi negare una tendenza dell'agente ad infrangere le regole e dovendosi censurare il comportamento in esame con sanzione meno grave. La motivazione appare, inoltre, insufficiente anche perché la Corte d'Appello, una volta riconosciuto che il dipendente dell'Agenzia poteva rifiutare di ottemperare ad un ordine illegittimo avrebbe dovuto parametrare la gravità della condotta dello S. sulla normativa in materia di sanzioni disciplinari dettata dalla contrattazione collettiva del settore, previa verifica se detta osservanza di disposizioni contra legem venisse da detta contrattazione espressamente prevista e sanzionata e in caso contrario se altre clausole contrattuali regolanti fattispecie di comportamenti da giustificare il licenziamento potessero estendersi - in ragione di una gravità in qualche modo assimilabile a quella in oggetto. La Corte territoriale, invece, pur richiamando l'art. 25, comma 5^ lett. d , che prevede il licenziamento senza preavviso per la commissione in genere-anche nei confronti di terzi - di atti o fatti, anche dolosi, che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro e pur considerato l'art. 23 del CCNL e la possibilità di rifiutare l'ordine illegittimo ivi previsto, ha omesso di valutare i fatti addebitati al lavoratore alla luce della normativa contrattuale. È, altresì, insufficiente la motivazione nella parte in cui la Corte ritiene di fare ricorso ai parametri fissati dalla contrattazione collettiva all'art. 25, comma 1 lett. a per la gradualità e proporzionalità delle sanzioni che si limita richiamare senza però neppure valutare in concreto la loro ricorrenza. Sotto altro versante non può infine sottacersi che andava meglio specificato ai fini di una congrua e coerente motivazione l'assunto della Corte territoriale secondo la quale il comportamento in questione dello S. era certamente da censurare ma non al punto da farne conseguire il licenziamento, perché in definitiva tutto si risolveva in una passività rispetto agli ordini passività però oggettivamente difficilmente superabile . Ed infatti una siffatta affermazione avrebbe dovuto comportare una più attenta e completa valutazione, alla stregua delle risultanze istruttorie, di quello che in concreto era stato il comportamento dei dirigenti e dei superiori dello S. e della stessa Agenzia delle Entrate, poi concretizzatosi attraverso gli ordini, rispetto ai quali il giudice ha configurato, è bene ripeterlo, una passività difficilmente superabile . Va al riguardo, comunque, precisato che in caso emergesse dalle risultanze istruttorie, ritualmente acquisite al processo, una condotta colpevolmente inerte dell'Agenzia a fronte di ripetute condotte qualificabili in termini di grave illegittimità dai suoi dirigenti, il giudice di rinvio in luogo di dichiarare illegittimo il licenziamento potrebbe invece, oltre a ribadire con argomentazioni di certo più esaurienti, quanto già deciso dalla sentenza impugnata in termini di proporzionalità della sanzione da infliggere allo S. , anche statuire in materia del risarcimento dei danni, oggetto del ricorso incidentale, in modo più favorevole per lo S. di quanto in precedenza è stato fatto nella impugnata sentenza. Per concludere, ai sensi dell'art. 360 n. 5 cpc, vanno accolti il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, mentre vanno dichiarate assorbite le censure tutte contenute negli indicati motivi del ricorso principale e, per quanto ora detto, anche il ricorso incidentale. La sentenza impugnata, dunque, va cassata in relazione ai motivi accolti e, non ricorrendo i presupposti di cui al disposto dell'art. 384, ultimo comma, cpc, per la decisione nel merito della controversia, va disposto il rinvio alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. P.Q.M. Riunisce i ricorsi, accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso principale cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti dichiara assorbite tutte le altre censure nonché il ricorso incidentale e rinvia, anche per le spese del presente giudizio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.