Senza il richiamo alla ragione giustificatrice, la clausola di apposizione del termine è nulla

Nell’evoluzione legislativa in materia di contratto di lavoro, quello a termine costituisce sempre eccezione rispetto alla regola costituita dal contratto a tempo indeterminato.

È quanto ricorda la sentenza della Corte di Cassazione n. 23702, depositata il 18 ottobre 2013. Il caso. Un lavoratore aveva chiesto che fosse dichiarata la nullità della clausola appositiva del termine, contenuta in una pluralità di contratti di lavoro subordinato conclusi con una s.p.a dal 2000 al 2004. Di conseguenza, aveva chiesto di essere reintegrato nel posto di lavoro. In sede di merito, la domanda era stata accolta. La Corte d’Appello aveva osservato trattarsi non di azienda comunale - disciplinata da norme pubblicistiche in materia di contratto di lavoro subordinato sottoposto a termine -, bensì di società per azioni a capitale pubblico locale, ossia di un soggetto operante in regime di diritto privato. La nullità della clausola appositiva del termine, per i giudici territoriali, derivava dalla mancata indicazione di uno qualsiasi dei motivi giustificativi rimessi dalla L. n. 56/1987 alla contrattazione collettiva, pertanto, ne conseguiva l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato fin dall’inizio dell’efficacia del primo contratto. Contro questa sentenza, la società soccombente ha presentato ricorso per cassazione. Con il primo motivo la ricorrente ha evidenziato di aver assunto la forma di società per azioni dopo essere stata Azienda farmaceutica comunale e di gestire perciò un servizio pubblico le fonti di regolamentazione dei rapporti non sarebbero, a suo dire, perciò mutate. Il rapporto intercorre tra due soggetti privati. Per la Suprema Corte il motivo non è fondato, poiché quanto assunto dalla società è contrario ai principi dell’ordinamento dell’Unione europea e non trova conferma nella legislazione nazionale in base a queste che il rapporto qui in esame possa rientrare fra quelli retti da norme di diritto pubblico non è dato riscontrare . Gli Ermellini hanno affermato che l’organizzazione di un servizio pubblico secondo un modello privatistico non solleva l’ente organizzatore dai vincoli di finanza pubblica ma non lo sottrae neppure, salva espressa eccezione, alla normativa civilistica propria del modello, come avviene appunto per le società per azioni. Con un secondo motivo, la ricorrente ha negato che, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 368/2001, l’indicazione delle ragioni dell’assunzione a termine nel contratto individuale di lavoro fosse un requisito di validità. Ricostruzione diacronica del sistema legislativo. Il Collegio ha ritenuto la doglianza non fondata, chiarendo che il Legislatore, con la L. n. 56/1987 ha rinunciato alla previsione di fattispecie tassative e ha per contro affidato alla contrattazione collettiva, nazionale, oppure locale, la possibilità di autorizzare il contratto a termine. Inoltre, ha aggiunto che con il d. lgs n. 368/2001 il Legislatore ha superato le forme di assunzioni a termine contrattualizzate ed è tornato a chiedere alle parti del contratto individuale la specificazione in forma scritta delle ragioni giustificatrici del contratto a termine. Questa ricostruzione non significa che, nel periodo compreso tra la legge del 1987 e il decreto legislativo del 2001, le parti che concludevano il contratto individuale di lavoro potessero apporre un termine senza indicarne la ragione giustificativa. Secondo Piazza Cavour, significa che esse non erano più libere di individuarla nell’ambito di un’elencazione legislativa ma potevano limitarsi ad applicare la previsione del contratto collettivo, soltanto richiamandola . Quindi, l’espresso richiamo era, però, necessario, al fine di permettere in ogni caso il controllo giudiziario sull’operato delle parti, mentre il loro silenzio in proposito avrebbe permesso il mero arbitrio delle medesime, e in particolare del datore di lavoro che del termine si giovava sul piano economico. Come evidenziato dal S.C., nel caso di specie, la Corte territoriale aveva osservato che l’art. 9 c.c.n.l. individuava una serie di casi in cui era ammessa l’apposizione del termine al rapporto di lavoro e, tra essi, l’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, a cui non era possibile sopperire con il normale organico. Il Collegio ha aggiunto che, nel caso di specie, nei contratti individuali del 2000 e del 2001 non era contenuto alcun riferimento a questa previsione – da cui la nullità della clausola in questione -, quindi, avallando la decisione di secondo grado, ha rigettato il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 giugno - 18 ottobre 2013, n. 23702 Presidente Roselli – Relatore Berrino Svolgimento del processo Con ricorso dal 13 luglio 2006 al Tribunale di Grosseto M.F. chiedeva dichiararsi la nullità della clausola appositiva del termine, contenuta in una pluralità di contratti di lavoro subordinato conclusi con la s.p.a. Farmacie comunali riunite dal 1° giugno 2000 al 1° giugno 2004, talvolta attraverso un’agenzia di lavoro cosiddetto interinale. Di conseguenza il F. chiedeva condannarsi la convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro, invocando la legge 18 aprile 1962 n. 230 e l’art. 1344 cod. civ. Costituitasi la convenuta, il Tribunale accoglieva la domanda con decisione del 20 marzo 2007, confermata con sentenza del 3 novembre 2009 dalla Corte d’appello di Firenze, la quale osservava trattarsi nella fattispecie non già di azienda comunale, disciplinata da norme pubblicistiche in materia di contratto pubblico subordinato sottoposto a termine, bensì di società per azioni a capitale pubblico locale art. 17, comma 58, L. 15 maggio 1997 n. 127 ossia di un soggetto operante in regime di diritto privato. Né tale regime poteva considerarsi inapplicabile per il fatto che l’art. 48 c.c.n.l. di settore escludeva il licenziamento del personale per giustificato motivo oggettivo che le oggettive esigenze dell’azienda non bastassero a giustificare i licenziamenti non impediva alla società di assumere lavoratori a tempo determinato ma sempre nell’osservanza della normativa privatistica. La nullità della clausola appositiva del termine derivava dalla mancata indicazione di uno qualsiasi dei motivi giustificativi rimessi dalla legge 28 febbraio 1987 n. 56 alla contrattazione collettiva a all’art. 9 c.c.n.l. cit. Ne conseguiva l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato fin dall’inizio dell’efficacia del primo contratto. Contro questa sentenza la s.p.a. Farmacie comunali riunite ricorre per cassazione. Resiste con controricorso il F. La ricorrente ha depositato memoria. Motivi della decisione Col primo morivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 12 preleggi, 1-11 l. n. 230 del 1962 23 l. n. 56 del 1987, 1-12 d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368 5, commi 5 e 17, d.l. 10 novembre 1978 n. 702 conv. in l. 8 gennaio 1979 n. 3 22 e 23 l. 8 giugno 1990 n. 142 17, comma 58, l. 15 maggio 1997 n. 127 112 e 113 d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, nonché vizi di motivazione. Essa nota di aver assunto la forma di società per azioni dopo essere stata Azienda farmaceutica comunale ex art. 17, comma 51, l. n. 127 del 1997, e di gestire perciò un servizio pubblico. Le fonti di regolamentazione dei rapporti di lavoro non sarebbero perciò mutate ed in particolare l’art. 5, commi 5 e 17, d.l. n. 702 del 1978 cit. sottrarebbe le assunzioni temporanee alla disciplina privatistica delle leggi n. 230 del 1962 e 56 del 1987, e così alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Ciò per esigenze di proporzione del numero dei lavoratori alle necessità di gestione, considerando il divieto, posto dall’art. 9 c.c.n.l., di licenziare per giustificato motivo oggettivo. Il motivo non è fondato. Assunto dalla ricorrente è che la società per azioni a capitale pubblico è sottratta alle norme di diritto privato concernenti i contratti di lavoro a tempo determinato e, quindi, alla conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato, nel caso di nullità della clausola appositiva del termine. Ma tale assunto è contrario ai principi dell’ordinamento dell’Unione europea né trova conferma nella legislazione nazionale. Dalla direttiva europea 28 giugno 1990 n. 70 e dall’allegato accordo del 18 marzo 1999, soprattutto dal preambolo, risulta che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ed essere la forma generale di rapporto di lavoro anche se in talune circostanze, ossia eccezionalmente, quelli a termine possono meglio corrispondere ai bisogni dei datori e dei prestatori di lavoro. Fra le eccezioni l'ordinamento interno inserisce legittimamente i rapporti con enti pubblici oppure i rapporti privatistici, nella ricorrenza di specifici motivi che debbono essere previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Che il rapporto qui in esame possa rientrare fra quelli retti da norme di diritto pubblico non è dato di riscontrare. Esso intercorre tra due soggetti privati. L’art. 5, commi 15 e 17, d.l. n. 702 del 1978, conv. in l. n. 3 del 1979, permette l’assunzione di personale straordinario per periodi non superiori a novanta giorni ma si riferisce soltanto ad enti pubblici locali e fra essi alle aziende. L’art. 23 l. n. 142 del 1990 parla altresì di aziende pubbliche, e non è riferibile a soggetti di diritto privato, quali le società di capitali, sia pure a partecipazione pubblica, come quelle che sono subentrate, in tutti i diritti od obblighi, alle aziende degli enti locali di cui all’art. 1, comma 51, l. n. 127 del 1997. L’organizzazione di un servizio pubblico secondo un modello privatistico non solleva l’ente organizzatore dai vincoli di finanza pubblica ma non lo sottrae neppure, salva espressa eccezione, alla normativa civilistica propria del modello, come avviene appunto per le società per azioni. Fatte salve le espresse cautele di legge, vincoli di finanza pubblica e garanzie giuslavoristiche non sono in contraddizione. Per quanto concerne i rapporti di lavoro, è certo che l’impegno di capitale pubblico sottomette le assunzioni ai principi costituzionali di imparzialità e di economicità, quali specificazioni del principio di buon andamento, di cui agli art 3 e 97 Cost., e dei quali è espressione nel pubblico impiego l’art. 35 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165. Le assunzioni al lavoro non sono rimesse al mero arbitrio degli amministratori. Ma tutto ciò non comporta necessariamente la separazione delle garanzie legislative contro l’assoggettamento illimitato dei prestatori di lavoro a situazioni precarie, contrarie alla tutela della libertà e dignità di cui all’art. 36, primo comma, Cost. e contrastate dalla sopra richiamata normativa europea. La detta distinzione, in materia di enti strumentali al perseguimento di finalità pubblicistiche, fra aziende pubbliche e società è presente nella giurisprudenza di questa Corte Cass. 24 giugno 2009 n. 14847, 26 maggio 2004 n. 10155 , mentre la giurisprudenza richiama dalla ricorrente Cass. 22 gennaio 2004 n. 1107, 2 maggio 2003 n. 6699, 16 settembre 2002 n. 13528 si riferisce alle aziende oltrechè ad enti locali territoriali, e non anche alle società per azioni. Anche la Corte costituzionale nega ultimamente che lo scopo perseguito dalle società commerciali affidatarie di servizi pubblici, scopo capace di configurare questi soggetti, sul piano economico-funzionale, come longae manus o varianti organizzative degli enti pubblici, possa portare ad una identificazione dei regimi di assunzione e di trattamento dei lavoratori dipendenti Corte cost. 23 luglio 2013 n. 227 . Non è vero infine che, come sostiene la ricorrente, le società a partecipazione pubblica non potrebbero dimensionare gli organici in funzione del personale effettivamente necessario per la gestione . La finalità è perseguibile eventualmente attraverso la conclusione di contratti a tempo determinato, ma nel rispetto delle garanzie normative poste per le altre società. Col secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 11 preleggi, 1 l. n. 230 del 1962, 23 l. n. 56 del 1987, 1 d.lgs. n. 368 del 2001, e vizi di motivazione, negando che, prima dell’entrata in vigore dal d.lgs. cit., l’indicazione delle ragioni dell’assunzione a termine nel contratto individuale di lavoro fosse un requisito di validità. Il motivo non è fondato. Con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588 le Sezioni unite di questa Corte hanno illustrato l’evoluzione legislativa in materia di contratto di lavoro a termine, il quale costituisce sempre eccezione rispetto alla regola costituita dal contratto a tempo indeterminato. Le Sezioni unite hanno così chiarito che, mentre con legge n. 230 del 1962 il legislatore introdusse il sistema della lista chiusa dei motivi che permettevano la stipulazione dei contratti temporanei, con la legge n. 56 del 1987 agli ha rinunciato alla previsione di fattispecie tassative ed ha per contro affidato alla contrattazione collettiva, nazionale oppure locale, la possibilità di autorizzare il contratto a termine per causali di carattere oggettivo ed anche - alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale - per ragioni di tipo meramente soggettivo, consentendo in funzione di promozione dell’occupazione o anche di tutela delle fasce deboli di lavoratori l’assunzione di speciali categorie di lavoratori. Le Sezioni unite hanno aggiunto che con il d.lgs. n. 368 del 2001 il legislatore ha superato le forme di assunzioni a termine contrattualizzate sclicet nella sede collettiva ed è tornato a chiedere art. 1 alle parti del contratto individuale le specificazioni in forma scritta delle ragioni giustificatrici del contratto a termine. Questa ricostruzione diacronica del sistema legislativo non significa che nel periodo compreso tra la legge del 1987 ed il decreto legislativo del 2001 le parti che concludevano il contratto individuale di lavoro potessero apporre un termine senza indicarne la ragione giustificativa. Significa, ben diversamente, che esse non erano più libere di individuarla nell’ambito di un’elencazione legislativa ma potevano limitarsi ad applicare la previsione del contratto collettivo, soltanto richiamandola. L’espresso richiamo era però necessario onde permettere in ogni caso il controllo giudiziario sull’operato delle parti, mentre il loro silenzio in proposito avrebbe permesso il mero arbitrio delle medesime, ed in particolare del datore di lavoro che del termine si giovava sul piano economico. Né questo effetto negativo avrebbe potuto evitarsi permettendo allo stesso datore di lavoro di fornire un’eventuale e successiva giustificazione del termine, in sede giudiziaria, ciò che avrebbe reso eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti del lavoratore, in contrasto con l’art. 24 Cost. In dottrina si è voluta ravvisare un’ipotesi di contratto a tempo determinato acausale soltanto nella previsione dell’art. 1, comma 8, l. 28 giugno 2012 n. 92, che, introducendo l’art. 1-bis nel d.lgs. n. 368 del 2001, ha permesso in un caso eccezionale la non indicazione della ragione giustificativa del termine. Ma quell’ipotesi eccezionale dev’essere comunque verificabile. Nel caso specie la Corte territoriale osserva che l’art. 9 c.c.n.l. individuava una serie di casi in cui era ammessa l’apposizione del termine al rapporto di lavoro e, tra essi, l’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, a cui era possibile sopperire con il normale organico. Essa aggiunge, con riferimento al caso di specie, che nei contratti individuali del 2000 e del 2001 non era contenuto alcun riferimento a questa previsione, d’onde la nullità della clausola in questione. Col terzo motivo la ricorrente prospetta la violazione degli art 112, 115, 116 cod. proc. Civ. 1362 cpv, 1344, 2967 cod. civ., 1-12 l. n. 230 del 1962, 23 l. n. 56 del 1987, 1-12 d.lgs. n. 368 del 2001, 1-11 l. n. 196 del 1997, 20-28, 86 d.lgs n. 276 del 2003 e vizi di motivazione, svolgendo osservazioni circa la validità e l’efficacia dei contratti di lavoro successivi al primo, del 1° giugno 2000. Negata la validità della clausola appositiva del termine, contenuta in questo contratto, ed affermata la durata indeterminata del rapporto, il motivo rimane assorbito. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.