Se la procedura è corretta, nessuna censura da parte del giudice

In materia di licenziamenti collettivi, la legge 23 luglio 1991 n. 223 ha introdotto un elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto normativo, ad un controllo sull'iniziativa imprenditoriale devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali.

Conseguentemente i residui spazi di controllo devoluti al giudice non riguardano più i motivi della riduzione del personale a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ma la correttezza procedurale dell'operazione onde non possono trovare ingresso in sede giudiziale le censure riguardanti l'eventuale difetto di esigenze effettive di riduzione del personale o trasformazione dell'attività produttiva. Lo afferma la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 22873, pubblicata l’8 ottobre 2013. Impugnazione di licenziamento collettivo, per violazione del procedimento ex L. 223/1991. Un noto istituto bancario procedeva a licenziamenti collettivi per riduzione di personale, ai sensi della Legge 23 luglio 1991, n. 223. Impugnava il licenziamento uno dei lavoratori coinvolti, adducendo la pretestuosità dei motivi addotti dall’azienda tenuto conto delle numerose assunzioni di nuovo personale da parte della banca, posteriormente alla procedura di riduzione del personale. La Corte d’appello adita dichiarava l’illegittimità del licenziamento, ritenendo fondati i motivi di censura proposti. Proponeva ricorso per cassazione l’istituto bancario. La procedura prevista dalla Legge n. 223/1991. Il ricorrente in cassazione censura la decisione adottata dalla corte di merito, in quanto quest’ultima non si è limitata al mero controllo della correttezza della procedura prevista dalla norma in esame, ma è andata oltre, sindacando la sussistenza del presupposto della eccedenza di personale. Occorre osservare come la legge n. 223/1991 preveda una puntuale, completa e cadenzata procedura da adottare prima per la messa in mobilità dei lavoratori in esubero e successivamente per attuare i licenziamenti per riduzione del personale. La procedura prevista dalla legge introduce dunque un controllo ex ante da parte delle organizzazioni sindacali, che vengono necessariamente coinvolte e ad essere destinatarie di poteri di informazione, di consultazione e anche di controllo della sussistenza e non pretestuosità delle esigenze di riduzione del personale. Il controllo del giudice limitato solo alla correttezza procedurale. La Corte di legittimità, ribadendo un proprio principio enunciato in precedenza, afferma che in ambito di licenziamenti collettivi ex Legge n. 223/1991, il controllo circa le concrete ed effettive esigenze manifestate dal datore di lavoro spetta alle organizzazioni sindacali, proprio con quel controllo ex ante sopra citato. A differenza di quanto avveniva precedentemente all’introduzione della legge 223 o tuttora, in ambito di licenziamenti individuali, in cui il controllo sulla sussistenza effettiva dei motivi viene esercitato ex post dal giudice in sede contenziosa. Secondo il principio enunciato, il controllo del giudice in sede contenziosa, con riferimento ai licenziamenti collettivi, si riduce ad uno spazio molto ristretto, limitato alla sola verifica della correttezza procedurale delle operazioni adottate per giungere al licenziamento. Senza poter entrare nel merito sugli specifici motivi di riduzione del personale. La Corte d’Appello ha quindi errato nel ritenere invalido il licenziamento collettivo sul presupposto della non veridicità dei motivi indicati dal datore di lavoro, attestata dalle nuove assunzioni di lavoratori in epoca posteriore alla riduzione di personale qui contestata. Corte di merito che effettivamente è andata oltre i propri poteri di controllo consentiti dalla normativa in esame, come sostenuto dall’azienda ricorrente nel proprio motivo di censura. La Suprema Corte ha così cassato la sentenza, rinviando ad altra Corte d’Appello per la decisione nel merito.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 giugno - 8 ottobre 2013, numero 22873 Presidente/Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello di Roma, con la sentenza di cui si chiede la cassazione, ritiene l'illegittimità del licenziamento per riduzione del personale, di cui alla Legge numero 223 del 1991, comunicato al lavoratore in epigrafe dalla società Intesa San Paolo. A fondamento del decisum la Corte del merito pone un duplice ordine di ragioni rappresentate, per un verso dalla non autenticità del licenziamento collettivo come comprovato dall'elevato numero delle successive assunzioni di nuovo personale attestante la mancanza di nesso causale tra i recessi e la dedotta riorganizzazione aziendale, e dall'altro dalla violazione dell'art. 4, comma 9, della citata legge numero 223 del 1991 in quanto la comunicazione, ivi prescritta, contiene solo l'elenco dei lavoratori licenziati ed il criterio della pensionabilità fa riferimento a tutto l'organico aziendale senza alcuna distinzione dei profili di professionalità. La società intesa San Paolo chiede l'annullamento della sentenza sulla base di cinque motivi, precisati da memoria. Resiste con controricorso la parte intimata che deposita memoria illustrativa. Motivi della decisione Con la prima censura la società deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della Legge numero 223 del 1991, 12 delle Disposizioni sulla Legge in generale nonché insufficiente motivazione su punti decisivi. Sostiene, richiamando giurisprudenza di legittimità, che la Corte di appello erroneamente non si è limitata al controllo della correttezza della procedura, ma è andata oltre sindacando la sussistenza del presupposto della eccedenza del personale. Aggiunge poi, quanto all'assunto vizio motivazionale, che la Corte del merito si è limitata a considerare solo ed esclusivamente il numero delle nuove assunzioni omettendo completamente di esaminare quel dato alla luce del ben più elevato e significativo numero degli esuberi. Rileva, preliminarmente, la Corte che la censura è ammissibile in quanto ancorché contenga la contemporanea deduzione di violazioni di leggi e di vizio di motivazione la stessa consente di cogliere in maniera immediata e certa quali argomentazioni sono riferibili alla violazione di leggi e quali al vizio di cui all'art. 360, 1, comma numero 5 cpc. Tanto precisato e passando all'esame del merito della censura ritiene il Collegio che la stessa è, alla stregua dell'orientamento più recente espresso in materia dalla Cassazione, fondata. Questo giudice di legittimità, infatti, ha affermato, con riferimento fattispecie del tutto sovrapponibili alla presente, la regula iuris , che la funzione di nomofilachia - devoluta a questa Corte - induce a ribadire anche nella presente sede, secondo la quale in materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale la Legge numero 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo, consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione. Da ciò deriva che i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi di riduzione del personale, ma unicamente la correttezza procedurale dell'operazione e che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazione delle prescrizioni dettate dagli artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisca per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva. Donde, a differenza di quanto accadeva prima dell'entrata in vigore della L. numero 223 del 1991, condotte datoriali - quali la richiesta di svolgimento di straordinario, l'assunzione di nuovi lavoratori, successive al licenziamento collettivo, non sono suscettibili di incidere sulla validità del licenziamento stesso una volta che la procedura si a sia svolta nel rispetto dei vari adempimenti previsti Cass. 27 gennaio 2011 numero 1949 e Cass. 21 novembre 2012 numero 20493, in particolare, poi, sull'estraneità al controllo giudiziale della verifica dell'effettività e ragionevolezza dei motivi che giustificano, nelle enunciazioni dell'imprenditore, il licenziamento collettivo V. Cass. 26 febbraio 2009 numero 4653 . Non è, quindi, corretta la sentenza impugnata nella quale la invalidità del licenziamento collettivo in esame è stata asserita sul rilievo della non autenticità della scelta riorganizzativa del datore dimostrata dalle assunzioni di nuovi lavoratori in epoca posteriore alla riduzione di personale. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso che attengono alla denuncia di vizi di motivazione concernenti la valutazione della circostanza relativa alle nuove assunzioni e la conseguente inesistenza di nesso causale rimangono assorbiti. Con la quarta critica la società ricorrente, sostiene violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 437 cpc nonché vizio di motivazione. Rileva che la sentenza impugnata si è pronunciata sulla questione della inidoneità della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della Legge numero 223 del 1991 senza che il ricorrente lavoratore avesse denunciato uno specifico vizio in sede di ricorso introduttivo del giudizio. Osserva il Collegio che la critica non è scrutinabile. Invero per correttamente investire questa Corte della censura in esame che si sostanzia nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, avrebbe dovuto denunciare, non la violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 numero 3 cpc o del vizio di motivazione ex art. 360 numero 5 cpc in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione al riguardo resa, ma l' error in procedendo - ovverosia la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360 numero 4 cpc - la quale censura soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l'esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell'atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell'assunta ultrapetizione, rende, pertanto, inammissibile il motivo Cass. 27 gennaio 2006 numero 1755 e Cass., S.U., 27 ottobre 2006 numero 23071 . Con la quinta censura la società ricorrente allega violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 9, e 5 della Legge numero 223 del 1991 nonché insufficiente motivazione circa punti decisivi. Prospetta che la Corte del merito nel ritenere inadeguata la comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della Legge numero 223 del 1991 non ha tenuto contro della ratio sottesa a detta previsione così come interpretata da questa Corte. Inoltre rileva che la motivazione è insufficiente per non aver tenuto conto di quanto specificamente risultava dagli atti di causa. Assume, in particolare, la società ricorrente che la norma non prescrive che l'azienda debba comunicare le ragioni delle singole scelte delle persone da licenziare. Allega che la Corte non ha considerato che il criterio di scelta era incentrato prioritariamente sul possesso dei requisiti per il diritto a pensione e che come tale, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, non può reputarsi di per sé discriminatorio e può essere, per il suo carattere oggettivo, controllato senza alcun margine di discrezionalità. Non è, pertanto, corretta la sentenza impugnata, secondo la società ricorrente, che pretende anche lo squadernamento dei dati personali di tutti i dipendenti della Banca . Né, aggiunge, la predetta società, occorre, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, la comparazione di ciascun lavoratore con quella di tutti gli latri lavoratori che hanno conservato il posto di lavoro. Nella specie, assume la società ricorrente, la comunicazione consentiva al lavoratore di percepire perché lui - e non altri - era stato destinatario del licenziamento. Ribadito quanto, preliminarmente, osservato - relativamente all'esame del primo motivo - circa l'ammissibilità della censura in esame permettendo la stessa la immediata e certa individuazione delle argomentazione poste a base delle violazioni di legge e del vizio di motivazione, osserva il Collegio - sempre in via pregiudiziale - che lo scrutinio della critica in parola è reso necessario per la evidente esigenza di valutare la resistenza o meno della alternativa ed autonoma ratio decidendi posta a base della sentenza impugnata secondo la quale il licenziamento deve, altresì, ritenersi invalido in quanto la comunicazione - di cui all'art. 4, comma 9, della citata legge numero 223 del 1991 - non era adeguata contenendo solo l'elenco dei lavoratori licenziati ed il criterio della pensionabilità faceva riferimento a tutto l'organico aziendale senza alcuna distinzione dei profili di professionalità. Tanto premesso rileva il Collegio che secondo diritto vivente di questa Corte di legittimità cfr. Cass. 9 agosto 2004 numero 15377 e Cass. 6 giugno 2011 numero 12196 , in tema di procedura di mobilità, la previsione di cui alla L. numero 223 del 1991, art. 4, comma 9, in ragione della quale il datore di lavoro, nella comunicazione ivi prevista deve dare una puntuale indicazione dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che la stessa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l'illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori - e non lui – avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o licenziati. Discende dal suddetto principio che, poiché la specificità dell'indicazione delle modalità di applicazione del criterio di scelta adottato è funzionale a garantire al lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo la piena consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su di lui, in modo da consentirgli una puntuale contestazione della misura espulsiva, il parametro per valutare la conformità della comunicazione al dettato di cui all'art. 4, comma 9, deve essere individuato nell'idoneità della comunicazione, con riferimento al caso concreto, di garantire al lavoratore la suddetta consapevolezza. In particolare, poi, si è ritenuto Cass. 6 giugno 2011 numero 12196 cit. non corretta la sentenza di merito che aveva dichiarato l'illegittimità della procedura sulla base del mero rilievo formale che la comunicazione conteneva l'elenco dei soli lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo e non di tutti i dipendenti fra i quali era stata operata la scelta, senza considerare che la comunicazione indicava specificamente il criterio di scelta, individuato in sede di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso. Parallelamente si è affermato, in una fattispecie sovrapponibile alla presente Cass. 21 novembre 2012 numero 20493 , che la comunicazione ex art. 4, comma 9, indicante specificamente il criterio di scelta, individuato peraltro in sede di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, ha natura oggettiva, rendendo superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso. Alla stregua dei precitati specifici precedenti di questa Corte, cui in questa sede va data continuità giuridica non essendovi valide ragioni per discostarsene, la sentenza impugnata, sul punto in questione, non è corretta in quanto discostandosi dei principi sopra sottolineati, pur a fronte dell'oggettivo criterio della prossimità al pensionamento, individuato in sede di accordo sindacale, ha ritenuto inidonea la comunicazione di cui trattasi sul mero rilievo che la stessa conteneva un semplice elenco dei lavoratori licenziati, senza valutare, quindi, la valenza oggettivamente esaustiva del criterio di scelta adottato pur richiamato - in uno alla data del possesso dei requisiti pensionistici - nella comunicazione che, in adempimento dell'onere di autosufficienza, è stata riportata nel ricorso. In accoglimento dei primi due motivi di ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, ritenuto assorbito il terzo motivo. In conclusione il primo ed il quinto motivo vanno accolti. Il quarto dichiarato inammissibile ed il secondo ed il terzo assorbiti. La sentenza impugnata va, in relazione ai motivi accolti, cassata e, non sussistendo i presupposti per decidere la causa nel merito ai sensi dell'art. 384 cpc, rinviata, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione. P.Q.M. La Corte accoglie il primo ed il quinto motivo di ricorso, dichiara assorbiti il secondo ed il terzo motivo e inammissibile il quarto cassa in relazione ai motivi accolti la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.