Il direttore generale subisce l’ingerenza del presidente? È dequalificazione

È esente da censure la pronuncia con cui il giudice di merito, avendo accertando le continue ingerenze del presidente, ritiene sussistente la dequalificazione del direttore generale. Quest’ultimo, tuttavia, non può rifiutarsi di svolgere i suoi compiti residui.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 22625, depositata il 3 ottobre 2013. Il direttore generale perde la rappresentanza legale. La decisione in commento trae origine dal giudizio promosso dal direttore generale per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla dequalificazione asseritamente subita e l’annullamento del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice. Nel corso del giudizio di merito è emerso che, sebbene le modifiche apportate allo statuto avessero sottratto al direttore generale la rappresentanza legale dell’azienda attribuendola al presidente, quest’ultimo – andando oltre la portata delle modifiche statutarie – si era attribuito il potere di firma su ogni atto esterno e, quindi, sugli atti di gestione, come quelli relativi ai rapporti con le banche, i fornitori, i consulenti e gli enti, interpretando il concetto di rappresentanza legale” in modo così ampio da inglobare qualsiasi potere relativo ai rapporti esterni. Il direttore generale privato delle sue prerogative non può rifiutarsi di svolgere la prestazione. Con riferimento, poi, alla legittimità del licenziamento, nel corso del giudizio di merito è emerso che la sottrazione delle mansioni non era stata totale, in quanto il direttore generale aveva mantenuto il potere di gestione dell’azienda, in modo completo nei rapporti interni e per i compiti riservatigli in base alla legge ad esempio, in materia di bilancio ed amministrazione . Ciò nonostante, il direttore generale, alla luce della dequalificazione subita, si era rifiutato di rendere la prestazione, inducendo l’azienda a comminargli il licenziamento per giusta causa. La Cassazione ribadisce i confini tra giudizio di merito e giudizio di legittimità. La pronuncia in commento conferma il consolidato orientamento secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione cfr. Cass. n. 27197/2011, n. 20455/2006, e n. 2357/2004 . Sulla base di queste premesse, la Suprema Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza della Corte d’appello che aveva ritenuto sussistente, nella fattispecie, la dequalificazione del direttore generale, atteso che le modifiche statutarie giustificavano solo la perdita della rappresentanza legale, ma non le ulteriori ingerenze del presidente, il quale aveva finito per scavalcare il direttore e per controllarne costantemente l’operato al momento della firma . Parimenti, la Cassazione ha ritenuto non contraddittoria e congruamente motivata la pronuncia impugnata anche nella parte in cui aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa, dal momento che l’ingerenza del presidente non impediva, comunque, al direttore generale di svolgere i suoi compiti residui. Il direttore generale dequalificato ha diritto al risarcimento del danno all’immagine. La pronuncia in commento, infine, ha ritenuto che la dequalificazione fosse idonea a determinare un danno all’immagine del direttore generale nei confronti di dipendenti e collaboratori. Ed infatti, la lesione dell’immagine deve ritenersi sussistente alla luce della posizione dirigenziale elevata ricoperta dal lavoratore, allorché l’offesa, superando la soglia minima di tollerabilità, non si risolve in meri disagi o fastidi. L’entità del relativo risarcimento deve essere determinata facendo ricorso all’equità pertanto, il fatto che il danno all’immagine sia stato determinato in una percentuale della retribuzione percepita nel periodo di dequalificazione costituisce applicazione dell’art. 1226 c.c.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 luglio - 3 ottobre 2013, n. 22625 Presidente Roselli – Relatore D’Antonio Svolgimento del processo Con sentenza n. 4673 del 2008 questa Corte ha cassato la sentenza della Corte d'Appello di Roma con la quale quest'ultima, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società Acqua e Terme di Fiuggi a A L.F. con lettera del 24 maggio 1995, con condanna della società al pagamento di una somma per l'anticipato recesso e di altra somma per l'accertata dequalificazione professionale. Il L.F. era stato assunto con la qualifica di direttore generale con contratto a tempo determinato scadente il 31 dicembre 96 nel mese di agosto 1994 il consiglio di amministrazione era stato rinnovato con la nomina di un nuovo presidente ed erano state introdotte modifiche allo statuto aziendale in base alle quali il direttore generale non aveva più la rappresentanza legale attribuita al presidente il L.f. aveva ritenuto che tale modifica e alcuni comportamenti aziendali avessero determinato la sua dequalificazione e si era pertanto rifiutato di rendere la prestazione con lettera del 24 maggio 95 l'azienda lo aveva licenziato per giusta causa contestandogli il rifiuto della prestazione e l'abbandono del servizio. Con la sentenza qui impugnata,emessa in sede di rinvio, la Corte territoriale ha rilevato, con riferimento alla denunciata dequalificazione, che dalle deduzioni del ricorso di primo grado non contestate e dall'esito della prova testimoniale, era emerso che la privazione di compiti in precedenza attribuiti al lavoratore si era estesa ben oltre l'attuazione della modifica statutaria. La Corte d'Appello ha affermato infatti che il nuovo statuto del 1994 si era limitato a sottrarre al direttore generale la rappresentanza legale dell'azienda attribuendola al presidente, mantenendo però in capo al direttore generale i poteri di gestione. Secondo la Corte il nuovo statuto, pertanto, non consentiva al presidente di intromettersi nella gestione della società così come, invece, era avvenuto, essendosi il Presidente attribuito il potere di firma su ogni atto esterno e quindi anche sugli atti di gestione, come quelli relativi ai rapporti con le banche, i fornitori, i consulenti, gli enti, interpretando il concetto di rappresentanza legale in modo così ampio da inglobare qualsiasi potere relativo ai rapporti esterni benché lo Statuto attribuisse al direttore competenze di rilevanza esterna sotto la sua esclusiva responsabilità. Ha osservato, altresì, che il presidente si inseriva anche materialmente nella gestione tenendo contatti diretti con i dipendenti, con i professionisti esterni, i consulenti, seppure non impedendoli al direttore, di cui però controllava ogni attività esterna al momento della firma sugli atti istruiti dal L.F. . La Corte ha,pertanto, concluso affermando la sussistenza di una dequalificazione solo parzialmente autorizzata dal nuovo statuto. Con riferimento poi alla legittimità del licenziamento, ha osservato che la sottrazione delle mansioni non era stata totale in quanto il Lo raro aveva mantenuto il potere di gestione dell'azienda, in modo completo nei rapporti interni e per i compiti a lui riservati in base alla legge come per il bilancio e l'amministrazione. Secondo la Corte pertanto non era giustificato il rifiuto opposto dal L.F. di svolgere le mansioni in assenza di un totale inadempimento del datore di lavoro, essendo rimaste in capo al lavoratore una parte delle mansioni proprie della qualifica. La Corte ha pertanto escluso l'illegittimità del recesso. Con riferimento alla misura del risarcimento per la dequalificazione ha richiamato le considerazioni svolte dalla sentenza d'appello cassata che aveva quantificato il danno in misura pari alla metà della retribuzione per il periodo dall'agosto 94 all'aprile 95. Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione la società Acqua e Terme di Fiuggi formulando tre motivi poi illustrati con memoria ex art. 378 cpc. Si costituisce il L.F. depositando controricorso con ricorso incidentale. Motivi della decisione Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti in quanto proposti avverso la medesima sentenza. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 111 della costituzione, 383, 115, 116, 132 quarto comma, c.p.c. e dell'articolo 2697 CC nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione art. 360 n 3 e 5 cpc . Lamenta l'erronea e parziale valutazione delle risultanze istruttorie che non tenevano conto delle modifiche introdotte nell'agosto 1994 allo statuto della società finendo per compiere lo stesso errore della sentenza cassata. Contesta che il L.F. avesse perso le attribuzioni indicate dal nuovo statuto in quanto egli esercitava tutti i compiti a lui conferiti. Rileva che il Presidente, cui competeva la rappresentanza dell'ente,firmava tutti gli atti esterni previa apposizione del visto del direttore generale il quale compiva tutta l'istruttoria prima della firma del Presidente. Censura l'affermazione della Corte secondo cui il presidente si ingeriva anche materialmente nella gestione tenendo contatti diretti con i dipendenti, con i professionisti e consulenti tanto più che nella sentenza si afferma seppure non impedendoli al direttore . Il motivo è infondato. La Corte territoriale ha correttamente valutato la denunciata dequalificazione lamentata dal L.F. alla luce del nuovo statuto del 1994 adottato dalla società, in base al principio espresso da questa Corte nella sentenza di rinvio. In particolare la Corte territoriale, dopo aver rilevato che il nuovo statuto si limitava a sottrarre al direttore generale la rappresentanza legale dell'Azienda attribuendola al Presidente ed avere ricordato le competenze del direttore generale - cui spettava, tra l'altro, la responsabilità gestionale e l'effettuazione sotto la sua esclusiva responsabilità delle spese in economia per materiali, forniture, lavori, prestazione d'opera o servizi, nonché spese generali, nel limite complessivo del 2% dell'importo globale dei costi e,senza limitazione di importo, le spese a carattere ricorrente o continuativo ., rapporti con i professionisti e consulenti esterni - ha ritenuto che le ingerenze nella gestione della società esercitate dal Presidente attribuendosi il potere di firma su ogni atto esterno non fosse conforme al dettato dello Statuto che attribuiva al direttore generale competenze di rilevanza esterna sotto la sua esclusiva responsabilità. La Corte territoriale ha valutato, altresì, che il Presidente teneva contatti diretti con il personale, con i professionisti esterni e i consulenti. La circostanza, evidenziata dalla ricorrente, che la stessa Corte territoriale aveva affermato che i rapporti con dette persone non era impedito al direttore non vale ad escludere la sussistenza della denunciata ingerenza del Presidente che di fatto scavalcava il direttore, ingerenza ancora più evidente se considerato il controllo effettuato dal Presidente al momento della firma. Le censure sollevate dalla ricorrente si traducono in un'inammissibile richiesta di nuova valutazione del materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio già effettuato dal giudice di merito senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Costituisce principio consolidato che Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione . Cass. n. 2357 del 07/02/2004 n 7846 del 4/4/2006 n. 20455 del 21/9/2006 n. 27197 del 16/12/2011 . La Corte territoriale ha, dunque, effettuato corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte nella sentenza di rinvio, valutando, ai fini dell'accertamento della denunciata dequalificazione, quei compiti sottratti al L.F. in assenza di una specifica giustificazione rinvenibile nel nuovo statuto. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2087, 2103, 2697, c.c., 383, 114, 115, 132, 437 c.p.c Censura la sentenza nella parte in cui ha determinato la misura del risarcimento da dequalificazione richiamando le considerazioni svolte nella sentenza cassata. Rileva, infatti,l'esistenza di un evidente vizio di motivazione non avendo spiegato le ragioni di conferma della pronuncia. Contesta, inoltre, la sussistenza del danno. La censura è infondata. La sentenza impugnata ha affermato l'esistenza di un danno all'immagine professionale del L.F. derivante dall'accettata dequalificazione ed ha condiviso la quantificazione del danno effettuata dalla prima sentenza della Corte d'Appello. Non sussiste vizio di motivazione in quanto la Corte, circa la sussistenza del danno, ha valutato gli effetti della dequalificazione sull'immagine del L.F. nei confronti dei dipendenti e collaboratori. Detta decisione non è censurabile considerato che la lesione all'immagine deve ritenersi sussistente valutata la posizione dirigenziale elevata del L.F. che l'offesa può ritenersi - anche in base ad una valutazione presuntiva avendo il lavoratore assolto all'onere di a negazione cfr Cass. SSUU n 6572/2006 - superare la soglia minima di tollerabilità non risolvendosi in meri disagi o fastidi cfr Cass. n. 5237/2011 e che il ricorso all'equità per la determinazione dell'entità del risarcimento pari ad una percentuale della retribuzione percepita nel periodo di dequalificazione, così come effettuato nella precedente sentenza, costituisce applicazione dell'art. 1226 cc. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 383 c.p.c Censura la decisione della Corte territoriale sulla liquidazione delle spese processuali che non aveva tenuto conto che l'odierna ricorrente aveva vinto in due gradi di giudizio mentre il resistente aveva vinto soltanto nel giudizio di rinvio ed,inoltre, doveva tenersi conto di una richiesta di oltre Euro 130.000 e dell'importo riconosciuto al L.F. assai inferiore. Le censure sono infondate. Deve rilevarsi, infatti, che la liquidazione delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo, in tal caso, di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini cfr Cass. n. 14542/2011 . Nella specie, pertanto, la Corte territoriale si è attenuto a detti principi ponendo a carico della parte soccombente le spese di lite. Con ricorso incidentale il L.F. eccepisce violazione falsa applicazione degli articoli 1460, 2103 e 2119 CC, 416 cc. Lamenta che la Corte territoriale ha affermato che il presidente si intrometteva nella gestione dell'azienda, tuttavia, in altro passo della motivazione aveva contraddittoriamente affermato che il L.F. aveva mantenuto il potere di gestione dell'azienda in modo completo nei rapporti interni, ad esempio, nella gestione del personale. Osserva, altresì, che nella sentenza di rinvio la Corte di Cassazione aveva espressamente riconosciuto che l'esposizione in fatto contenuta nel ricorso non era stata smentita dalla controparte e in detta esposizione vi era la puntuale affermazione della avvenuta perdita da parte del L.F. dei poteri di gestione dell'azienda anche nei rapporti interni. Afferma, pertanto, che l'atteggiamento del dipendente di rifiuto di qualsiasi prestazione era del tutto giustificato stante la totale sottrazione delle mansioni con conseguente illegittimità del recesso e diritto del lavoratore a percepire tutte le retribuzioni fino alla cessazione del rapporto. Il ricorso è infondato. Premesso che nella sentenza di rinvio di questa Corte sono espressamente indicati i fatti da ritenersi non e ontestati, tra i quali non sono elencati quegli ulteriori elementi esposti dal L.F. nel controricorso, quali i limiti posti ai poteri dello stesso o gli interventi del presidente nei confronti di tutto il personale, deve rilevarsi che l'accertamento della Corte territoriale circa la legittimità del recesso della società a fronte del rifiuto del L.F. di svolgere qualsiasi attività costituisce indagine di fatto, adeguatamente motivata, non censurabile in Cassazione. Non sussiste la denunciata contraddittorietà della sentenza impugnata per aver affermato che il L.F. aveva mantenuto la gestione dell'azienda in modo completo nei rapporti interni pur avendo riconosciuto la Corte territoriale l'ingerenza del Presidente nei rapporti con i dipendenti, con i professionisti esterni e i consulenti. La Corte territoriale ha precisato che l'intervento del Presidente nei contatti con i dipendenti, con i professionisti esterni e i consulenti, comunque, non impediva al direttore di svolgere i suoi compiti sebbene ogni attività di quest'ultimo fosse soggetta al controllo del presidente al momento della firma. La Corte ha ritenuto, pertanto, la dequalificazione per avere il Presidente scavalcato il direttore nei rapporti con il personale ma escluso che ciò si fosse concretato nel totale esautoramento del L.F. . La decisione della Corte territoriale non risulta, pertanto, censurabile. Per le ragioni che precedono i ricorsi riuniti vanno rigettati con compensazione delle spese processuali considerata la reciproca soccombenza. P.Q.M. Riunisce i ricorsi e li rigetta, spese compensate.