Patteggiamento uguale condanna? Solo per l’uomo medio. Licenziamento illegittimo

L’equazione non può rappresentare il punto di riferimento per la valutazione del provvedimento adottato dall’azienda nei confronti del dipendente, coinvolto in un procedimento nato per uno scontro con un vigile urbano. E' obbligo dei giudici non limitarsi a prendere atto della sentenza di patteggiamento, ma approfondire il materiale probatorio prima di valutare la giustezza del licenziamento.

Per l’uomo della strada all’espressione ‘sentenza di condanna’ si associa, quasi naturalmente, il concetto di ‘patteggiamento’. Ma la giustizia non può fermarsi a questa strana equiparazione Piuttosto è necessario approfondire, a maggior ragione quando in ballo c’è in ballo un posto di lavoro a rischio Cassazione, sentenza n. 3912/2013, Sezione Lavoro, depositata oggi . Guerra di strada. Casus belli è un procedimento penale nei confronti di un dipendente di Poste Italiane, originato da un episodio verificatosi mentre egli era alla guida di un furgone dell’azienda più precisamente, all’uomo viene contestata una violazione del Codice della Strada e, soprattutto, il successivo scontro con i vigili urbani che lo hanno sanzionato. Il percorso processuale è rapidissimo, e si conclude col patteggiamento, ma ad aprire un altro fronte sono le azioni dell’azienda, che opta per il licenziamento, proprio basandosi sul patteggiamento. Ma, ad avviso dei giudici, si tratta di una forzatura. Perché, come viene chiarito in Appello, la sentenza di patteggiamento non può, ai fini del procedimento disciplinare, essere assimilata ad una sentenza di condanna , e, comunque, in questa vicenda, sulla base delle prove acquisite non è stato ritenuto provato il comportamento aggressivo denunciato dai vigili urbani , anzi, paradossalmente, il dipendente di Poste Italiane era risultato semmai vittima di una provocazione da parte dei vigili urbani . Giustizia. Pronta l’opposizione dell’azienda, che contesta in toto l’ottica adottata dai giudici, evidenziando – col ricorso per cassazione – che, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale, ai fini del licenziamento disciplinare la sentenza di patteggiamento è pienamente equiparata ad una sentenza di condanna, anche quando il contratto collettivo le attribuisca una generica rilevanza in relazione alla sua incidenza sul vincolo fiduciario. Pertanto, i fatti addebitati al dipendente erano cristallizzati nella sentenza di patteggiamento e dovevano essere considerati provati ai fini della valutazione della giusta causa di recesso . Anche perché, viene aggiunto, la sentenza di patteggiamento contiene un riconoscimento, quantomeno implicito, del fatto addebitato e dunque può essere utilizzata quantomeno come argomento di prova nel giudizio di accertamento della responsabilità disciplinare del dipendente ai fini del recesso per giusta causa . Netta la replica dei giudici la sentenza di patteggiamento non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna . E nonostante una equiparazione patteggiamento-condanna sia sta compiuta rispetto alle disposizioni dei contratti collettivi, resta, di fondo, la necessità per i giudici della ulteriore indagine della idoneità dei fatti a ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia con il lavoratore . Ciò comporta che non si può prescindere da una nuova valutazione dei fatti oggetto del procedimento penale conclusosi con la sentenza di patteggiamento , non potendocisi limitare a considerare la mera sentenza di patteggiamento . Per questo motivo, è corretta l’azione compiuta dai giudici, sia di primo che di secondo grado, che hanno valutato con attenzione la vicenda, non fermandosi alla pronunzia di patteggiamento assolutamente da confermare, quindi, la declaratoria di illegittimità del licenziamento.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 ottobre 2012 – 18 febbraio 2013, n. 3912 Presidente De Renzis – Relatore Garri Svolgimento del processo La Corte d’appello di Messina, confermando la sentenza del Tribunale della stessa città, ha respinto l’appello proposto da Poste Italiane s.p.a. ed ha confermato la già accertata illegittimità del licenziamento intimato a N.P. in data 2.9.2002. La corte territoriale ha fondato il suo convincimento sulla base delle seguenti considerazioni 1. - la sentenza di patteggiamento non può, ai fini del procedimento disciplinare, essere assimilata ad una sentenza di condanna di tal che non ricorre in tal caso l’ipotesi di cui all’art. 54 ccnl di categoria. 2. - sulla base delle prove acquisite non ha ritenuto provato il comportamento aggressivo denunciato dai vigili urbani. Le circostanze di fatto emerse nel corso dell’istruttoria che ha verificato la dinamica dell’evento e delle sue conseguenze convergevano per la inverosimiglianza della condotta attribuita al N. che era risultato semmai vittima di una provocazione da parte dei vigili urbani. Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane s.p.a. con tre motivi che ha meglio illustrato depositando note ex art. 378 c.p.c Resiste con controricorso il N. che deposita anche memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo viene censurata la sentenza nella parte in cui ha rivenuto di negare rilevanza alla sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. sottolineando che, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente della Cassazione, ai fini del licenziamento disciplinare la sentenza di patteggiamento è pienamente equiparata ad una sentenza di condanna anche quando il contratto collettivo le attribuisca una generica rilevanza in relazione alla sua incidenza sul vincolo fiduciario. Pertanto, i fatti addebitati al dipendente erano immodificabilmente cristallizzati nella sentenza di patteggiamento e dovevano essere considerati provati ai fini della valutazione della giusta causa di recesso seconde la previsione dell’art. 54 del c.c.n.l. del 2001. Con il secondo motivo, ed in via subordinata, poi, viene denunciata la violazione dell’art. 444 c.p.p. e dell’art. 5 della l. n. 604/1966 e dell’art. 2697 c.c. sul rilievo che la sentenza di patteggiamento contiene un riconoscimento, quanto mene implicito del fatto addebitato e dunque può essere utilizzata quanto meno come argomento di prova nel giudizio di accertamento della responsabilità disciplinare del dipendente ai fini del recesso per giusta causa. Con il terzo motivo, infine, la società evidenzia l’omissione o quanto meno l’insufficienza della motivazione in relazione a circostanze decisive ai fini dell’accertamento della sussistenza di una giusta causa di recesso. La cotte territoriale avrebbe del tutto trascurato la pronuncia di condanna e fondato il suo giudizio su presunzioni ed elementi indiziari. Non avrebbe esaminato affatto il materiale probatorio acquisito al processo, e riportato nella lettera di contestazione disciplinare sulla base della quale era stato poi intimato il recesso, relativo alla avvenuta violazione del codice della strada da parte del N. alla guida del furgone postale alle modalità delta colluttazione tra il N. e l’A. agente di polizia municipale , come riferite in giudizio dallo stesso A. e dall’agente R., che confermavano la sussistenza di un comportamento integrante gli estremi del reato di resistenza a pubblico ufficiale continuata artt. 337 e 81 c.p.p. e di lesioni personali aggravate artt. 337 e 61 n. 2 c.p.p. senza che per tali fini possa essere attribuito rilievo al fatto che il N. avesse riportato per effetto della colluttazione lesioni più gravi di quelle certificate all’agente di polizia municipale. In definitiva secondo la società ricorrente ove la Corte avesse correttamente valutato il materiale probatorio in arti avrebbe accertato la sussistenza di fatti riconducibili all’ipotesi di recesso per giusta causa prevista dall’art. 54 c.c.n.l. 2001 ed in particolare ad atti di violenza commessi in servizio, oltre che ad ogni altro atto doloso commesso nei confronti di terzi. Peraltro, anche attribuendo rilievo al profilo soggettivo e ad aspetti meramente colposi della vicenda, il recesso era giustificato, sempre ai sensi dell’art. 54 ccnl, quanto meno con preavviso. Le censure, strettamente connesse, vanno esaminate congiuntamente e non sono fondate. Premesso che la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p. - che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato - non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, è pur vero che, nell’evoluzione della interpretazione della norma si è affermato tuttavia che, ove una disposizione del contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso, il giudice di merito può, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione sentenza di condanna , si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., attesa che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dall’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena cfr. cass. n. 7866 del 2008 e più recentemente anche Cass. n. 4060 del 2011 con riguardo proprio ad un licenziamento intimato ai sensi dell’art. 54 del c.c.n.l. . E tuttavia, tale equiparazione non esonera dall’ulteriore indagine della idoneità dei fatti a ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia con il lavoratore, in particolare nel caso in cui, come quello di specie, il licenziamento sia intimato con riguardo ad una previsione collettiva, che fa sì riferimento alla condanna passata in giudicato ma condiziona comunque l’irrogazione della massima sanzione alla circostanza che i fatti costituenti reato possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario, nell’ipotesi in cui la loro gravità in relazione alla natura del rapporto, alle mansioni, al grado di affidamento sia tale di far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto . In questo caso infatti non si può prescindere da una nuova valutazione dei fatti oggetto del procedimento penale conclusosi con la sentenza di patteggiamento, nella diversa prospettiva che, tenuto conto delle mansioni del lavoratore ed del grado di affidamento in lui riposto, per la loro gravità, non consentano una prosecuzione, neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Allo stesso modo non e sufficiente la mera sentenza di patteggiamento ove i fatti contestati siano riconducibili alla diversa, e più generale, ipotesi prevista dall’ultimo comma dell’art. 54 del ccnl vale a dire al caso in cui siano stati accertati fatti o atti dolosi, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire a prosecuzione del rapporto di lavoro . Sotto tale profilo pertanto la motivazione della sentenza della corte territoriale va corretta ma le conclusioni a cui la stessa perviene devono essere confermate poiché la decisione non incorre nel prospettato vizio di omessa ed insufficiente motivazione in relazione a punti decisivi della controversia. Va premesso in primo luogo che il giudice d’appello, ben lungi dal fondare la decisione su mere presunzioni ed insufficienti elementi indiziati, aderendo alla ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza di primo grado si è, correttamente, limitato a dare risposta alle censure a questa mosse che attenevano per come riferito nella parte espositiva dello svolgimento del processo della sentenza qui gravata alla valenza processuale della sentenza di patteggiamento che cristallizzava i fatti accertati nella loro gravità e comunque contestava la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale e la mancata considerazione delle dichiarazioni rese dagli agenti coinvolti nell’episodio e non avrebbe dato peso alle ammissioni dello stesso N. nel corso del procedimento penale ed al suo comportamento processuale indicatori tutti della gravità dei fatti contestati e posti a base del licenziamento. Per quanto attiene quindi al denunciato vizio di motivazione occorre verificare se, effettivamente, la società individua, nel prospettare il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., i punti decisivi non considerati e che avrebbero invece determinato una diversa conclusione della controversia. In proposito, va anzitutto ribadito che il controllo in sede di legittimità su di un giudizio di fatto del giudice di merito non può spingersi fino alla rielaborazione dello stesso alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente raggiunta, da sovrapporre, quasi alla ricerca di un terzo grado di giudizio di merito, a quella operata nei due gradi precedenti, magari perché ritenuta la migliore possibile. Tale controllo attraverso il filtro delle censure mosse con il ricorso riguarda viceversa unicamente il profilo della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica delle argomentazioni svolte, in base all’individuazione, che compete esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a sostenerlo all’interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno tessuto ricostruttivo della vicenda cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n. 5802 e, più recentemente Cass., nn. 24244/2010, 27162/09, 26825/09 e 15604/07 . Nè appare sufficiente, sul piano considerato, a contrastare le valutazioni del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti. Ogni giudizio implica infatti l’analisi, che compete al giudice nei due gradi di merito in cui si articola la giurisdizione, di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco, l’individuazione nel loro ambito di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione in termini chiari e comprensibili. Occorre quindi che i punti” della controversia dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione in proposito, cfr., Cass. cit. n. 24244/2010 ed anche Cass. nn. 24744/06 e 14973/06 . Ciò premesso in linea di principio, si rileva che nel caso in esame il ricorrente non investe di carenze o illogicità manifeste singoli snodi di carattere decisivo del ragionamento della Corte, ma attraverso rilievi, deduzioni, considerazioni e valutazioni alternative pur possibili in astratto , propone in sostanza alla Corte una diversa ricostruzione dell’intera vicenda rappresentata in giudizio in ordine alle ragioni e alla rilevanza sul piano oggettivo e su quello soggettivo circa il concreto svolgersi dei fatti. Operazione ricostruttiva apprezzabile, ma che non riesce ad imporsi a quella altrettanto logica e apprezzabile dei giudici di merito, per di più maturata attraverso due gradi di giudizio e che non viene in realtà col motivo in esame incisa nel suo tessuto logico per specifici vizi o carenze in rapporto al materiale istruttorio acquisito. Quanto alla omessa valutazione della violazione del codice della strada da parte del N. mentre era alla guida del furgone postale, si osserva che la circostanza non è decisiva ma è semplicemente esplicativa del contesto in cui i fatti si erano svolti. Per quanto riguarda invece le modalità della colluttazione la censura si risolve sostanzialmente nella prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, inammissibile, ove come nel caso in esame la sentenza sia sorretta da un ragionamento logico riferito a fatti acclarati dal giudice di merito contrasto tra verbali e certificazioni mediche attestanti la gravità delle lesioni subite dal N., discordanza delle dichiarazioni rese in giudizio dai due vigili, dichiarazioni dei colleghi di lavoro al momento della riconsegna del mezzo tutti convergenti nel senso di ritenere inverosimile la ricostruzione ancora oggi prospettata dalla Società dovendosi, semmai, attribuire ad una provocazione dei vigili che lo avevano fermato lo svilupparsi della vicenda complessivamente esaminata . Per queste ragioni, il motivo, che sostanzialmente propone alla Corte di legittimità una nuova valutazione di merito delle medesime risultanze istruttorie già ragionevolmente valutate dai giudici di merito, è infondato e la sentenza va, con le precisazioni contenute in motivazione, confermata. Quante alle spese del giudizio queste vanno regolate, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. secondo il criterio della soccombenza. Deve farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, conv., con modificazioni, in l. 24 marzo 2012 n. 27. L’art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo il Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012. Tenuto conto dello scaglione di riferimento della causa considerati i parametri generali indicati nell’art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria nella allegata Tabella A, i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di € 4.000,00 e di € 40,00 per esborsi, oltre accessori di legge. P.Q.M. La Corte Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorente al pagamento delle spese del giudizio in favore del N. che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali ed in € 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA.