Condannato per detenzione di marijuana, ma non può essere licenziato

Tale fattispecie criminosa attiene solo ad una situazione privata extralavorativa del dipendente, che non lede il vincolo fiduciario del rapporto.

Con la sentenza n. 21940, depositata il 6 dicembre, la Corte di Cassazione ha deciso sulla legittimità di un licenziamento motivato con una condanna penale. Portalettere e marijuana. Un postino viene arrestato per spaccio di stupefacenti, con il conseguente obbligo di presentarsi giornalmente alla polizia. Le Poste lo sospendono cautelativamente dalla mansione. Il processo termina con un patteggiamento, con la derubricazione del reato a detenzione per uso personale di una pianta di marijuana, escludendo l’ipotesi di spaccio. Reintegra forzata. Per tale condanna, viene licenziato. Impugna il licenziamento. Il Tribunale ordina la reintegra nel posto di lavoro e condanna la società al pagamento di un’indennità equivalente alla mancata retribuzione di quel periodo. Sentenza confermata in secondo grado. Licenziamento legittimo? Il datore di lavoro sostiene la legittimità del licenziamento. Sia per comportamento scorretto del dipendente che non ha avvisato per tempo circa la propria situazione di arresto. Circostanza appresa tramite la stampa locale, con pubblico scalpore suscitato dalla notizia. Sia perché, a seguito della condanna, ritiene venuto meno il rapporto fiduciario, requisito necessario per il mantenimento del rapporto, secondo il CCNL di riferimento. Nessuna contestazione disciplinare per il mancato avviso dell’arresto. La Cassazione ritiene corretta la scelta della Corte di Appello di non entrare nel merito della questione circa il mancato avviso dell’arresto. Manca infatti la relativa contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro. E’ illegittimo il licenziamento per detenzione di marijuana. La Corte ritiene inammissibile il ricorso perché i quesiti di diritto non sono esposti correttamente. Nonostante ciò, procede oltre e ne riscontra anche l’infondatezza. Infatti la semplice detenzione personale dell’infiorescenza con esclusione dell’ipotesi di spaccio, attiene solo ad una situazione privata extralavorativa del dipendente e non è di una gravità tale incidere sull’elemento fiduciario . Non viene accolta la tesi del ricorrente secondo cui dalla semplice detenzione della pianta vada dedotta la finalità di spaccio, con relativa incisione sulla valutazione del comportamento del dipendente e quindi sul rapporto di lavoro.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 24 ottobre – 6 dicembre 2012, numero 21940 Presidente De Renzis – Relatore Fernandes Svolgimento del processo M.V. - dipendente di Poste Italiane s.p.a. con mansioni di portalettere dal 1987 - veniva tratto in arresto il 15 gennaio 2003 per i reati di cui agli artt. 73 co. 1 e 4 DPR numero 309/90 e, quindi, gli veniva applicata la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. La società Poste Italiane sospendeva il M. cautelativamente dal servizio e, conclusosi il procedimento penale con il patteggiamento, lo licenziava in data 6 luglio 2004, a seguito di contestazione disciplinare, avendo ritenuto che il reato per il quale era stato condannato, pur non essendo strettamente correlato al tipo di servizio svolto per l'azienda, riverberava, comunque, i suoi effetti negativi sia nell'ambito lavorativo che sull'immagine della società che svolgeva un servizio di pubblica rilevanza. Il M. impugnava il licenziamento innanzi al Tribunale di Voghera che accoglieva il ricorso dichiarando la illegittimità del provvedimento espulsivo, ordinando la reintegra del ricorrente nel posto di lavoro e condannando la società al pagamento di una indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino alla reintegra. Tale decisione veniva confermata, con sentenza depositata il 7 gennaio 2008, dalla Corte di Appello di Milano sul rilievo che il reato per il quale il M. aveva patteggiato - derubricato da detenzione e spaccio di sostanza stupefacente a semplice detenzione per uso personale di infiorescenza di marijuana - atteneva ad una situazione privata extra lavorativa, non idonea ad incidere sul rapporto di lavoro ed ad impedirne la prosecuzione. Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso Poste Italiane s.p.a. affidato a tre motivi. Il M. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo si deduce la omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio art. 360 co.1 numero 5 c.p.c. . In particolare, si assume che la Corte di merito avrebbe omesso di pronunciarsi sulla rilevanza dei comportamento del dipendente che, pur se in stato di arresto, non si sarebbe adoperato per far avvisare il proprio datore di lavoro, benché non potesse non immaginare che la vicenda sarebbe apparsa sui quotidiani, creando notevole imbarazzo in una zona piccola quale quella in cui egli operava. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 53 co. Cap. VI, lett. i del CCNL Poste Italiane del 2003 e dell'art. 2119 c.c. art. 360 co.1 numero 3 cpc . La norma della contrattazione collettiva prevede, infatti, tra le ipotesi di licenziamento senza preavviso, la condanna passata in giudicato per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, .quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del vincolo fiduciario , circostanza questa verificatasi nel caso in esame. Ed infatti, la detenzione di una pianta di marijuana e, quindi, la coltivazione di canapa indiana, era rilevante come criterio di valutazione ai fini della prova della detenzione per uso non esclusivamente personale e, in ogni caso, rilevante per valutare il comportamento complessivo del dipendente. Si formula il seguente quesito di diritto se, ex art. 1362 c.c., in relazione all'art. 53. cap. VI, lett. i , del CCNL delle Poste 2003, costituisca giusta causa di licenziamento la detenzione dell'infiorescenza, in quanto trattasi di un comportamento del dipendente che, pur attenendo ad una situazione privata extralavorativa, può incidere sul rapporto di lavoro Con il terzo motivo di deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. art. 360 co.1 numero 3 cpc . Si assume che la Corte di merito non aveva tenuto conto e che per il tipo di servizio prestato dal M. - portalettere - il reato a quest'ultimo ascritto era di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario e che, comunque, il dipendente non si era prontamente adoperato per informare del suo arresto la società. Viene formulato il seguente quesito di diritto Se costituisca giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., il comportamento del dipendente il quale ha omesso di tenere informato il suo datore di lavoro di questioni che sono state oggetto di grande risalto da parte della stampa locale tanto da ledere l'immagine del datore di lavoro stesso . Il primo motivo di ricorso è inammissibile oltre che infondato. Va, in primo luogo rilevato che la sentenza di questa Corte che, nell'assunto della ricorrente, avrebbe affermato il principio secondo cui vi sarebbe il diritto del datore di lavoro di essere informato direttamente dal lavoratore, in maniera precisa e puntuale, sulle vicende che possono ledere il rapporto fiduciario alla base del rapporto di lavoro subordinato, concerneva un caso del tutto diverso in cui era il contratto collettivo applicabile a quella fattispecie a prevedere siffatto obbligo. Ciò detto, la condotta omissiva in questione non risulta essere stata oggetto di contestazione disciplinare e, dunque, correttamente la Corte di merito non la ha valutata limitando il proprio esame alla questione decisiva della presente controversia ovvero quella relativa al rilievo che possono assumere fatti costituenti reato commessi dal dipendente non in connessione con l'attività lavorativa svolta ai fini della lesione del vincolo fiduciario e non il fatto, del tutto privo di decisività, che Poste Italiane era venuta a conoscenza dell'arresto del M. , eseguito il 15.3.2003, attraverso la stampa, peraltro, il giorno dopo . Quanto al secondo ed al terzo motivo gli stessi sono inammissibili. Ai sensi dell'art. 366 bis cpc. applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. numero 40 del 2006 e prima del 4 luglio 2009, e quindi anche al ricorso in esame nei casi previsti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, nnumero 1 , 2 , 3 e 4 , l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d'inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto idoneo a far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura dei solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare Cass. 7 aprile 2009 numero 8463 . Nel perseguire tale scopo il quesito di diritto di cui all'art. 366 bis c.p.c. deve infatti compendiare la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie Cass. 12 marzo 2012 numero 3864 . È, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge Cass. 17 luglio 2008 numero 19769 , ovvero allorquando il quesito sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto Cass. sez. unumero 28 settembre 2007 numero 20360 . È di tutta evidenza che i motivi in esame sono del tutto privi dei sopra richiamati requisiti di ammissibilità. Ed infatti si limitano a chiedere a questa Suprema Corte puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o di contratto al fine di sollecitare un inammissibile valutazione del merito della controversia. Con riferimento al secondo motivo, peraltro, lo stesso è anche infondato. La Corte di merito, invero, ha motivato che il reato inizialmente ascritto al M. era stato derubricato a semplice detenzione per uso personale dell'infiorescenza con esclusione dell'ipotesi di spaccio e che, così inquadrata la fattispecie criminosa, la stessa atteneva solo ad una situazione privata extralavorativa del dipendente e non era di gravità tale da incidere sull'elemento fiduciario. Quanto al richiamo contenuto in motivazione alla sentenza di questa Corte - Cass. penumero N. 40362/07, che aveva ritenuto l'insussistenza del reato di detenzione di stupefacenti nella coltivazione di piante di canapa - risulta evidente che lo stesso non ha avuto efficacia fondante la decisione essendo stato operato solo per rilevare che poteva valere a costituire una valutazione retrospettiva favorevole al reo per attenuare la riprovevolezza sociale del suo comportamento . Per quanto sin qui esposto il ricorso va, dunque, rigettato. La ricorrente, per il principio della soccombenza va condannata alle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo con attribuzione in favore degli avv.ti Roberto Afeltra e Luigi Zezza per dichiarato anticipo fattone. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 per esporsi ed Euro 2.500,00 per compenso oltre accessori, come per legge, con attribuzione in favore degli avv.ti Roberto Afeltra e Luigi Zezza.