L’indennità di mobilità non è ad uso e consumo di proposizioni volitive delle parti

La procedura di mobilità segue il rigido ed inderogabile schema dei criteri, presupposti e modalità fissato dalla legge e rende nulla qualsiasi volizione pattizia contraria.

Il caso. Un lavoratore licenziato per giustificato motivo soggettivo con lettera del 3/12/2001, quindi con decorrenza dal successivo 23/12/2001, conveniva in giudizio il suo datore di lavoro rivendicando una pretesa risarcitoria derivante dalla mancata esecuzione di un accordo formalizzato in sede sindacale e sottoscritto nel maggio dell’anno 2003, con il quale l’imprenditore ex-datore di lavoro si era impegnato a reintegrare detto lavoratore al solo fine di inserire il suo nominativo nelle liste di mobilità, cosicché il medesimo avrebbe potuto percepire le rispettive indennità mentre, nelle more dell’attivazione di tale strumento rimanevano sospesi sia la prestazione lavorativa che l’obbligazione retributiva, residuando in capo al datore di lavoro solo l’obbligo contributivo e la corresponsione di una esigua somma una tantum a titolo di mero sostentamento. Stante la mancata attivazione della predetta procedura di mobilità, il lavoratore ne addebitava la relativa colpa al datore, citandolo innanzi al giudice del lavoro e chiedendogli i danni. Discrasia tra i motivi di rigetto. In primo grado, il Tribunale disattendeva la pretesa azionata dal lavoratore, rilevando la nullità del negozio transattivo formato in sede sindacale per carenza di poteri rappresentativi in capo al soggetto firmatario per parte datoriale la Corte Territoriale invece, previo appello del lavoratore, respingeva il gravame rilevando un vizio di nullità del predetto negozio transattivo perché, stante il contrasto con la normativa imperativa in tema di ammortizzatori sociali, si risolveva in un negozio nullo per illiceità della causa ed in frode alla legge. Fondamentale la classificazione delle norme in imperative e dispositive. La distinzione tra norme giuridiche imperative e dispositive si fonda sul potere dell’autonomia negoziale di disporre in maniera differente dai precetti ivi contenuti oppure dalla necessità di conformarsi agli stessi nel primo caso, avremo le norme cc.dd. dispositive che disciplinano un aspetto del rapporto giuridico patrimoniale rimettendo all’autonomia negoziale delle parti la potestà di disporre in deroga, mentre nel secondo caso, parleremo di norme imperative che precludono e/o vietano alle parti di discostarsene pena la nullità del contratto e/o dell’atto giuridico unilaterale riconducibile alla disciplina dei contratti. La sentenza di appello veniva impugnata in sede di legittimità, sempre dal lavoratore, il quale riteneva che i giudici del gravame avessero ritenuto erroneamente illegittimo e/o contrario alla legge, un accordo tra lavoratore e datore di lavoro diretto alla ricostituzione del rapporto di lavoro all’esito del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente insorgenza del diritto dello stesso lavoratore ad ottenere l’inserimento nelle liste di mobilità secondo i criteri e le modalità di cui alla legge 223/1991. Il contratto di transazione posto a base della pretesa risarcitoria è nullo. L’assunto del lavoratore si basava sull’errore commesso dai giudici di appello nella valutazione delle risultanze istruttorie relative alle prove testimoniali dalle quali si sarebbe dovuto evincere che l’oggetto dell’accordo intervenuto con il datore in sede sindacale, concerneva l’impegno assunto dal datore ad inserire il nominativo del lavoratore nell’elenco dei lavoratori in esubero all’interno però di una procedura di mobilità che rispetto alla transazione oggetto di esame risultava anteriore ed autonoma alla stessa. Pertanto, il lavoratore si rimetteva al giudizio nomofilattico sul quesito giuridico concernente la legittimità di un accordo transattivo tra lavoratore e datore di lavoro diretto alla ricostituzione del rapporto di lavoro subordinato all’esito di un licenziamento per motivi soggettivi con conseguente insorgenza di un diritto del lavoratore medesimo a pretendere l’inserimento come lavoratore in esubero in una procedura di selezione del personale agli effetti della legge n. 223/1991. La società-datrice di lavoro obiettava che la procedura di mobilità non poteva ritenersi autonoma rispetto al predetto accordo sindacale, poiché se così fosse stato se ne sarebbe dato atto nel negozio transattivo medesimo. La S.C. statuisce l’estrema correttezza sul piano logico-giuridico della ricostruzione del fatto storico sostanziale operata dai giudici di appello, pertanto affrontando unicamente il profilo di legittimità innanzi detto, statuisce che alcuna pretesa risarcitoria può essere legittimamente avanzata dal lavoratore, consistente nella mancata percezione delle indennità di mobilità per una sorta di inadempimento del datore, in quanto il contratto di transazione posto a giustificazione causale della pretesa stessa è da ritenersi nullo per grave intento fraudolento delle parti nei confronti della normativa in materia contributiva e assistenziale. La particolare natura degli interessi tutelati dalle norme previdenziali consiste nel sostegno approntato dal legislatore a soggetti che si trovano in stato di bisogno e tanto rende ancora più inderogabile l’intera materia previdenziale ed assistenziale per cui ogni clausola pattizia derogatoria risulta nulla perché in frode alla legge.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 28 settembre – 24 novembre 2011, n. 24828 Presidente Roselli – Relatore Berrino Svolgimento del processo Con ricorso depositato il 10/12/04 L.L. si rivolse al giudice del lavoro del Tribunale di Lucca per sentir condannare la società s.r.l. L. G. & amp C. al pagamento in suo favore della somma di Euro 25.685,75 a titolo di risarcimento del danno per mancata esecuzione dell'accordo sottoscritto tra le parti in sede sindacale il 16/5/03, avente ad oggetto il suo inserimento nelle liste di mobilità, per effetto della quale egli non aveva potuto più percepire la relativa indennità di legge. Il giudice adito respinse la domanda rilevando che il consigliere di amministrazione della società che aveva sottoscritto l'accordo per la parte datoriale era sprovvisto di idonea delega. Tale sentenza fu impugnata dal L., ma la Corte d'appello di Firenze, con pronunzia del 30/5 - 10/6/08 contenente una diversa motivazione di rigetto, respinse il gravame e compensò le spese del grado. La Corte territoriale spiegò che il vero motivo della nullità del predetto accordo risiedeva nella illiceità della causa, in quanto diretto ad eludere le norme imperative in materia di mobilità e a realizzare una frode alla legge, per cui lo stesso non poteva essere invocato dal lavoratore per conseguirne i benefici invocati. Invero, il L. era stato licenziato con lettera del 3/12/01 a decorrere dal 23/12/01, mentre l'accordo del maggio 2003 prevedeva che l'azienda avrebbe avviato la procedura di mobilità a partire dal luglio del 2003, impegnandosi a reintegrarlo, ma con temporanea sospensione della prestazione lavorativa fino all'inserimento del suo nominativo nelle liste di mobilità, senza corrispondergli, però, alcuna retribuzione, fatto salvo il versamento dei contributi e la dazione di una somma di Euro 1000,00 per le necessità della vita. Per la cassazione della sentenza propone ricorso il L., il quale affida l'impugnazione ad un unico articolato motivo di censura. Resiste con controricorso la L. G. & amp C. s.r.l. che propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato ad un solo motivo e deposita, altresì, memoria ai sensi dell'at. 378 cpc. Motivi della decisione 1. Con un unico articolato motivo di censura il ricorrente lamenta i seguenti vizi dell'impugnata sentenza - Violazione e falsa applicazione degli artt. 1344 e 1418 c.c. art. 360 n. 3 c.p.c. - Violazione e falsa applicazione della legge n. 223/91 art. 360 n. 3 c.p.c. - Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia art. 360 n. 5 cpc . Nello spiegare le ragioni del ricorso il L.d., preliminarmente, che l'errore in cui sarebbe incorsa la Corte di merito deriverebbe dalla mancata attenzione prestata alle risultanze della prova testimoniale dalla quale si sarebbe potuto comprendere che nella fattispecie non si trattava dell'assunzione, da parte della società, di un impegno transattivo destinato all'attivazione di una procedura di mobilità entro il mese di luglio del 2003, bensì di un impegno diretto ad inserire il suo nominativo nell'elenco dei lavoratori in esubero all'interno di una procedura di mobilità già decisa ed autonoma rispetto alla transazione oggetto di esame. Attraverso il conclusivo quesito di diritto il ricorrente chiede, pertanto, di accertare se, contrariamente al convincimento della Corte d'appello di Firenze che ha dichiarato la nullità ex artt. 1344 e 1418 c.c. della transazione intercorsa tra le parti il 16/5/2003 per frode alla legge e violazione di norme imperative, debba ritenersi legittimo l'accordo tra lavoratore e datore di lavoro per effetto del quale viene ricostituito il rapporto lavorativo con versamento della dovuta contribuzione all'esito dell'impugnazione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente nascita del diritto dello stesso dipendente a vedersi inserito, in forza delle disposizioni di cui alla legge n. 223/91, in una lista di lavoratori in esubero interessati ad una procedura di selezione del personale. 2. Da parte sua l'intimata società, nel resistere al ricorso del L., obietta che la procedura di mobilità non era stata affatto decisa precedentemente all'accordo transattivo, altrimenti di ciò si sarebbe dato atto nell'accordo stesso, che non poteva imputarsi alla società il mancato avvio di una tale procedura in mancanza dei relativi presupposti di legge e che la valutazione sulla liceità dell'accordo contenente l'impegno della società ad avviare una procedura siffatta nei riguardi di un solo lavoratore non poteva che essere riferita ex ante al momento della conclusione dell'accordo, per cui era infondata la tesi del ricorrente diretta a sostenere, nell'intento di salvare la legittimità del negozio, che l'eventuale elusione delle disposizioni della legge n. 223/91 avrebbe potuto essere accertata solo in un secondo momento. Nel contempo la società propone ricorso incidentale condizionato attraverso il quale denunzia la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2475, primo comma, n. 7, 2487 e 2384 cod. civ., nel testo applicabile ratione temporis , e dell'art. 2193 cod. civ. art. 360 n. 3 c.p.c. al fine di veder cassata la sentenza nella parte in cui ha rigettato l'eccezione di carenza del potere rappresentativo di colui che sottoscrisse per l'impresa l'accordo oggetto di causa. Osserva la Corte che il ricorso principale è infondato, posto che l'assunto della Corte territoriale è corretto sul piano logico-giuridico e non è, quindi, suscettibile di alcuna delle critiche che contro di esso sono state mosse. In sostanza, correttamente la Corte di merito ha rilevato che il diritto al risarcimento del danno, che il ricorrente pretendeva di far discendere dalla mancata percezione dell'indennità di mobilità per fatto imputabile presuntivamente all'inadempimento della controparte, impegnatasi ad attivare in sede transattiva la relativa procedura, non poteva sorgere nella fattispecie, posto che il complesso negoziale attraverso il quale era stato assunto quest'ultimo impegno dalla parte datoriale era palesemente nullo, in quanto diretto ad eludere l'applicazione di norme imperative e a realizzare una frode alla legge. La Corte di merito ha, infatti, accertato che il licenziamento, risalente al 3/12/2001 e decorrente dal 23/12/2001, era stato impugnato il 6/2/2002, mentre solo in data 16/5/2003 era stato concluso in sede sindacale l'accordo che prevedeva l'impegno della datrice di lavoro ad attivare la procedura di mobilità a partire dal luglio del 2003, con reintegra del lavoratore, ma con temporanea sospensione della prestazione lavorativa fino alla stipula dell'accordo sulla messa in mobilità del personale dipendente, al cui interno la società si impegnava ad inserire il nominativo del L. tuttavia, era previsto che quest'ultimo non avrebbe ricevuto alcuna somma, né a titolo retributivo, né a titolo risarcitorio per le mensilità già perdute, salvo un acconto di Euro 1000,00 sulle sue future prestazioni lavorative e fermo restando il solo obbligo al versamento dei contributi previsti dalla legge. Bene ha fatto, pertanto, la Corte fiorentina a rilevare la nullità del suddetto accordo, dato il suo evidente contenuto elusivo delle norme imperative previste dal legislatore in materia di attivazione della procedura di mobilità che fissano in maniera inderogabile tempi, modalità e requisiti oggettivi che presiedono alla erogazione di una prestazione previdenziale, qual è l'indennità di mobilità ne consegue giustamente, come evidenziato dalla Corte di merito, che lo stesso accordo si rendeva inutilizzabile ai fini del risarcimento preteso dal lavoratore per l'asserito inadempimento datoriale di una delle obbligazioni in esso previste. Infatti, l'indennità di mobilità, regolata dall'art. 7 della legge 23 luglio 1991 n. 223, configura una prestazione previdenziale - che come l'indennità di disoccupazione - è sostitutiva - nei limiti nello stesso articolo indicato - del trattamento economico goduto dai lavoratori prima della messa in mobilità. E che nessun dubbio possa sorgere sulla indicata natura della indennità in esame si evince tra l'altro dai commi 8 L'indennità di mobilità sostituisce ogni altra prestazione di disoccupazione nonché l'indennità di malattia e di maternità eventualmente spettanti e 12 L'indennità prevista dal presente articolo è regolata dalla normativa che disciplina l'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria in quanto applicabile nonché delle disposizioni di cui all'art. 37 della l. 9 marzo 1989 n. 88 del già citato art. 7 l. 223/1991 e dall'art. 6, comma settimo, del d.l. 20 maggio 1993 n. 148 convertito in l. 19 luglio 1993 n. 236, che - a conferma, appunto, della natura previdenziale della prestazione volta al sostegno economico di chi si trova in stato di bisogno - introduce il divieto di cumulo del trattamento di mobilità con le pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria . Tra l'altro, va anche evidenziato che l'inderogabilità della materia previdenziale - v giustificata dalla natura degli interessi tutelati come si evince dal disposto degli arti 2114 e 2115 c.c. - osta alla validità di ogni patto, che valga a modificare la normativa legale sulle forme di previdenza e di assistenza obbligatorie e sulle contribuzioni e prestazioni relative, o che sia suscettibile di eludere gli obblighi delle parti attinenti alle suddette materie. Da qui la natura fraudolenta - anche sotto questo profilo - dell'accordo transattivo concluso dalle parti, così come già ha correttamente ritenuto il giudice d'appello. Giova a tal punto ricordare che sul tema della natura inderogabile della normativa in materia di indennità di mobilità questa Corte ha già avuto modo di esprimersi Cass. sez. lav. n. 5009 dell'11/3/2004 statuendo che l'indennità di mobilità ai lavoratori licenziati, di cui all'art. 7, legge 23 luglio 1991, n. 223, configura una prestazione previdenziale che trova inderogabile regolamentazione nella normativa legale ne consegue che è invalido ogni patto che valga a modificare la normativa legale sulle forme di previdenza e di assistenza obbligatorie e sulle contribuzioni e prestazioni relative, o che sia suscettibile di eludere gli obblighi delle parti attinenti alle suddette materie. Nella specie la S.C., oltre a rilevare che una conciliazione tra le parti di un rapporto di lavoro non ha efficacia nei riguardi dell'Inps, che è terzo rispetto al negozio, ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso, ai fini del calcolo del requisito dell'anzianità di servizio previsto dall'art. 16 l. cit., la rilevanza dell'accordo con cui le parti avevano pattuito che l'originario rapporto di lavoro doveva considerarsi sospeso ai soli fini retributivi e previdenziali dalla data del licenziamento fino ad una data da esse stabilita . Il ricorso principale va, perciò, rigettato. Ne consegue che rimane assorbito l'esame del ricorso incidentale proposto dalla società solo in via condizionata. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente principale e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale. Condanna il ricorrente alle spese del giudizio in Euro 2000,00 per onorario, Euro per esborsi, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali ai sensi di legge.