Si ammala e poi viene licenziata: mobbing o no? Per la Cassazione mancano le prove

Il giudice può valutare il comportamento datoriale, ma se lo considera vessatorio e persecutorio deve darne adeguata motivazione.

Con la sentenza n. 18842 del 16 settembre, la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di mobbing, affermando che se i giudici ritengono vessatori e persecutori alcuni comportamenti, che astrattamente potrebbero invece rientrare nell'esercizio del normale potere datoriale, sono tenuti a motivare la loro decisione. La fattispecie. Una lavoratrice veniva licenziata per superamento del periodo di comporto e si rivolgeva al Tribunale, sostenendo l'illegittimità del recesso ed anzi la sussistenza del mobbing da parte del lavoratore, quale causa della malattia che l'aveva costretta ad assentarsi dal lavoro. Il Tribunale di Milano riconosceva l'esistenza di pratiche vessatorie e persecutorie nei confronti dell'attrice e che la malattia, causa delle assenze, era collegata al comportamento tenuto dai responsabili ad identica conclusione perveniva la Corte d'Appello. La società datrice si rivolgeva, quindi, in cassazione. Atti ostili, oppressivi e molesti c'è il mobbing. I giudici di merito, sulla base delle prove documentali e testimoniali assunte in primo grado, hanno ritenuto esistente una situazione di mobbing, accogliendo quindi le osservazioni svolte dalla lavoratrice. In particolare, i giudici hanno ravvisato un comportamento datoriale caratterizzato da un insieme di strategie e pratiche vessatorie , reiterate nel tempo, dirette ad intaccare l'equilibrio psicologico, sociale e professionale della dipendente al fine di provocarne un allontanamento. Secondo il collegio, insomma, risulta accertata una serie di atti ostili, oppressivi e molesti, del tutto pretestuosi e ripetitivi, tali da configurare un'ipotesi di mobbing. L'altra versione episodi che rientrano nel potere datoriale. Di parere opposto, ovviamente, il datore di lavoro che, nel ricorso, evidenzia una serie di episodi concreti che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare, e lamentando omessa e insufficiente motivazione della sentenza, la quale sarebbe viziata da affermazioni apodittiche, non supportate da prove concrete e, quindi, non idonee a giustificare le decisioni assunte. La Cassazione rimette tutto in discussione. Le censure del datore di lavoro, questa volta, colgono nel segno. La S.C., infatti, riconosce che il potere datoriale può essere sottoposto al vaglio del giudice, ma questi non può arrivare a sindacare le scelte datoriali, dovendo valutare e indicare gli elementi dai quali ha tratto il convincimento che la condotta dell'azienda sia sconfinata dall'alveo del lecito esercizio dei suoi poteri. In altre parole, le affermazioni dei giudici di merito che riconoscono un'ipotesi di mobbing nel comportamento caratterizzato da pratiche vessatorie, appaiono del tutto sfornite di prova. Ed anzi, gli episodi di presunta persecuzione la mancata concessione delle ferie, la contestazione disciplinare di un ammanco e relativa sanzione possono essere valutati come normale manifestazione del potere datoriale , e proprio per questo il diverso giudizio espresso in sentenza avrebbe richiesto una motivazione ben più articolata volta a giustificare le ragioni di questo diverso opinare . Si ritorna alla Corte d'Appello. Il ricorso, quindi, merita di essere accolto, con rinvio alla Corte territoriale per una nuova decisione nel merito.