La responsabilità per i difetti dell’immobile si estende anche al progettista/direttore dei lavori

Al fine di non incorrere in possibile responsabilità ex art. 1669 c.c. nel progettare e realizzare l’opera, gli artefici devono considerare, secondo la diligenza professionale e le norme tecniche vigenti, tutte le caratteristiche del suolo, desunte dai vari fattori ambientali, geomorfologici e strutturali, che possono incidere sul fabbricato e devono orientarne la progettazione e l’esecuzione.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 26552/17, depositata il 9 novembre. Il caso. Nel 1993 una coppia di coniugi acquistava, in provincia di Pordenone, un edificio adibito ad abitazione. Quattro anni dopo l’acquisto, tuttavia, citava in giudizio la società venditrice dell’edificio, nonché l’architetto progettista e il Comune, chiedendo tutela contrattuale e risarcitoria e, in via subordinata, il risarcimento dei danni subiti, ex art. 1669 c.c., a seguito dell’esondazione delle acque di un vicino corso d’acqua. Il Tribunale di Pordenone rigettava la domanda proposta contro il Comune mentre accoglieva quella proposta contro la società venditrice e il progettista, ex art. 1669 c.c., colpevoli di non aver considerato, nella progettazione e nella costruzione, il fenomeno esondativo che ciclicamente si verificava in quel territorio. Questi, pertanto, venivano condannati, in via solidale, al risarcimento dei danni, in favore dei coniugi attori, per il minor valore dell’immobile. La sentenza di primo grado veniva appellata dai soccombenti e i rispettivi ricorsi venivano riuniti. Nel 2007 la Corte di Appello di Trieste dichiarava inammissibile, perché tardiva, l’impugnazione proposta dagli attori nei confronti del Comune. Accoglieva, invece l’appello proposto dal professionista, negando ogni sua responsabilità per il verificarsi delle cicliche esondazioni d’acqua, affermando, in particolare, che in presenza di una anomalia del territorio, come nel caso de quo , è l’appaltatore, soggetto più propriamente tecnico, il primo responsabile di realizzazioni difettose. Nella fattispecie in esame, il giudice triestino aveva escluso l’esistenza di vizi dipendenti da una progettazione inadeguata, rilevando come il difetto era da ricondursi, più propriamente, all’ambiente nel quale si era proceduto alla costruzione. La Corte territoriale rigettava la domanda proposta nei confronti del progettista e della società immobiliare. Nel 2008 i coniugi proponevano ricorso per Cassazione, sulla base di quattro motivi. Il progettista architetto resisteva in giudizio con controricorso e svolgeva, altresì ricorso incidentale. I ricorrenti depositavano controricorso, mentre gli altri intimati non svolgevano alcuna attività difensiva. Nel 2015, la Seconda Sezione della Suprema Corte, con ordinanza, rimetteva gli atti del procedimento al Primo Presidente ravvisando la necessità di un chiarimento sull'istituto della rimessione in termini, considerato il fatto che la sentenza impugnata presentava una doppia data di deposito. I ricorrenti certificavano le vicende del deposito della sentenza. La Cassazione, nel 2016, a Sezioni Unite, riteneva ammissibile il ricorso principale, rimettendo gli atti alla Seconda Sezione per il prosieguo del giudizio. I motivi di impugnazione. I ricorrenti, con il primo motivo, contestano l’affermazione della Corte di Trieste secondo la quale l’art. 1669 c.c. sarebbe applicabile soltanto in ipotesi di difetti di costruzione in sé e non, invece, in relazione a situazioni dell’ambiente esterno. Con il secondo motivo lamentano il fatto che, sia il costruttore, sia il venditore, avrebbero dovuto conoscere le caratteristiche geomorfologiche del sedime del fabbricato e addebitano gravi difetti di progettazione e costruzione in relazione alla tipologia edificatoria adottata. Essi ritengono che vizio rilevante del suolo non sia soltanto quello che pone in pericolo le fondazioni del fabbricato ma, altresì, quelli che compromettono la funzionalità dell’edificio. Sostengono che la responsabilità ai sensi dell’art. 1669 c.c. debba estendersi anche al progettista – direttore dei lavori che abbia contribuito alla edificazione dell’immobile, assimilandolo al costruttore. Con il terzo motivo di censura, in particolare, la parte ricorrente si concentra sull’inammissibilità del gravame della società costruttrice, costituitasi tardivamente. Il quarto motivo richiama doglianze già rivolte contro la posizione del progettista architetto. Osservazioni della Corte di Cassazione. I motivi sono ritenuti fondati. La Suprema Corte, richiamandosi ad alcuni suoi pronunciamenti, ha affermato che la responsabilità regolata dall’art. 1669 c.c. in tema di rovina e difetti di immobili ha natura extracontrattuale e conseguentemente nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l'appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell'opera, abbiano contribuito, per colpa professionale segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori , alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi in questione. Inoltre, il difetto di costruzione che, per il legislatore, legittima il committente all'azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell'appaltatore, come del progettista, può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa, incida negativamente e in modo considerevole sul godimento dell'immobile medesimo. Ad avviso dei Giudici della legittimità, la Corte territoriale - nel ritenere che l’edificio fosse stato correttamente costruito, pur riconoscendo che il difetto di costruzione fosse dovuto all’ambiente nel quale si era proceduto alla costruzione -, ha rovesciato il ragionamento logico in altre parole, ad avviso della Suprema Corte, compito del giudice triestino doveva essere quello di verificare se il fabbricato fosse congruo rispetto al terreno e, quindi, se il costruttore e il progettista avessero realizzato l’opera tenendo debitamente conto della condizione dell’area, del sedime del fabbricato e, conseguentemente, avessero adottato le necessarie misure necessarie a scongiurare il verificarsi di danni rilevanti, ex art. 1669 c.c. Conclusione. I Giudici della Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, accolgono i primi tre motivi del ricorso principale, ritengono assorbito il quarto e dichiarano inammissibile il ricorso incidentale. La sentenza impugnata viene cassata per i motivi accolti e rinviata ad un’altra sezione della Corte di Appello di Trieste, la quale dovrà provvedere ad un nuovo esame e, altresì, sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 gennaio – 9 novembre 2017, n. 26552 Presidente Matera – Relatore D’Ascola Svolgimento del processo F.G. proponeva opposizione, innanzi al giudice di pace di Roma, avverso una cartella di pagamento emessa da Equitalia Sud s.p.a. per la riscossione di entrate di natura non tributaria riconducibili a Roma Capitale, deducendo l’omessa notificazione dei relativi avvisi di accertamento. Il giudizio, svoltosi in contumacia delle parti convenute, si concludeva con il rigetto dell’opposizione per carenza di interesse ad impugnare ciò che il giudice di pace espressamente qualificava come mero sollecito di pagamento. Nel giudizio di appello, introdotto dalla F. , si costituivano Equitalia Sud s.p.a. e Roma Capitale, depositando copia ritualmente notificata degli avvisi di accertamento. Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice d’appello, riteneva fondato il primo motivo di impugnazione, con il quale si faceva valere che l’oggetto del giudizio di opposizione era costituito dalla cartella di pagamento e non, come erroneamente ritenuto dal giudice di pace, da un mero sollecito. Tuttavia, rigettava l’opposizione nel merito, essendo stata nel frattempo raggiunta la prova dell’avvenuta notificazione dei verbali di accertamento. Contro tale decisione la F. ricorre articolando un’unica censura. Equitalia Sud s.p.a. resiste con controricorso. Entrambe hanno depositato memorie difensive. Roma Capitale, invece, non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione La ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., nella formulazione risultante dalla modifica apportata con il d.l. 22 giugno 2012, n 83, convertito con modificazioni con la legge 7 agosto 2012, n. 134. Osserva, in particolare, che il giudice d’appello, ritenendo ammissibile la produzione documentale depositata dagli opposti per la prima volta in appello, avrebbe violato il divieto assoluto di nuova produzione documentale che, per effetto della citata norma, può essere derogato solo quando la parte interessata dimostra di non aver potuto provvedere alla produzione nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Il vizio dedotto deve essere più correttamente ascritto all’ipotesi prevista dall’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., trattandosi della denuncia di una nullità processuale. Così riqualificato il motivo dedotto, il ricorso è fondato. La sentenza impugnata, per giustificare l’ammissibilità della produzione documentale tardiva, richiama l’oramai consolidato orientamento della Corte di cassazione secondo il quale la preclusione alla produzione nel grado d’appello di nuovi documenti è temperata dalla facoltà del giudice di ritenerli necessari allo scopo di dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi . Il tribunale ha quindi inteso riferirsi all’arresto delle Sezioni Unite Sez. U, Sentenza n. 10790 del 04/05/2017, Rv. 643939 secondo cui, nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado massima ufficiale . Tale giurisprudenza, tuttavia, si riferisce testualmente a una formulazione dell’art. 345 cod. proc. civ. non più vigente, in quanto superata dalle modifiche apportate dal citato d.l. n. 83 del 2012. Nel caso di specie, invece, deve trovare applicazione il nuovo testo della disposizione in commento. Infatti, la modifica dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., operata dal d.l. n. 83 del 2012, trova applicazione, in difetto di una disciplina transitoria e dovendosi ricorrere al principio tempus regit actum, solo se la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della l. n. 134 del 2012, di conv. del d.l. n. 83 cit. e, cioè, dal giorno 11 settembre 2012 Sez. Sentenza n. 6590 del 14/03/2017, Rv. 643372 . Quindi, poiché la sentenza di primo grado è stata pubblicata il 13 giugno 2013, la giurisprudenza citata dal giudice d’appello a sostegno della propria decisione non è calzante. In particolare, per effetto della citata novella, il testo dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. è stato modificato sopprimendo le parole salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero . In sostanza, è venuta meno l’ipotesi della indispensabilità della prova e l’unico caso in cui la produzione documentale in appello è tuttora ammissibile è costituito da una causa non imputabile alla parte, ossia dal caso fortuito o dalla forza maggiore. Tale regolamentazione restrittiva della prova nuova in appello, peraltro, appare sintonica con l’accentuazione della natura del giudizio d’appello come mera revisio prioris instantiae anziché come iudicium novum, che sta alla base della coeva riforma dell’art. 342 cod. proc. civ Non porta a diverse conclusioni neppure la constatazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la produzione della prova della notificazione degli avvisi di accertamento in grado di appello non sarebbe lesiva del diritto di difesa dell’opponente, in quanto i fatti dimostrati dovevano essere certamente a sua conoscenza. Tale parametro, infatti, non è assunto dalla legge come criterio di ammissibilità della nuova produzione documentale in appello. Infine, l’interpretazione testuale della nuova formulazione dell’art. 345 cod. proc. civ. non può essere superata neppure dalla considerazione, d’ordine sistematico, che l’irrigidimento del divieto di prove nuove in appello determinerebbe un’intollerabile scollatura fra la verità materiale e quella processuale. Infatti, la naturale propensione del processo all’accertamento della verità dei fatti va coniugata con il regime delle preclusioni, che numerose operano nel rito civile. Sicché, la soppressione dell’ipotesi della prova indispensabile , quale eccezione al divieto dei nova in appello, si traduce semplicemente nell’accentuazione dell’onere, già certamente immanente, di tempestiva attivazione del convenuto, in attuazione di un principio di lealtà processuale che impone di dedurre immediatamente tutte le possibili difese. Deve essere dunque affermato il seguente principio di diritto Nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. - quale risulta dalla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni con la legge n. 134 del 2012, applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal giorno 11 settembre 2012 in poi - pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova e di produzione di nuovi documenti, a prescindere dalla circostanza che abbiano o meno quel carattere di indispensabilità che, invece, costituiva criterio selettivo nella versione precedente della medesima norma, fatto comunque salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile . Ciò posto, la sentenza impugnata deve essere cassata in quanto, facendo erronea applicazione della precedente formulazione dell’art. 345 cod. proc. civ., ha ritenuto ammissibile la produzione in grado d’appello di documenti nuovi relate di notificazione degli avvisi di accertamento che le parti convenute, rimaste contumaci in primo grado, ben avrebbero invece potuto tempestivamente produrre in quel giudizio. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, è possibile decidere nel merito. Infatti, quei documenti avevano carattere decisivo e la loro inutilizzabilità comporta il definitivo accoglimento dell’opposizione proposta dalla F. . Considerando che la decisione nel merito dipende dalla violazione di una preclusione processuale che, ai tempi in cui venne proposto l’appello, era stata da poco introdotta, si ravvisano gravi ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese dei gradi di merito e del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’opposizione proposta da F.G. avverso la cartella di pagamento n. omissis . Compensa tra le parti le spese dei gradi di merito e quelle del presente giudizio di cassazione.