Negli appalti pubblici è lecita la clausola risolutiva espressa per inadempimento dell'appaltatore

La normativa in tema di risoluzione di contratti pubblici concorre con la disciplina codicistica, lasciando libera la P.A. di avvalersi dell'una o dell'altra. La clausola risolutiva espressa deve descrivere con precisione la condotta inadempiente, quindi, opera automaticamente nel momento in cui la descritta condotta si verifica nella realtà.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21740/16, depositata il 27 ottobre. Il caso. Un Ente pubblico ed una società privata stipulavano un contratto per la realizzazione di un'opera pubblica. Il contratto prevedeva un termine per la consegna dell'opera ed una clausola di risoluzione del contratto in caso di ritardato inizio dei lavori. A garanzia, l'appaltatore versava una somma a titolo di cauzione. Successivamente, rilevato il mancato inizio dei lavori, il committente risolveva il contratto e incassava la cauzione. La società conveniva in giudizio l'ente affinché fosse accertata l'illecita risoluzione del contratto con condanna alla restituzione della cauzione ed al pagamento dei danni. L'Ente pubblico chiedeva l'ulteriore condanna al risarcimento dei danni. Il Tribunale respingeva la domanda di parte attrice e condannava l'appaltatore a pagare i danni arrecati al committente. La Corte d'appello riformava la sentenza di primo grado, rilevava che il contratto non aveva regolato la procedura di risoluzione che doveva essere effettuata secondo la legge quadro dei contratti pubblici. Tanto non era accaduto, dunque, la risoluzione doveva intendersi illegittima con conseguente condanna alla restituzione della cauzione e pagamento delle spese processuali Parte committente ha attivato ricorso per cassazione. Mancato inizio dei lavori e ritardo nel corso della esecuzione. L'Ente pubblico ha sostenuto che la disciplina richiamata dalla Corte in tema di contratti pubblici è riferita a ritardi nel corso della esecuzione delle opere e non anche al caso di mancato avvio dei lavori cui, come nel caso in commento, era applicabile la disciplina generale codicistica o pattizia di risoluzione. La normativa in tema di contratti pubblici, attualmente abrogata dall'art. 256 d.lgs. n. 163/2006 e, ratione temporis , individuata nell'art. 119 d.P.R. n. 5554/1999, disciplina la risoluzione del contratto per grave inadempimento, grave irregolarità o grave ritardo. La norma prevede che il direttore dei lavori, rilevate le omissioni, ne dia completa informazione al responsabile del procedimento che, eventualmente, autorizza il direttore dei lavori a formalizzare la contestazione, assegnando un termine di quindici giorni in favore dell'appaltatore. Il termine servirà al beneficiario per chiarire la situazione. Ove i chiarimenti non siano adeguati o non pervengano, su iniziativa del responsabile del procedimento, il committente può risolvere il contratto. La risoluzione può essere richiesta, fuori dai casi sopra indicati, in caso di negligenza dell'appaltatore. In tale ipotesi, il direttore dei lavori, verificata la negligenza in contraddittorio, alla presenza dell'appaltatore o di due testimoni, redige processo verbale utile ad individuare la negligenza/inadempimento. Letto il verbale, il responsabile del procedimento può proporre la risoluzione del contratto che verrà formalizzata dal committente. La normativa appena menzionata, ha chiarito la S.C., non esclude la possibilità di prevedere, all'interno del contratto di appalto, una clausola risolutiva espressa. Chiariscono i giudici di legittimità che la normativa in tema di risoluzione di contratti pubblici concorre con la disciplina codicistica, lasciando libera la P.A. di avvalersi dell'una o dell'altra. Clausola risolutiva espressa, individuare l'inadempimento. In materia di interpretazione secondo buona fede, la Cassazione chiarisce che, in caso di clausola risolutiva espressa, occorrerà verificare che la fattispecie descritta nella clausola è quella eccepita dalla parte che ha chiesto la risoluzione. La Cassazione ha accolto il ricorso dell'Ente pubblico e rinviato ad altra Corte d'appello per l'applicazione di detti principi.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 11 maggio – 27 ottobre 2016, n. 21740 Presidente Salvago – Relatore Terrusi Svolgimento del processo Il omissis veniva stipulato un contratto di appalto tra il comune di omissis e la Ro.ma s.r.l., per la realizzazione di alcuni lavori di sistemazione di una strada comunale da ultimare entro 140 giorni dalla data del verbale di consegna, con previsioni di penali giornaliere per eventuali ritardi e con patto che, qualora i lavori fossero iniziati o ultimati con ritardo superiore al 30 % del tempo previsto, si sarebbe proceduto alla risoluzione in danno dell’appaltatore. In data 4-11-2002 la stazione appaltante si avvaleva di tale clausola, comunicava la risoluzione del contratto e incamerava la somma posta a cauzione. La società conveniva in giudizio il comune al fine di sentir accertare che la risoluzione era stata intimata illegittimamente e comunque adottata in violazione del principio di buona fede, con conseguente condanna dell’ente a restituire la somma incamerata e a risarcire i danni. Nella resistenza del convenuto, il tribunale di Firenze, sez. dist. di Pontassieve, respingeva la domanda principale e, in accoglimento della riconvenzionale, condannava l’attrice al risarcimento dei danni. La corte d’appello di Firenze, invece, ribaltava la decisione sul rilievo che la norma convenzionale art. 11 del contratto di appalto aveva sì sanzionato con la risoluzione il ritardo anche relativo all’inizio dei lavori, ove superiore al 30 % dei giorni complessivamente previsti per ultimare l’opera, ma nulla aveva disposto in ordine alla procedura da applicare al riguardo procedura che andava individuata nel regolamento generale della legge quadro sui lavori pubblici d.P.R. n. 554 del 1999 e nel capitolato generale ex d.m. 21-12-2000, n. 145. Poiché la stazione appaltante non aveva avviato la procedura di cui all’art. 119 del d.P.R. citato, né formulato all’appaltatore alcuna contestazione in merito a ritardi nell’inizio dell’esecuzione dell’opera, ne derivava che la risoluzione era stata disposta in contrasto e con la disciplina prevista per l’esercizio del corrispondente potere e con la clausola generale di buona fede. Pertanto la corte d’appello dichiarava l’illegittimità della risoluzione intimata dal comune, che condannava alla restituzione dell’importo della cauzione e al pagamento delle spese processuali. Avverso la sentenza, depositata il 19-7-2010 e non notificata, il comune di omissis ha proposto ricorso per cassazione in sette motivi, illustrati da memoria. La società ha replicato con controricorso. Motivi della decisione 1. - Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999 in riferimento all’art. 117 dello stesso d.P.R., il comune eccepisce che la norma è stata concepita per il caso dei ritardi in corso d’opera, e non per quello di specie, in cui era mancato finanche l’inizio dell’esecuzione dell’appalto. Pertanto ben poteva essere attivata la clausola risolutiva espressa. Col secondo motivo denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999 in riferimento all’art. 1456 cod. civ., avendo la sentenza erroneamente affermato che nell’art. 11 del contratto non era stata stabilita un’esplicita disciplina in ordine alla procedura da seguire in caso di risoluzione, con conseguente necessaria applicabilità dell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999. Viceversa, essendosi trattato di clausola risolutiva, la relativa disciplina doveva rinvenirsi nell’art. 1456 cod. civ Col terzo motivo di ricorso il comune denunzia l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza, non avendo la corte d’appello chiarito le ragioni per le quali dovevasi necessariamente applicare al caso di specie la ridetta disciplina speciale ex art. 119 cit Col quarto mezzo è ancora dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999 anche in riferimento agli artt. 1322 e 1372 cod. civ., non avendo la prima norma ragione di essere applicata al caso di specie, in cui non vi era stato neppure l’inizio dell’esecuzione dell’appalto. Nel quinto motivo la sentenza viene censurata per insufficiente e contraddittoria motivazione sulla esistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 119 citato. Nel sesto si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., non potendosi ravvisare una violazione del principio di buona fede allorché l’amministrazione abbia agito nel rispetto della disciplina contrattuale liberamente stabilita e concordata con l’appaltatore, in presenza della constatazione circa il mancato inizio dei lavori alla data prevista. Infine col settimo mezzo si denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza sul corrispondente profilo controverso. - I motivi di ricorso, per buona parte ripetitivi, possono essere esaminati congiuntamente per connessione. La questione attiene al fatto se, in tema di appalto d’opera pubblica, ai fini dell’applicabilità di una clausola risolutiva espressa debba necessariamente venire in rilievo la disciplina procedimentale di cui all’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999 e se, ai fini di tale disciplina, l’ipotesi del mancato inizio dei lavori sia equiparabile a quella del ritardo nel corso dell’adempimento. Occorre dire che, per quanto implicitamente, l’impugnata sentenza ha accertato che la clausola contrattuale di cui all’art. 11 dell’appalto aveva in effetti natura di risolutiva espressa. Invero, non solo non ha mai contraddetto simile visione della clausola come indicata dal comune, ma anzi ha confermato che l’art. 11 del contratto prevedeva che il ritardo nell’inizio o nella conclusione dei lavori , ove superiore al 30 % dei giorni complessivamente previsti, potesse essere sanzionato con la risoluzione del contratto medesimo a danno dell’appaltatore . La clausola risolutiva espressa è il patto mediante il quale le parti assumono un determinato inadempimento a condizione risolutiva del contratto art. 1456, 1 comma, cod. civ. , e nella specie la sentenza riferisce che con la risoluzione era stato appunto sanzionato il ritardo nell’inizio o nella conclusione . III. - Solo che - ha affermato la sentenza - niente la clausola aveva stabilito quanto alla procedura da adottare ai fini della risoluzione. Dacché quella procedura dovevasi rinvenire nell’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999, che nella specie non era stato rispettato. Della necessità di rispettare tale norma nel profilo procedimentale dovevasi ritenere edotto il dirigente del comune intimante, giacché questo aveva effettuato il sopralluogo alla presenza di due testimoni, in modo da verificare - così formalmente - il mancato inizio dei lavori. E dunque il comportamento della p.a. non era stato improntato a buona fede, oltre tutto non essendovi stata anteriore contestazione in merito a ritardi nell’inizio di esecuzione dell’opera. IV. - La decisione della corte d’appello di Firenze non può essere condivisa sia perché evasiva sul piano motivazionale, nel riferimento, del tutto generico, al presunto, irrilevante stato soggettivo del dirigente del comune di omissis , sia perché comunque errata dal punto di vista giuridico quanto al presupposto delle sopra riportate affermazioni. L’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999, abrogato dall’art. 256 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, con decorrenza 1 luglio 2006 ma qui ancora astrattamente applicabile ratione temporis , disciplina la risoluzione del contratto per grave adempimento, grave irregolarità e grave ritardo . A tal riguardo stabilisce 1. Quando il direttore dei lavori accerta che comportamenti dell’appaltatore concretano grave inadempimento alle obbligazioni di contratto tale da compromettere la buona riuscita dei lavori, invia al responsabile del procedimento una relazione particolareggiata, corredata dei documenti necessari, indicando la stima dei lavori eseguiti regolarmente e che devono essere accreditati all’appaltatore. 2. Su indicazione del responsabile del procedimento il direttore dei lavori formula la contestazione degli addebiti all’appaltatore, assegnando un termine non inferiore a quindici giorni per la presentazione delle proprie controdeduzioni al responsabile del procedimento. 3. Acquisite e valutate negativamente le predette controdeduzioni, ovvero scaduto il temine senza che l’appaltatore abbia risposto, la stazione appaltante su proposta del responsabile del procedimento dispone la risoluzione del contratto. 4. Qualora, al fuori dei precedenti casi, l’esecuzione dei lavori ritardi per negligenza dell’appaltatore rispetto alle previsioni del programma, il direttore dei lavori gli assegna un termine, che, salvo i casi d’urgenza, non può essere inferiore a dieci giorni, per compiere i lavori in ritardo, e dà inoltre le prescrizioni ritenute necessarie. Il termine decorre dal giorno di ricevimento della comunicazione. 5. Scaduto il termine assegnato, il direttore dei lavori verifica, in contraddittorio con l’appaltatore, o, in sua mancanza, con la assistenza di due testimoni, gli effetti dell’intimazione impartita, e ne compila processo verbale da trasmettere al responsabile del procedimento. 6. Sulla base del processo verbale, qualora l’inadempimento permanga, la stazione appaltante, su proposta del responsabile del procedimento, delibera la risoluzione del contratto . V. - La disciplina afferente il ritardo dell’appaltatore, contenuta nei commi da quattro a sei, è funzionale a deliberare la risoluzione in base specificamente alla sequenza procedimentale ivi stabilita. Ma tale disciplina non esclude che il contratto di appalto possa essere munito di una clausola risolutiva espressa e, quindi, soggetto ai rimedi privatistici di diritto comune v. implicitamente Sez. 1- n. 3455-15 . Questa possibilità, che cioè l’appalto di opera pubblica possa contenere una clausola risolutiva espressa, razionalmente innegabile, esclude che la risoluzione del contratto debba avvenire esclusivamente in base a deliberazione della stazione appaltante resa a conclusione del meccanismo procedimentale evocato dalla corte fiorentina. Il quale semmai intende rafforzare la posizione dell’amministrazione rispetto alle comuni previsioni negoziali, consentendo che l’atto rescissorio sia rivestito anche della forma dell’atto amministrativo. In altre parole, la manifestazione di volontà della parte pubblica che si avvale della facoltà di risolvere il contratto disciplinata dall’art. 119 del d.P.R. n. 554 del 1999 e ora dall’art. 136 del d.lgs. n. 163 del 2006 , espressione di una posizione non autoritativa ma paritetica, governata dalla disciplina civilistica e per questo pacificamente determinativa della appartenenza alla giurisdizione del giudice ordinario delle controversie in tema di appalto pubblico aventi a oggetto la risoluzione del contratto con l’appaltatore v. C. stato n. 5071-08 e n. 8070-06 , concorre con quella ordinaria, e quindi lascia intatta la possibilità dell’amministrazione di avvalersi alternativamente di quest’ultima. Evidente è dunque l’errore dell’impugnata sentenza. L’errore si colloca a monte del profilo afferente l’evocato principio di buona fede, e ciò comporta il venir meno della razionalità delle conseguenze sostenute. L’atto col quale la parte si avvale della clausola risolutiva espressa ha natura negoziale e funzione di autotutela, ed è a disposizione del contraente nel cui interesse la clausola è posta. L’operatività della clausola non richiede altro che la constatazione dell’inadempimento così come in essa dedotto, essendo state le parti a collegare la risoluzione a quel determinato inadempimento. Per cui, ove si constati che l’inadempimento è proprio quello considerato nella clausola, è vano discettare di corrispondenza a buona fede del comportamento del creditore che intenda avvalersi di essa. In pratica i affinché una clausola contrattuale sia riconducibile al paradigma normativo della risolutiva espressa, occorre che la stessa individui l’obbligazione il cui inadempimento può determinare la risoluzione di diritto e che lo faccia espressamente v. per tutte Sez. 3^ n. 12285-14 ii la clausola va sì interpretata secondo buona fede, al pari del contratto art. 1366 cod. civ. , ma nel senso che le parole in essa impiegate non devono essere intese in un significato tale da violare il ragionevole affidamento iii pertanto, una volta intesa nel senso sopra detto, come cioè implicante che un determinato inadempimento è stato considerato ai fini della risoluzione espressa, e una volta appurato che la parte legittimata abbia inteso avvalersi della detta clausola, non c’è spazio per una distinta valutazione finalizzata a giustificare l’effetto risolutorio. VI. - L’impugnata sentenza si pone in contrasto con tutti gli anzidetti principi, sicché va cassata. Segue il rinvio alla medesima corte d’appello di Firenze, diversa sezione, la quale, uniformandosi a quanto appena stabilito, provvederà a riesaminare il materiale istruttorio per pronunciarsi anche sulla residua domanda di danni della stazione appaltante, accolta in primo grado e ritenuta assorbita dalla statuizione cassata. Essa provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d’appello di Firenze.