Inadempimento di una delle parti: l’altra può recedere dal contratto e trattenere la caparra

Secondo il combinato disposto del secondo e del terzo comma dell’art. 1385 c.c., di fronte all’inadempimento di una delle parti l’altra può, a sua scelta, recedere dal contratto e trattenere la caparra, ovvero chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5095, depositata il 13 marzo 2015. Il fatto. Il fallimento di una società conveniva in giudizio un’altra società per sentirla condannare alla restituzione della somma versatale a titolo di acconto sul corrispettivo della cessione, pattuita con scrittura privata, di azioni, a seguito dell’infruttuoso decorso del termine fissato in contratto per il saldo del prezzo. Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda con sentenza che veniva confermata dalla Corte d’appello di Roma. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società convenuta denunciando la violazione o falsa applicazione dell’art. 1385 c.c In caso di inadempimento di una delle parti, l’altra può fare due scelte. Il Collegio ha ritenuto tale motivo di ricorso fondato, afferma, infatti, che secondo il combinato disposto del secondo e del terzo comma dell’art. 1385 c.c., di fronte all’inadempimento di una delle parti l’altra può, a sua scelta, recedere dal contratto e trattenere la caparra, ovvero chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno. La Corte territoriale ha, dunque, male applicato tali disposizioni ritenendo che la fattispecie in esame rientrasse nella seconda ipotesi. Risoluzione stragiudiziale del contratto. La dottrina, ricorda il Collegio, ha evidenziato come il recesso previsto dall’art. 1385 c.c. non sia sussumibile nella previsione dell’art. 1373 c.c., bensì costituisce una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone l’inadempimento della controparte. Nel caso di specie, la società ricorrente, avendo comunicato alla controparte diffida ad adempiere con l’espressa precisazione che in difetto di adempimento il contratto si sarebbe risolto di diritto ed avrebbe trattenuto la somma ricevuta a titolo di caparra, non ha formulato nel giudizio alcuna domanda di risarcimento del danno, essendosi limitata a resistere alla domanda di restituzione della somma ricevuta deducendo il suo diritto alla ritenzione della caparra. La parte non inadempiente ha , quindi, scelto l’alternativa più conveniente a sé tra le due discipline della risoluzione. Per tali ragioni, la S.C. ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 2 dicembre 2014 – 13 marzo 2015, n. 5095 Presidente Ceccherini – Relatore Scaldaferri Svolgimento del processo Nel marzo 2000 il Fallimento della G.I.F.I. – Gruppo Industriale Finimpianti s.p.a., dichiarato nel luglio 1997, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la S.A.P.A.M. Società dell'Acqua Pia Antica Marcia s.p.a., per sentirla condannare alla restituzione della somma di lire 350.000.000 versatale dalla società in bonis a titolo di acconto sul corrispettivo della cessione, pattuita con scrittura privata datata 13.12.1995, delle azioni della S.I.C. s.p.a., già restituite alla società convenuta sin dal febbraio 1996 dal Notaio depositario a seguito dell'infruttuoso decorso del termine fissato in contratto per il saldo prezzo. La restituzione della somma veniva dal Fallimento richiesta, gradatamente, in ragione a della inopponibilità alla massa dei creditori del contratto di cessione, stante la mancanza di data certa b della risoluzione del contratto stesso ad opera di S.A.P.A.M. c dell'arricchimento senza causa di quest'ultima. La S.A.P.A.M., costituendosi, premesso che la scrittura contrattuale aveva data certa, rilevò che la somma in questione, ricevuta a titolo di caparra confirmatoria come da clausola contrattuale, era stata legittimamente incamerata a seguito del decorso infruttuoso del termine per il versamento del saldo prezzo, da essa assegnato alla acquirente dei titoli azionari con diffida ad adempiere comunicata con raccomandata del 9.2.1996. Con sentenza del 18 novembre 2002 il Tribunale accolse la domanda di restituzione della somma ritenendo priva di data certa, e quindi inopponibile alla massa fallimentare, la scrittura di cessione. Tale sentenza, gravata di appello dalla S.A.P.A.M. cui resisteva la Curatela fallimentare -, veniva confermata, con diversa motivazione, dalla Corte d'appello di Roma con sentenza depositata il 9 novembre 2006. La Corte distrettuale, pur ravvisando la certezza della data della scrittura contrattuale, osservava tuttavia che la S.A.P.A.M., avendo scelto di provocare, con la notifica della diffida ad adempiere, la risoluzione di diritto del contratto, non poteva poi riqualificare la propria condotta per giustificare ora per allora una non consentita ritenzione della somma ricevuta in esercizio della facoltà di autotutela costituita dal recesso a norma dell' art. 1385 cod.civ Sì che, potendo in caso di risoluzione del contratto la somma ricevuta a titolo di caparra essere trattenuta solo a titolo di garanzia per la riscossione delle somme corrispondenti ai danni che risultino eventualmente dimostrati secondo le regole ordinarie, la somma stessa doveva, in caso contrario, essere restituita in conseguenza della risoluzione del contratto in base al quale era stata consegnata. Avverso tale sentenza la S.A.P.A.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso la Curatela del Fallimento G.I.F.I Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione dell'art. 1385 cod.civ., sostenendo in sintesi che il vano decorso del termine assegnato con la diffida ad adempiere, e la conseguente risoluzione di diritto art. 1454 cod.civ. del contratto cui accedeva la caparra confirmatoria, non impediva ad essa parte adempiente di esercitare la facoltà di ritenzione della caparra ricevuta, come preannunciato nella stessa diffida, e di far valere tale suo diritto nel giudizio in cui è stata convenuta dalla controparte per la restituzione della somma stessa. 1.1. Con il secondo motivo si denuncia la omessa o insufficiente motivazione sulla volontà di essa ricorrente di recedere e ritenere la caparra. 1.2. Con il terzo motivo si censura, per violazione dell'art. 91 cod.proc.civ. e per omessa motivazione, la condanna di essa ricorrente al pagamento delle spese di lite, nonostante la reciproca soccombenza. 2. Il primo motivo è fondato. Secondo il combinato disposto del comma secondo e del comma terzo dell'art. 1385 cod.civ., di fronte all'inadempimento di una delle parti l'altra può, a sua scelta, recedere dal contratto e trattenere la caparra, ovvero chiedere la risoluzione o anche l'esecuzione del contratto e il risarcimento del danno, che in tal caso dovrà allegare e provare secondo le norme generali la Corte di merito ha falsamente applicato tali disposizioni nel ritenere che la fattispecie in esame rientri nella seconda ipotesi. Invero, non merita condivisione la ragione di fondo del ragionamento seguito dalla Corte, che cioè l'esercizio della facoltà di ritenzione della caparra, prevista dal comma secondo, sarebbe incompatibile con l'intervenuta risoluzione di diritto del contratto cui accede la caparra stessa, che dovrebbe per ciò sussumersi sotto la previsione del comma terzo. Incompatibilità, strutturale e funzionale, vi è piuttosto cfr. Cass. S.U. n. 553/09, che peraltro ha esaminato la questione sotto il distinto profilo del divieto dei nova in appello, qui non rilevante tra la proposizione della domanda di risarcimento del danno e la ritenzione della caparra confirmatoria, considerando che quest'ultima consiste in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta a consentire una immediata definizione del rapporto in caso di inadempimento, evitando l'instaurazione di un giudizio contenzioso per la liquidazione del danno causato da tale inadempimento. Se questo è il criterio di fondo da seguire nella interpretazione dell'art. 1385 cod.civ., il contrasto tra il recesso previsto dal comma secondo e la risoluzione di diritto si mostra solo apparente. In tal senso, la dottrina ha persuasivamente evidenziato, trovando puntuale conferma nella richiamata pronuncia delle Sezioni unite oltre che in altre successive cfr. Sez. 2 n. 21838/10 , come il recesso previsto da detta norma non sia sussumibile nella previsione dell'art. 1373 cod.civ., alla quale fa piuttosto riferimento il distinto istituto della caparra penitenziale art. 1386 cod.civ. , bensì costituisca nient'altro che una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone l'inadempimento della controparte, destinata a divenire operante con la semplice comunicazione alla stessa. Una forma non dissimile, cioè, dalla risoluzione di diritto del contratto, disomogenea semmai con la sola risoluzione giudiziale. L'alternativa, quindi, tra le due ipotesi regolate dai comma secondo e terzo dell'art. 1385 cod.civ. -tra le quali la parte non inadempiente può scegliere quella che ritiene più conveniente per sé non è tra recesso e risoluzione, bensì tra due discipline della risoluzione, la seconda delle quali consiste nel chiedere, indipendentemente dalla caparra, la liquidazione del danno subito nella sua effettiva entità, che evidentemente dovrà essere provata. Quest'ultima ipotesi non ricorre nella specie, giacché qui la S.A.P.A.M., avendo comunicato alla controparte diffida ad adempiere con l'espressa precisazione che in difetto di adempimento il contratto si sarebbe risolto di diritto ed avrebbe trattenuto la somma ricevuta a titolo di caparra, non ha formulato nel giudizio instaurato da controparte alcuna domanda di risarcimento del danno né di risoluzione del contratto, essendosi limitata a resistere alla domanda di restituzione della somma ricevuta deducendo il suo diritto alla ritenzione della caparra. Che, per quanto sin qui considerato, non trova ostacolo negli argomenti esposti dalla Corte di merito. 3. Per tale motivo che assorbe gli altri si impone la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte distrettuale perché in diversa composizione proceda ad un nuovo esame della controversia tenendo conto del principio di diritto qui affermato, regolando anche le spese di questo giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma.