Riconosciuto il danno da svalutazione monetaria per le obbligazioni di valuta

In tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore – del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale – deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell’adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all’indisponibilità del credito per effetto dell’inadempimento, dovendosi presumere, in base all’ id quod plerumque accidit , che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell’attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione.

Il caso . La Corte di Cassazione con la pronuncia n. 1506 del 24 gennaio 2014 si è occupata del ricorso presentato da un imprenditore commerciale avverso la sentenza di secondo grado che, nell’ambito di un rapporto di mandato, pur condannando il mandatario al pagamento di quanto dovuto in relazione al rendiconto, aveva omesso di riconoscere, in favore del creditore, il risarcimento del maggior danno consistente nella svalutazione monetaria, non ritenendo a tal fine fornita la prova delle modalità di investimento cui si sarebbe fatto ricorso se la somma di denaro fosse stata tempestivamente restituita. La sentenza in esame chiarisce dunque i presupposti della risarcibilità del maggior danno da svalutazione monetaria di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c., anche con riguardo alla particolare circostanza che il creditore sia un imprenditore commerciale. Inadempimento di obbligazione di valuta e svalutazione monetaria. Premesso che per le obbligazioni di valuta – aventi ad oggetto fin dall’origine una somma di denaro – vale il principio nominalistico, in base al quale il debitore è liberato pagando l’esatto ammontare nominale, per i casi di inadempimento soccorre l’articolo 1224 c.c., la cui ratio è quella di consentire la rivalutazione dell’obbligazione riconoscendo al creditore non soddisfatto gli interessi legali. Inoltre, il secondo comma della norma prevede altresì la risarcibilità del maggior danno” – di cui si deve fornire la prova in giudizio –, eccedente gli interessi legali, che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora. Orientamenti previgenti alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2008. Con particolare riguardo al regime probatorio connesso al maggior danno da svalutazione monetaria”, nella giurisprudenza precedente alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 si distinguevano tre orientamenti prevalenti. In particolare, secondo una prima tesi, il maggior danno da svalutazione monetaria nei debiti di valuta sarebbe dovuto essere riconosciuto in via generalizzata e presunta”, salvo la prova del maggior danno”, fornita dal creditore che dimostri che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al tasso di inflazione danno da lucro cessante , ovvero di essere stato costretto a ricorrere al credito bancario più caro danno emergente . Una seconda tesi assegnava invece un ruolo decisivo alla qualità delle parti, elaborando delle presunzioni personalizzate per categorie di creditori – in particolare quella imprenditoriale –, in relazione alla forma di impiego del denaro. Infine, l’ultima impostazione, riteneva che oltre alla dimostrazione della categoria creditoria” di appartenenza, la parte fosse altresì gravata da un onere di specifica allegazione del verosimile impiego della somma cui si sarebbe ricorsi nel caso di corretto adempimento dell’obbligazione. La tesi delle Sezioni Unite del 2008. Le Sezioni Unite furono chiamate a pronunciarsi in ordine alla sufficienza o meno della qualità di imprenditore commerciale al fine di ritenere presunto un impiego antinflattivo della somma dovuta. Con la pronuncia n. 19499/2008 stabilirono, ai fini della riconoscibilità di un maggior danno, un regime di risarcibilità generalizzata – cioè senza distinzione tra categorie creditorie – e presunta, in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Quella posta dalle Sezioni Unite è una vera e propria presunzione legale, in favore del creditore, operante fino al limite della differenza fra interesse legale e redditività media dei titoli del debito pubblico, apprezzata a decorrere dalla data d’insorgenza della mora, ferma restando la facoltà del debitore di dimostrare che il creditore non abbia subito un maggior danno, oppure che lo abbia subito in misura inferiore alla differenza tra tassi. Inoltre, il creditore sarà comunque ammesso a provare di aver subito un maggior danno, consistente in una somma superiore a quella risultante dall’applicazione del suesposto criterio, ma questa volta lo stesso dovrà fornirne prova in giudizio secondo i principi generali della prova. E, proprio in relazione a tale onere del creditore, le Sezioni Unite dettano regole specifiche per l’imprenditore commerciale che sarà quindi tenuto a dimostrare o di aver fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi, ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite. Rafforzamento della posizione del creditore imprenditore-commerciale? La pronuncia n. 1506/2014, facendo applicazione del principio delle Sezioni Unite, accoglie il motivo di ricorso, riconoscendo come illegittima la decisione del giudice di secondo grado di escludere la risarcibilità del maggior danno senza avere preliminarmente verificato se il tasso legale di interessi attivo fosse o meno inferiore al rendiconto medio dei titoli di Stato nel periodo di interesse. Ancora, la Suprema Corte, a sostegno delle proprie conclusioni, richiama un orientamento della giurisprudenza di legittimità pronuncia n. 22096/2013 nel quale riemerge un’attenzione particolare alla figura del creditore del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale”, forse con lo specifico intento di mitigare il rigore probatorio scaturente dalle regole dettate dalle Sezioni Unite per questa categoria creditoria. Ed infatti, la qualifica di imprenditore commerciale viene ritenuta idonea a fondare, in base al principio id quod plerumque accidit , un’inversione dell’onere della prova, con la conseguenza che il creditore – in deroga ai principi ordinari della materia – non sarà tenuto a fornire la prova specifica del danno concreto causalmente ricollegabile alla svalutazione monetaria. Con ciò sembra aggravarsi la posizione del debitore, nel senso che lo stesso sarà certamente ammesso a provare che il creditore non abbia subito un danno in conseguenza dell’inadempimento, con la precisazione che l’impostazione della Suprema Corte sottintende il giudizio secondo cui ciò che il debitore è chiamato a dimostrare sia una situazione ritenuta opposta alla normalità delle cose, che risulta invece essere l’impiego antinflattivo del denaro da parte dell’imprenditore.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 10 ottobre 2013 - 24 gennaio 2014, n. 1506 Presidente Carnevale – Relatore Acierno Svolgimento del processo Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, sulla domanda di rendiconto, nonché di accertamento della responsabilità del mandatario e di condanna al pagamento di quanto dovuto, proposta da E.L. nei confronti di F.D. , condannava quest'ultimo al versamento in favore degli eredi dell'originario attore della somma di 82.075,56 Euro oltre agli interessi legali a far data dal 7 maggio 1991 fino al saldo effettivo. A sostegno della pronuncia la Corte aveva affermato che - la domanda proposta in primo grado era diretta sia ad accertare che non era stato reso il conto sia ad ottenere la condanna al pagamento delle somme dovute in relazione alla gestione di affari comuni da parte del F. - l'azione di rendiconto nei confronti del mandatario sottende anche un giudizio sulla responsabilità del mandatario medesimo - la ratio dell'obbligo di rendiconto deve essere individuata nel fatto che chiunque svolga un'attività nell'interesse altrui è tenuto a mettere al corrente l'interessato medesimo, in virtù del principio di buona fede, degli atti posti in essere dai quali scaturiscono partite di dare ed avere - era risultato per tabulas che F. ed E. erano soci in affari che il F. ne curava la parte che si svolgeva in e l'E. in che le somme pervenute dovevano essere ripartite a metà - il F. non aveva reso il conto essendosi limitato ad evidenziare il residuo attivo su di un conto comune, senza adempiere all'obbligo posto a suo carico di rimettere al mandante tutto quello che aveva ricevuto a causa del mandato ed a giustificare il suo operato secondo le norme di buona amministrazione la mancata presentazione del conto determinava un'inversione dell'onere della prova a favore del committente - alla luce della consulenza tecnica espletata in secondo grado era emerso il saldo attivo in favore dell'E. quale liquidato in sentenza - non poteva riconoscersi la svalutazione perché non provato che il creditore avrebbe potuto proficuamente investire la somma in oggetto dal momento che viveva in Etiopia con conseguente indeterminatezza dei rendimenti degli investimenti in tale paese peraltro per comune volontà dei soci gli incassi rimanevano sui conti correnti bancari e non erano destinati ad investimenti. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il F. affidandosi a 5 motivi. Hanno resistito con controricorso e ricorso incidentale gli eredi E. . Sono state depositate memorie da entrambe le parti. Nel primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione degli artt. 112 e 343 cod. proc. civ. per non avere la Corte d'Appello rilevato il vizio di extrapetizione in cui era caduta la sentenza di primo grado avendo deciso oltre che sulla sussistenza dell'obbligo di rendiconto e sul suo assolvimento adempiuto dal ricorrente anche sul risarcimento dei danni subiti dal richiedente, nonostante l'intervenuta revoca della pronuncia di primo grado per omessa motivazione che avrebbe imposto la proposizione di un'apposita impugnazione incidentale al fine di estendere il devolutum. Il motivo è infondato dal momento che fin dal primo grado di giudizio, come espressamente affermato pag. 4 nella sentenza impugnata, erano state formulate entrambe le domande sia quella tesa ad accertare che alcun rendiconto era stato reso sia ad ottenere la condanna alle somme dovute in relazione agli affari comuni gestiti dal F. . Nel riesame complessivo del merito dovuto alla nullità della pronuncia di primo grado, di conseguenza, la Corte ha correttamente preso in esame tutte le domande formulate dall'appellato in primo grado ed espressamente richiamate in appello. Peraltro, come evidenziato correttamente dalla Corte d'Appello, l'azione di rendiconto nei confronti del mandatario comporta anche un giudizio sulla responsabilità connessa allo svolgimento concreto delle attività inerenti al mandato, nel quale il mandatario deve fornire la prova non soltanto delle somme incassate e dell'entità e causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto sulle modalità di esecuzione dell'incarico utili per la valutazione dell'operato del mandatario stesso, in relazione ai fini perseguiti, ai risultati raggiunti ed ai criteri di buona amministrazione e di condotta prescritti dagli artt. 1710 - 1176 cod. civ. Cass. 7592 del 1994 2428 del 2004 25904 del 2009 . Nel secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per avere la Corte d'Appello determinato la misura del risarcimento dovuto senza spiegare le ragioni per cui erano state del tutto disattese le conclusioni della consulenza tecnica svolta in primo grado la quale, sulla base delle risultanze dei soli conti correnti cointestati ad entrambe le parti, aveva determinato il saldo in misura nettamente inferiore a quello giudizialmente determinato. La censura deve essere qualificata come inammissibile in quanto rivolta a richiedere una valutazione delle risultanze probatorie e delle conclusioni delle indagini tecniche eseguite sia in primo che in secondo grado sostitutiva di quella contenuta nella sentenza impugnata. Al riguardo deve osservarsi che nella sentenza impugnata, con giudizio incensurabile e sostenuto da adeguata ed esauriente motivazione, si evidenzia che il saldo finale non poteva stabilirsi soltanto alla stregua dei conti cointestati ma doveva tenere conto di altri conti relativi alla medesima attività gestoria svolta dal F. ma non riversata nei conti comuni. A tale fine era stata disposta ulteriore indagine peritale in secondo grado. Peraltro il motivo difetta anche di specificità essendo insufficiente la mera riproduzione delle conclusioni della consulenza di primo grado, omettendo tutti gli altri riscontri ed in particolare le risultanze degli altri conti contenuti nell'indagine tecnica svolta in secondo grado. Nel terzo motivo viene dedotto il vizio di motivazione in ordine all'inclusione nella determinazione finale dell'importo dovuto all'E. anche del saldo attivo sul Banco di Roma di proprietà esclusiva dei coniugi F. e Mo. peraltro erroneamente conteggiato in eccesso, come riscontrabile dalla CTU espletata. Il motivo è inammissibile sia nella parte relativa all'illegittima inclusione del saldo del conto in questione, in quanto diretto ad una diversa ed alternativa valutazione delle risultanze probatorie ampiamente esaminate e valutate nella sentenza impugnata, sia nella parte relativa all'errore di calcolo, per difetto di specificità, essendo menzionati una serie d'importi senza alcuna indicazione delle fonti documentali di provenienza né delle modalità di reperimento dei medesimi ove prodotti. Nel quarto motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine al conteggio del saldo attivo del Banco di Santo Spirito nel motivo precedente la contestazione aveva riguardato il saldo del Banco di Roma anch'esso relativo ai conti correnti non cointestati ad entrambe le parti. Il motivo difetta radicalmente di specificità dal momento che non vi è alcuna indicazione delle fonti probatorie e loro reperimento al fine di verificare il dedotto errore di calcolo. Nel quinto motivo viene dedotto analogo vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento di un credito in favore del fratello del ricorrente per aver svolto attività amministrativa in favore delle parti. Il motivo è inammissibile in quanto, senza indicare o riprodurre le fonti di prova, richiede un riesame dei fatti che hanno costituito il nucleo incensurabile della decisione del giudice di merito. Nel sesto motivo viene dedotto il vizio di motivazione sempre in ordine alla quantificazione finale derivante dai vari saldi. Anche quest'ultimo motivo è radicalmente inammissibile in quanto si richiede questa volta una rivalutazione complessiva delle risultanze probatorie sull'esclusiva base della consulenza tecnica d'ufficio svolta in primo grado al fine di determinare un saldo diverso finale. Nell'unico motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 e 2697 cod. civ. nonché dell'art. 2729 cod. civ. per non aver riconosciuto il maggior danno nella misura della svalutazione monetaria o secondo i criteri presuntivi desumibile dalla sentenza delle S.U. n. 19499 del 2008, non essendo contestabile la qualità d'imprenditore commerciale dell'E. . Il motivo viene prospettato anche sotto il profilo del vizio di motivazione. Il motivo è fondato. La Corte d'Appello, dopo aver esattamente qualificato il credito come di valuta, ha escluso il riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 cod. civ. non ritenendo fornita la prova delle modalità d'investimento dell'importo. Peraltro gli incassi, per comune volontà delle parti, dovevano rimanere sui conti bancari e non essere finalizzati ad investimenti. Così decidendo la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi consolidati elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 cod. civ. nei debiti di valuta, ed in particolare sull'utilizzazione del regime probatorio delle presunzioni semplici. Pur negandone l'automatismo, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la naturale fruttuosità del denaro affermando che Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, secondo comma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc. , fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale”. S.U. 19499 del 2008 . L'orientamento indicato, ampiamente e costantemente condiviso negli anni successivi 4402, 17813, 20753 del 2009 12609 del 2010 è stato di recente ribadito proprio con riferimento all'imprenditore commerciale nella pronuncia n. 22096 del 2013 alla luce della quale In tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore - del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale - deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell'adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, dovendosi presumere, in base all'id quod plerumque accidit, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell'attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione”. Nella specie, di conseguenza, non poteva essere radicalmente escluso il riconoscimento del maggior danno da ritardato adempimento di obbligazione pecuniaria ex art. 1224 cod. civ., senza aver verificato, preliminarmente ed in mancanza di allegazioni specifiche sul presumibile impiego del denaro, se il tasso legale degli interessi attivi, fosse inferiore al rendimento medio dei titoli di stato, alla data del 7 maggio 1991, tenuto conto della incontestata qualità d'imprenditore commerciale dell'E. e della verosimile utilizzazione in senso antinflattivo del denaro della categoria di appartenenza del creditore. In conclusione deve essere respinto il ricorso principale ed accolto quello incidentale, con conseguente cassazione con rinvio della sentenza impugnata. Il giudice del rinvio dovrà attenersi al principio di diritto sopra indicato. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione anche in ordine alle spese del presente procedimento.