""Ti ridò l'acconto solo se rivendo l'immobile a terzi a un certo prezzo"": è condizione, non termine

Risolto il preliminare, la restituzione dell'acconto è subordinata alla vendita a terzi del bene a un determinato prezzo si tratta di una condizione.

Se in sede di risoluzione consensuale di un preliminare di vendita, le parti si accordano per subordinare la restituzione dell’acconto già versato ad una successiva vendita del bene a terzi, a un prezzo determinato, si è in presenza non di termine, bensì di una condizione potestativa mista. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24325 del 18 novembre. Il caso. I contraenti di un preliminare di vendita di un immobile si accordavano, con scrittura privata, per risolvere il contratto, subordinando la restituzione dell’acconto, versato dalla promissaria acquirente, a una vendita dell’immobile a un prezzo non inferiore a circa 200.000 euro. La vendita avveniva, invece, a circa 170.000 euro la promissaria acquirente otteneva decreto ingiuntivo per la restituzione dell’acconto, ma il venditore si opponeva e il Tribunale revocava il decreto, sulla base del mancato avveramento della condizione sospensiva. In appello la decisione veniva riformata la Corte territoriale accoglieva l’avversa interpretazione della promissaria acquirente, secondo cui la clausola contrattuale aveva natura di termine e non di condizione. Il venditore proponeva, infine, ricorso per cassazione. Condizione o termine? In ogni caso l’acconto va reso. La sentenza impugnata riconosce alla promissaria acquirente il diritto alla restituzione dell’acconto versato contestualmente alla stipula del preliminare poi risolto. Ciò sulla base di una diversa interpretazione, rispetto al I grado, della clausola come termine e non come condizione. Ma, poiché dopo tale qualificazione, i giudici hanno compiutamente esaminato la fattispecie anche dal diverso punto di vista dell’elemento accidentale di cui alla condizione, la pronuncia appare sorretta da una duplice ratio decidendi ed è, dunque, esente da censure pur non condividendo l’interpretazione della clausola come termine, infatti, la S.C. conferma la condanna del venditore a restituire l’acconto. Ecco perché. Si tratta di condizione la vendita a un determinato prezzo è evento futuro e incerto. Da un’attenta analisi della clausola contenuta nella scrittura privata emerge che l’intendimento delle parti è stato quello di subordinare la restituzione dell’acconto a un evento futuro e incerto, qual è appunto il buon esito di una successiva vendita dell’immobile, a un prezzo vantaggioso per il venditore. Non può parlarsi di termine non c’è certezza che l’evento si verifichi. Ed è condizione potestativa mista, il cui avverarsi dipende anche dalla condotta del contraente. Il Collegio prosegue osservando che si tratta di condizione potestativa mista, in quanto il suo avveramento dipende in parte da un terzo il possibile nuovo acquirente , e in parte dall’iniziativa del venditore, che in qualità di contraente poteva incidere sulla determinazione del prezzo, rifiutando la conclusione di affari al di sotto dell’importo previsto nella scrittura e tenersi, così, l’acconto. Si considera avverata la clausola saltata per causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario. Con riferimento a quella parte di condizione dipendente dall’iniziativa del venditore, trova applicazione l’art. 1359 c.c., in base al quale se la condizione non si è avverata per causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario, essa si considera avverata ope legis . Si tratta, precisa la S.C., di una fictio di avveramento che intende tutelare uno dei contraenti da possibili comportamenti dolosi o colposi del soggetto contro interessato. Ebbene, nel caso di specie il venditore aveva tutto l’interesse ad accordarsi con un terzo per un prezzo di poco inferiore a quello concordato con la promissaria acquirente come soglia di avveramento della condizione sospensiva, per potersi, così, tenere l’acconto ricevuto. Comportamento illegittimo che giustifica, secondo la Corte territoriale, con decisione confermata dalla Cassazione, la restituzione dell’acconto alla promissaria acquirente.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 28 settembre – 18 novembre 2011, n. 24325 Presidente Triola – Relatore Falaschi Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 13 settembre 2000 C.L. evocava, dinnanzi al Tribunale di Verbania, M.G. proponendo opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso in data 26.7.2000, notificatogli il 16.8.2000, con il quale gli veniva intimato il pagamento della somma di L. 40.000.000, che si assumeva dovuta alla opposta-ricorrente in forza di scrittura sottoscritta l’11.2.1999 con la quale era stato consensualmente risolto il contratto preliminare di compravendita di immobile da edificare stipulato fra le medesime parti il 19.5.1998, deducendo il mancato avveramento della condizione cui era stata sospensivamente subordinata la restituzione dell'acconto versato, ossia la vendita dell'immobile al prezzo complessivo di L. 400.000.000, mentre la cessione era avvenuta il 21.12.1999 al prezzo di L. 340.000.000 tanto premesso, chiedeva revocarsi il decreto ingiuntivo per insussistenza del credito dedotto in via monitoria. Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza della opposta, il Tribunale adito accoglieva l'opposizione e per l'effetto revocava il decreto ingiuntivo. In virtù di rituale appello interposto dalla M. , con il quale censurava la interpretazione fatta dal giudice di prime cure dell'occorso giacché la clausola prevista aveva natura di termine e non già di condizione, la Corte di appello di Torino, nella resistenza dell'appellato, accoglieva l'appello e per l'effetto - in riforma della sentenza di primo grado - rigettava l'opposizione, dichiarando l'appellato tenuto alla restituzione della somma di L. 40.000.000. A sostegno della decisione la corte territoriale evidenziava che dal tenore letterale della clausola, cui veniva rapportato il pagamento ad un dato cronologico e non ipotetico, nel momento in cui verrà rivenduta la stessa villetta al prezzo di L. 400.000.000, l'impresa restituirà alla sig.ra M.G. l'importo di L. 40.000.000 entro sei mesi , era significativo della volontà delle parti di individuare semplicemente un termine entro il quale doveva avvenire l'adempimento da parte del C. . Aggiungeva che ove la clausola in questione fosse stata considerata come previsione di una condizione, questa sarebbe stata da ritenere mista e perciò soggetta al disposto dell'art. 1359 c.c., per cui non essendosi verificata la condizione per causa imputabile al C. la condizione avrebbe dovuto ritenersi come avverata. Avverso l'indicata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione il C. , che risulta articolato su cinque motivi, al quale non ha resistito la intimata M., che non si è costituita. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1353 e 1183 c.c., dovendo essere la clausola esaminata alla luce della disciplina di cui all'art. 1353 c.c. e non già all'art. 1183 c.c., non potendo mai essere scavalcato il metodo letterale. Con il secondo motivo viene denunciata l'insufficiente e contraddittoria motivazione circa la individuazione e la delineazione, in fatto, dell'evento futuro ed incerto, costituente il punto decisivo della controversia. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la insufficiente ed illogica motivazione relativamente al concetto di certezza quale dato caratteristico della condicio facti di cui all'art. 1353 c.c Con il quarto motivo viene denunciata la insufficiente, irrazionale e contraddittoria motivazione tanto con riguardo alla interpretazione letterale e logica art. 1362 c.c. quanto a quella teleologia art. 1363 c.c. della convenzione stipulata l'11.2.1999. Con il quinto ed ultimo motivo viene lamentata la erronea interpretazione e falsa applicazione dell'art. 1359 c.c I cinque motivi devono formare oggetto di esame congiunto, perché sia il percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata sia quello adottato nel ricorso per cassazione li hanno resi strettamente connessi. Infatti la corte distrettuale, dopo avere qualificato fa clausola contenuta nella scrittura privata dell'11.2.1999 come termine, ha poi compiutamente esaminato la fattispecie anche sotto l'aspetto della previsione del diverso elemento accidentale, della condizione. In tal guisa la pronuncia della corte territoriale viene a poggiare su una duplice ratio decidendi, con la conseguenza che, se non si rivelano fondate le censure mosse ad entrambe, la sentenza deve trovare conferma ancorché taluni rilievi ai profili attinenti alla interpretazione del rapporto giuridico dedotto in termini di previsione di un termine meritino di essere condivisi, per quanto di seguito si dirà. Ne deriva la connessione logica sopra rimarcata, con conseguente necessità di esaminare congiuntamente le censure mosse con il ricorso di cassazione alla sentenza impugnata. Ciò posto, si deve osservare che il C. e la M. , con accordo sottoscritto l'11.2.1999, nel risolvere consensualmente il contratto preliminare di compravendita di immobile da edificare, dagli stessi stipulato il 19.5.1998, hanno subordinato l'obbligo di restituzione di L. 40 milioni, in precedenza versati dalla promissaria acquirente, entro sei mesi dal momento in cui verrà rivenuta la stessa villetta al prezzo di L. 400 milioni . In questo quadro non può condividersi in linea di principio la tesi esposta nella sentenza impugnata, secondo cui le parti avrebbero fatto riferimento ad un evento futuro, ma certo, per individuare la data per la restituzione della somma versata dalla M. in acconto del prezzo di acquisto di immobile, in quanto l'avverarsi di una situazione di fatto assunta dalle parti quale presupposto da cui fare discendere il sorgere dell'obbligo restitutorio è riconducibile al diverso elemento accidentale quale è la condizione. Infatti l'intendimento delle parti, quale emerge dalla scrittura privata, con l'introduzione di un elemento accidentale appare essere quello di un avvenimento futuro ed incerto cui subordinare gli effetti restitutori della risoluzione consensuale del preliminare, perché doveva rispondere oltre che all'esigenza di conclusione di un nuovo contratto di vendita dell'immobile con terzi, anche a quella di percepire un prezzo non inferiore a L. 400.000.000. Ciò conduce ad escludere il carattere della certezza non solo sul quando, ma anche sull'an. Da questa conclusione però la corte distrettuale non ha tratto le uniche conseguenze nel merito della fattispecie ed anzi, come già notato, ha fatto luogo ad un approfondito esame della fattispecie anche alla luce della diversa interpretazione della clausola, svolgendo un corretto iter motivazionale che si sottrae alle censure del ricorrente e rende il dispositivo conforme a diritto, onde questa corte, nell'esercizio del potere attribuibile dall'art. 384 c.p.c., comma 2, deve limitarsi a correggere la motivazione nei sensi suddetti per quanto riguarda la qualificazione del contenuto accidentale della scrittura privata dell'11.2.1999, in quanto il detto errore si risolve in una inesatta motivazione in diritto, emendabile ai sensi della norma citata. Passando all'esame del giudizio espresso sulla fattispecie concreta dalla sentenza impugnata nell'ottica che le parti avessero voluto introdurre una condizione sospensiva, si osserva che questa Corte nell'esaminare casi per più versi analoghi alla fattispecie in esame v. Cass. 8 marzo 2010 n. 5492 ha rilevato che la clausola in questione, che subordina il pagamento alla rivendita del bene ad un prezzo non inferiore a L. 400 milioni, integra certamente una condizione potestativa mista, dipendendo il suo avveramento in parte da un terzo, vale a dire dal nuovo acquirente che doveva sottoscrivere un preliminare, ed in parte dall'iniziativa del ricorrente che in qualità di contraente poteva incidere sulla determinazione del prezzo, rifiutando la conclusione di affari al di sotto dell'importo previsto nella scrittura. Orbene, relativamente a quella parte dipendente dall'iniziativa del C. , trova certamente applicazione il richiamato art. 1359 c.c. come del resto anche l'art. 1358 c.c. in base al quale la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa . Trattasi in altri termini di una fictio di avveramento a tutela di possibili comportamenti dolosi o colposi posti in essere dal soggetto controinteressato. In generale, la fase della pendenza della condizione determina effetti prodromici stabiliti ex iure positivo e concretantesi, in capo all'acquirente - sub condizione - di un diritto reale ovvero di credito, in un'aspettativa giuridicamente tutelata. A tutela di tale situazione giuridica soggettiva attiva è prevista la fattispecie dell'art. 1359 c.c., che prevede un caso di fittizio avveramento della condizione ope legis, con conseguente attuazione degli effetti c.d. finali , la quale ipotizza tre elementi costitutivi il vantaggio che una parte trae dal mancato avveramento della condizione l'operosità della parte stessa in modo da provocare tale mancamento il danno che la controparte soffre dal mancamento così provocato. La sentenza impugnata, attraverso un'indagine di fatto non sindacabile in sede di legittimità', ha accertato che il C. , il quale ha scelto di concludere l'accordo con il terzo ad un prezzo inferiore rispetto a quello concordato con la M. , ha dimostrato di avere un interesse esclusivo alla clausola de qua, che gli consentiva di lucrare sull'acconto già ricevuto dalla precedente acquirente, mettendosi al riparo dal rischio di una mancata vendita. Del resto il giudice di secondo grado, valutando che la piena operatività della clausola era stata prevista e voluta proprio nell'interesse del C. , implicitamente da atto anche che la condizione sospensiva del contratto di mutuo recesso dal preliminare corrispondeva, di riflesso, all'interesse essenziale ed esclusivo del venditore. Bisogna, inoltre, aggiungere sul punto - in conformità a quanto questa Corte di legittimità ha già posto in evidenza nella motivazione di Cass. n. 2168/98 - che l'art. 1359 c.c., allorché fa riferimento alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento della condizione, non intende riferirsi soltanto a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi, in concreto, ha dimostrato con una successiva condotta di non avere più interesse al verificarsi della condizione ponendo in essere atti tali da contribuire a fare acquistare al contratto un elemento modificativo dell'iter attuativo della sua efficacia. Infine è da dire che rientra nel compito istituzionale del giudice del merito stabilire quale sia la parte che in concreto aveva interesse contrario all'avveramento della condizione e valutare, quindi, se nel comportamento da essa tenuto in pendenza della condizione sia ravvisatale la presunzione di legge di avvenuta realizzazione dell'evento, cui le parti hanno subordinato gli effetti del negozio, dedotto come condizione. In conclusione, il ricorso va integralmente rigettato. Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro. 2.200,00, di cui Euro. 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.