È lecita la trasformazione di un manufatto da accessorio a residenziale, avendo provveduto alla sua sopraelevazione ed adibendolo ad abitazione?

Nel caso in cui una norma regolamentare locale consenta di porre determinate costruzioni a distanza inferiore rispetto a quella prescritta per le restanti costruzioni, purché abbiano una specifica destinazione, il successivo mutamento di destinazione del manufatto, ancorché non accompagnato da modifiche strutturali o aumenti di volumetria, impone di verificare la perdurante legittimità dell'opera proprio alla luce della diversa destinazione assunta in concreto.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 11845/20 depositata il 18 giugno. Il caso. In primo grado, il Tribunale adito aveva accolto in parte la domanda degli attori finalizzata ad ottenere la demolizione della costruzione posta in essere a seguito di mutamento di destinazione dell'originario corpo di fabbrica, trasformato da garage ad abitazione, con la sopraelevazione di un tetto a due falde, in violazione delle distanze sia dal confine che dai fabbricati. Nel giudizio di secondo grado, la Corte d’Appello rigettava la domanda attorea in quanto, in origine, era stato realizzato un garage che risultava conforme alle prescrizioni urbanistiche dell'epoca che consentivano l'edificazione di tale manufatto senza il rispetto della distanza di 5 metri, sempre che non fosse stata superata l'altezza di tre metri. Dunque, una volta legittimamente realizzata la costruzione, il successivo mutamento della destinazione non poteva incidere sulla legittimità del manufatto, atteso che nella specie non era stata modificata la sua struttura. Avverso la pronuncia, gli originari attori hanno proposto ricorso in Cassazione eccependo che i giudici di appello avevano errato nel ritenere che una volta legittimamente realizzata la costruzione, ricorrendo le condizioni che per essa consentivano la deroga alle distanze minime, la successiva modificazione, relativa alla sola destinazione, non fosse idonea a rendere illegittima la stessa costruzione, venendo meno il requisito che invece ne consentiva la legittima edificazione. In particolare, la Corte di merito aveva errato nel reputare che la nuova destinazione potesse integrare al più una violazione amministrativa senza influire nei rapporti interprivatistici in materia di distanze. Aspetti critici. Secondo gli ermellini, il profilo di novità che connota la vicenda era che la legittimità della costruzione, anche ai fini del rispetto della norma di rilievo interprivatistico in materia di distanze, si fondava sulla base delle medesime prescrizioni regolamentari locali invocate dal convenuto. Difatti, la norma locale di cui si chiedeva l'applicazione era rimasta immutata. Dunque, nella vicenda, non si trattava quindi di invocare uno ius superveniens più sfavorevole, ma di prendere atto che la valutazione della legittimità della costruzione presupponeva anche il concreto riscontro della destinazione, che oggi, anche a seguito di nuova concessione, è quella residenziale. Proprio lo stesso mutamento di destinazione ha imposto di dover rivalutare la legittimità dell'opera. Differenze tra ristrutturazione e ricostruzione. Preliminarmente, la S.C. Cass. S.U. n. 21578/2011 ha precisato che nell'ambito delle opere edilizie la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura. Invece è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione , come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima Cass. n. 15041/2018 . La sopraelevazione. Detto ciò, secondo gli ermellini, il riscontro nella fattispecie del difetto di aumento di volumetria escluderebbe una nuova costruzione, come pure irrilevante è l'argomento relativo alla maggiore altezza del manufatto in seguito alla nuova foggia del tetto, alla luce dei principi per i quali, in materia di distanze legali tra edifici, la modificazione del tetto di un fabbricato integra sopraelevazione e, come tale, una nuova costruzione soltanto se essa produce un aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti, così incidendo sulla struttura e sul modo di essere della copertura Cass. n. 27086/2006 . In conclusione , a differenza di quanto sostenuto dai giudici di appello, il mutamento della destinazione non si risolve in una mera violazione rilevante unicamente nei rapporti con la PA, ma si riverbera, proprio per l'espressa scelta a suo tempo fatta dalla disciplina locale, destinata per effetto del richiamo di cui all'art. 873 c.c., ad assumere rilevanza anche nei rapporti tra privati, anche nella possibilità di dover valutare la permanente legittimità dell'opera secondo quegli stessi parametri, dimensionali e di finalità di uso, che avevano permesso di derogare o meno alla più severa disciplina in materia di distanze. Pertanto, in accoglimento di questo motivo, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 12 settembre 2019 18 giugno 2020, n. 11845 Presidente Petitti Relatore Criscuolo Ragioni in fatto della decisione Il Tribunale di Brescia - sezione distaccata di Breno - con la sentenza del 9/12/2009 accoglieva in parte la domanda proposta da S.G., R.R., F.A., R.A.A., St.An. e T.G. nei confronti di S.E., finalizzata ad ottenere la demolizione della costruzione posta in essere dal secondo, a seguito di mutamento di destinazione dell'originario corpo di fabbrica, trasformato da garage ad abitazione, con la sopraelevazione di un tetto a due falde, in violazione delle distanze sia dal confine che dai fabbricati, con la chiusura altresì delle vedute illegittimamente aperte. La decisione di primo grado, infatti, disponeva la demolizione e l'arretramento della sola porzione oggetto di sopraelevazione, disponendo altresì la chiusura della finestra aperta sulla parete nord, dichiarando che lo S. era privo di legittimazione quanto alla proposta domanda riconvenzionale di demolizione di quanto realizzato dagli attori sul loro fondo, mediante la chiusura di un portico preesistente. La Corte d'Appello di Brescia, nel pronunziare sul gravame proposto dal convenuto nonchè sull'appello incidentale degli attori, con la sentenza n. 296 del 5 marzo 2015 rigettava la domanda attorea di demolizione e arretramento del fabbricato del convenuto nella porzione sopraelevata, nonchè la domanda volta ad ottenere la chiusura della finestra, disattendeva l'appello incidentale e confermava il rigetto della domanda riconvenzionale dello S In primo luogo i giudici di appello esaminavano la richiesta di cui all'appello incidentale di rimozione anche della costruzione originaria, e non della sola sopraelevazione. Rilevavano che in origine era stato realizzato un garage che risultava conforme alle prescrizioni urbanistiche dell'epoca che consentivano l'edificazione di tale manufatto senza il rispetto della distanza di 5 metri, sempre che non fosse stata superata l'altezza di tre metri. Tuttavia gli appellanti avevano dedotto che, a fronte dell'originaria legittimità dell'opera, non poteva non tenersi conto del mutamento di destinazione che successivamente aveva subito, essendo stato trasformato da magazzino in una vera e propria abitazione, per la quale vige l'obbligo di rispetto della detta distanza. Secondo la sentenza di appello tale deduzione non aveva conforto. Infatti, una volta legittimamente realizzata la costruzione, il successivo mutamento della destinazione non poteva incidere sulla legittimità del manufatto, atteso che nella specie non era stata modificata la sua struttura. Il mutamento di destinazione potrebbe al più rilevare nei rapporti con la PA che peraltro aveva assentito la modificazione , ma non al fine della verifica del rispetto delle distanze legali. Anche la dedotta sopraelevazione non poteva avere rilevanza ai fini dell'accoglimento della domanda attorea, in quanto dalla CTU era emerso che il convenuto aveva solo predisposto un tetto a due falde sopra l'originaria copertura orizzontale, determinando un innalzamento della quota del bene di 70 cm. al colmo del tetto, ma senza che il sottotetto fosse stato reso praticabile, il che impediva di poter ritenere che l'opera potesse essere qualificata come sopraelevazione, come ritenuto anche dalla giurisprudenza che reputa che si abbia sopraelevazione, in caso di modifica della copertura di un edificio, solo se essa produca un aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti, aumenti che nella specie non si erano verificati. Quanto alla finestra posta a metri 1,43 dal confine in luogo dei prescritti 1,50 m., la decisione proseguiva rilevando che la domanda aveva carattere emulativo, atteso che la differenza era di appena 7 cm., occorrendo comunque osservare che la riduzione della distanza rispetto a quella preesistente era dovuta all'applicazione sulla facciata di uno strato di rivestimento termo-coibente, che non può incidere sul calcolo delle distanze che va fatto con riferimento al piano di superficie dell'apertura verso l'esterno e non al muro in cui questa è praticata, piano di superficie nella specie arretrato rispetto al limite esterno del materiale termo-coibente posto a protezione del muro, che in origine era effettivamente posto ad un metro e mezzo dal confine. Del pari doveva essere rigettata la domanda riconvenzionale del convenuto, in quanto gli attori si erano limitati a tamponare un portico preesistente, che però già da prima costituiva una costruzione, realizzata nel rispetto della normativa previgente, sicchè alcuna influenza poteva avere la successiva chiusura. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso R.R. e R.A.A., anche quali eredi di S.G. e F.A., sulla base di due motivi. S.E. ha resistito con controricorso. Con ordinanza interlocutoria del 22 febbraio 2019 è stata ordinata l'integrazione del contraddittorio nei confronti di St.An. e T.G., essendosi provveduto a tale adempimento. Ragioni in diritto della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione degli artt. 873 e ss. c.c. e 905 c.c Si rileva che nel caso di specie l'art. 35 del R.E. del Comune di Breno, anche all'epoca di originaria edificazione del manufatto del convenuto, prevedeva l'edificazione a distanza inferiore a metri 5 dal confine ed a metri 10 dagli edifici, solo per le costruzioni non più alte di metri tre ed adibite a funzioni pertinenziali ed accessorie, come autorimesse private, ricoveri per animali di giardino, serre di servizio a giardini privati, essendone consentita anche l'edificazione a confine. Nella fattispecie il convenuto ha trasformato l'utilizzo del manufatto da accessorio a residenziale, avendo provveduto alla sua sopraelevazione ed adibendolo ad abitazione. I giudici di appello hanno errato nel ritenere che una volta legittimamente realizzata la costruzione, ricorrendo le condizioni che per essa consentivano la deroga alle distanze minime, la successiva modificazione, relativa alla sola destinazione, non sia idonea a rendere illegittima la stessa costruzione, venendo meno il requisito che invece ne consentiva la legittima edificazione. Ha errato altresì la Corte di merito nel reputare che la nuova destinazione possa integrare al più una violazione amministrativa senza influire nei rapporti interprivatistici in materia di distanze. In effetti, alla luce del mutamento di destinazione, non è più applicabile il menzionato art. 35, dovendosi reputare il manufatto, proprio per effetto del cambiamento di destinazione, quale nuova costruzione, assoggettata alla più rigorosa disciplina in tema di distanze. Si lamenta anche l'erroneità della soluzione per quanto attiene alla veduta, essendo, infatti, emerso che la finestra posta sulla facciata verso nord è ad una distanza di m. 1,43 dal confine, non potendosi accedere alla soluzione sostenuta in sentenza secondo cui ai fini del calcolo della distanza occorrerebbe escludere il maggior spessore della parete frutto dell'applicazione di un rivestimento termocoibente. Infine, deve anche escludersi che la domanda abbia carattere emulativo, non potendosi reputare che la richiesta volta al rispetto delle distanze legali abbia tale connotazione, sebbene volta a denunciare la violazione per pochi centimetri. Il secondo motivo denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendosi che i giudici di appello abbiano erroneamente valutato il contenuto della concessione edilizia n. OMISSIS , dalla quale emergeva la sostanziale modifica del fabbricato del controricorrente nonchè la modifica della sua destinazione d'uso, essendo stato adibito con la concessione n. OMISSIS ad utilizzo residenziale. In tal modo si è posta in essere una vera e propria nuova costruzione che va assoggettata alla più rigorosa disciplina prevista per gli edifici non aventi carattere accessorio. La diversa soluzione adottata dalla Corte d'Appello si risolve nell'autorizzazione ad eludere le prescrizioni urbanistiche. 2. I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono fondati. Va in primo luogo disattesa la deduzione di parte controricorrente secondo cui con i motivi in esame verrebbe ad essere coltivata una domanda nuova rispetto a quella proposta in citazione. Assume parte convenuta che in realtà la domanda era finalizzata ad ottenere la rimozione della sola parte dell'edificio oggetto di sopraelevazione a seguito degli interventi posti in essere tra il 1988 ed il 1989, e che l'ampliamento della domanda fino a conseguire la demolizione dell'intero fabbricato era stata denunciata come inammissibile in sede di appello. Si deduce che la questione della novità della domanda ex art. 345 c.p.c., è stata inopinatamente disattesa dal giudice di appello, formulandosi sul punto specifica contestazione nel controricorso. Orbene, anche a voler superare gli evidenti profili di inammissibilità dello scritto difensivo de quo per la palese violazione del disposto di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, avendo la parte omesso di riportare il contenuto dei precedenti scritti difensivi con i quali si assume sarebbe stata posta la questione della novità delle domande avanzate dai ricorrenti solo in sede di appello cfr. Cass. S.U. n. 8077/2012 secondo cui, se col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un'attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell'atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell'oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, ancorchè il giudice di legittimità non debba limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma sia investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, è però necessario che la censura sia stata proposta in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 , la doglianza di parte controricorrente appare comunque infondata. In tal senso rileva quanto emerge dallo stesso contenuto della sentenza appellata che, nel riportare il tenore delle domande formulate in primo grado, evidenzia come la richiesta di demolizione riferita all'intero manufatto, facesse già richiamo all'intervenuto mutamento di destinazione ed alla trasformazione in abitazione. Emerge quindi che già in prime cure il fondamento giustificativo della domanda di riduzione in pristino era stato individuato nel cambiamento della destinazione d'uso, sicchè l'assunto dello S. secondo cui la contestazione dell'illegittimità fosse limitata alla sola porzione oggetto di sopraelevazione, oltre che contrastare con il tenore letterale della domanda, risulta finalizzato a contestare l'interpretazione della domanda stessa, quale offerta dai giudici di merito che è però sindacabile solo adducendo la violazione delle regole di ermeneutica ovvero l'abnormità ed insanabile contraddittorietà della motivazione nei limiti ben più rigorosi oggi posti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, novellato n. 5. 2.1 Passando al merito della vicenda, effettivamente ove si abbia riguardo al solo dato strutturale, la conclusione dei giudici di appello si paleserebbe corretta attesa la nozione di ricostruzione, quale delineata dalle Sezioni Unite Cass. S.U. n. 21578/2011 secondo cui nell'ambito delle opere edilizie anche alla luce dei criteri di cui alla L. 5 agosto 1978, n. 457, art. 31, comma 1 lett. d - la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorchè dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione , come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima conf. Cass. n. 15041/2018 . In tal senso il riscontro nella fattispecie del difetto di aumento di volumetria escluderebbe che possa dibattersi di nuova costruzione, come pure sarebbe irrilevante l'argomento relativo alla maggiore altezza del manufatto in seguito alla nuova foggia del tetto, alla luce dei principi di questa Corte per i quali cfr. Cass. n. 27086/2006 , in materia di distanze legali tra edifici, la modificazione del tetto di un fabbricato integra sopraelevazione e, come tale, una nuova costruzione soltanto se essa produce un aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti, così incidendo sulla struttura e sul modo di essere della copertura spetta al giudice di merito di volta in volta verificare, in concreto, se l'opera eseguita abbia le anzidette caratteristiche ovvero se, in ipotesi, avendo carattere ornamentale e funzioni meramente accessorie rispetto al fabbricato, vada esclusa dal calcolo delle distanze legali conf. Cass. n. 14932/2008 . Il profilo di novità però che connota la vicenda è che la legittimità della costruzione anche ai fini del rispetto della norma di rilievo interprivatistico in materia di distanze si fondava, sulla base delle medesime prescrizioni regolamentari locali invocate dal convenuto, oltre che sulle caratteristiche obbiettive delle dimensioni, sul dato della destinazione d'uso. In realtà la norma locale di cui si chiede l'applicazione è rimasta immutata, e implica che se oggi venisse realizzata una costruzione a destinazione residenziale con le caratteristiche che ha assunto il bene del controricorrente a seguito delle modifiche denunciate dagli attori, risulterebbe evidentemente illegittima e non potrebbe porsi alla distanza nella quale ora è collocata. A ben vedere nella vicenda non si tratta quindi di invocare uno ius superveniens più sfavorevole, ma di prendere atto che la valutazione della legittimità della costruzione presuppone anche il concreto riscontro della destinazione, che oggi, anche a seguito di nuova concessione, è quella residenziale. E' quindi lo stesso mutamento di destinazione che impone di dover rivalutare la legittimità dell'opera, e ciò anche a voler ritenere che ne siano restate immutate le caratteristiche strutturali non potendosi legittimare in tal modo, come pur sostenuto in ricorso, un'agevole elusione delle prescrizioni dello strumento urbanistico locale. Il mutamento della destinazione, a differenza di quanto sostenuto dai giudici di appello, non si risolve in una mera violazione rilevante unicamente nei rapporti con la PA, ma si riverbera, proprio per l'espressa scelta a suo tempo fatta dalla disciplina locale, destinata per effetto del richiamo di cui all'art. 873 c.c., ad assumere rilevanza anche nei rapporti tra privati, anche nella possibilità di dover valutare la permanente legittimità dell'opera secondo quegli stessi parametri, dimensionali e di finalità di uso, che avevano permesso di derogare o meno alla più severa disciplina in materia di distanze. Nè potrebbe in alcun modo giovare alla tesi del resistente l'argomento secondo cui, dovendosi ai fini della disciplina delle distanze avere riguardo alla sola consistenza oggettiva, il requisito della destinazione d'uso non poteva rientrare quale elemento discretivo ai fini dell'applicazione delle relative norme, in quanto ribaltando tale deduzione si potrebbe trarre la conclusione che, proprio perchè sarebbe necessario guardare alla consistenza oggettiva dell'opus per stabilire se si tratta o meno di costruzione rilevante ai fini dell'applicazione della disciplina in materia di distanze, tale giudizio non potrebbe essere influenzato da un elemento estraneo quale la destinazione attribuita in concreto al bene potendosi eventualmente ipotizzare anche una disapplicazione della normativa secondaria che in tal modo offra una definizione di costruzione difforme da quella ricavabile dalla disciplina codicistica . In relazione al mutamento di destinazione ed alla sua incidenza sulla normativa in materia di distanze, questa Corte ha poi avuto modo di affermare che Cass. n. 6817/1983 la prescrizione di distanza di cui all'art. 24, lett. C e all'art. 20, lett. H del regolamento edilizio del comune di Cervia del 6 aprile 1938 e successive modificazioni, sebbene formalmente posta per i villini, è riferibile pure alle costruzioni isolate di ogni tipo, senza che il mutamento di destinazione dell'immobile da villino a pensione possa esonerare il proprietario dalla sua osservanza, principio dal quale è possibile ricavare a contrario che se il mutamento di destinazione non può legittimare una costruzione ab origine illegittima, analogamente occorre guardare alla attuale destinazione dell'opera senza che l'originaria diversa destinazione, poi mutata, possa permanentemente sottrarla alla sopravvenuta contrarietà alla medesima norma locale. Deve pertanto essere affermato il seguente princchpio di diritto nel caso in cui una norma regolamentare locale, e nella specie l'art. 35 del R.E. del comune di Capo di Ponte, consenta di porre determinate costruzioni a distanza inferiore rispetto a quella prescritta per le restanti costruzioni, purchè abbaino una specifica destinazione, il successivo mutamento di destinazione del manufatto, ancorchè non accompagnato da modifiche strutturali o aumenti di volumetria, impone di verificare la perdurante legittimità dell'opera proprio alla luce della diversa destinazione assunta in concreto. In accoglimento del motivo, la sentenza impugnata deve pertanto essere cassata non potendo invocarsi ai fini del rigetto del motivo la circostanza che il dante causa dei ricorrenti con scrittura privata datata 19 giugno 1990 avrebbe autorizzato il vicino a mantenere l'edificio in quella determinata collocazione assentendo anche al mutamento di destinazione in relazione al profilo delle distanze, atteso che, vertendosi in materia di distanze poste da uno strumento urbanistico locale, ogni accordo delle parti volto a derogare alle stesse deve reputarsi affetto da nullità. Si veda sul punto Cass. n. 26270/2018, secondo cui in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati tali deroghe, se concordate, sono invalide, nè tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, poichè il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici conf. Cass. n. 9751/2010 . 2.2 Del pari fondate sono le censure che investono la sentenza d'appello quanto alla ravvisata legittimità della finestra. Emerge, infatti, che anche a seguito dell'applicazione sulla facciata originale di uno strato di rivestimento termo-coibente, la distanza tra la facciata stessa ed il confine è divenuta di metri 1,43. Assume la Corte distrettuale che invece la distanza debba essere calcolata con riferimento al piano di superficie dell'apertura verso l'esterno e non al muro in cui la stessa è praticata, aggiungendosi altresì che la pretesa volta ad ottenere il rispetto di una distanza inferiore a quella legale di soli 7 cm. avrebbe carattere emulativo. Entrambe le affermazioni appaiono sconfessate dalla costante giurisprudenza di questa Corte. Quanto alla possibilità di qualificare come atto emulativo l'azione volta ad ottenere il rispetto della distanze si ricorda che cfr. Cass. n. 3275/1999 per aversi atto emulativo vietato ai sensi dell'art. 833 c.c. è necessario che l'atto di esercizio del diritto sia privo di utilità per chi lo compie e sia posto in essere al solo scopo di nuocere o di recare molestia ad altri, per cui non è riconducibile a tale categoria di atti l'azione del proprietario che chieda l'eliminazione di una veduta aperta dal vicino a distanza illegale conf. Cass. n. 6949/1999 Quanto, invece alle modalità di calcolo delle distanze, si è affermato che Cass. n. 12821/1992 l'art. 907 c.c., richiama ai fini della misurazione delle distanze delle costruzioni dalle vedute i criteri stabiliti dal precedente art. 905, con la conseguenza che le distanze dal confine delle vedute, quando queste si aprano in un incavo del muro, deve essere di un metro e mezzo calcolato dalla facciata esterna del muro stesso conf. Cass. n. 6120/1994 . Quanto invece all'argomento secondo cui il maggiore spessore del muro sarebbe da ricondurre all'esecuzione di lavori volti al contenimento del consumo energetico, una volta escluso che possa parlarsi di volumi tecnici, ed a prescindere dalla circostanza secondo cui l'aumento dello spessore non deve necessariamente avvenire all'esterno, ma può essere attuato sul fronte interno del fabbricato, va ricordato che le varie norme che sembrano ammettere una deroga alla disciplina in materia di distanze per le opere di coibentazione termica, subordinano tale esonero al rispetto di ben precisi requisiti. Il D.Lgs. n. 102 del 2014, art. 14, al comma 7, nel prevedere la possibilità di derogare, nell'ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà e alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nella misura massima di 25 centimetri per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne, nonchè alle altezze massime degli edifici, nella misura massima di 30 centimetri, per il maggior spessore degli elementi di copertura, prevede che però i relativi interventi di riqualificazione energetica di edifici esistenti che comportino appunto maggiori spessori delle murature esterne e degli elementi di chiusura superiori ed inferiori siano necessari ad ottenere una riduzione minima del 10 per cento dei limiti di trasmittanza previsti dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192, e successive modificazioni. Analogamente il D.Lgs. n. 115 del 2008, art. 11, consente del pari di derogare a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nonchè' alle altezze massime degli edifici, in relazione allo spessore delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, superiori ai 30 centimetri, purchè si tratti di opere necessarie ad ottenere una riduzione minima del 10 per cento dell'indice di prestazione energetica previsto dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192, e successive modificazioni, certificata con le modalità di cui al medesimo D.Lgs. analoga previsione, quanto all'individuazione di un limite quantitativo minimo di beneficio che deve esser apportato dall'opera di coibentazione è contenuta nella L.R. Lombardia n. 26 del 1995, art. 2 . I giudici di appello, senza alcuna verifica o dimostrazione dell'effettivo vantaggio in termini di risparmio energetico apportato dal cd. cappotto termico apposto dal convenuto, hanno ritenuto che la sola realizzazione dello stesso giustificasse la deroga alla disciplina in materia di distanze, pervenendo in tal modo ad una falsa applicazione di legge che, unitamente alle sopra riscontrate erronee conclusioni in merito alle modalità di calcolo delle distanze e di valutazione della condotta degli attori come emulativa, impone anche in parte qua la cassazione della sentenza impugnata. 3. L'accoglimento del ricorso determina il rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Brescia che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata con rinvio per un nuovo esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Brescia, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. 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