Alzare il muro comune: a volte si può

Nel caso di spoglio clandestino, chi intenda promuover giudizio possessorio non deve limitarsi a dimostrare la clandestinità dello spoglio ma deve anche dimostrare di aver agito entro l’anno dalla scoperta.

Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione Civile in una recente decisione, sentenza n. 19018/16, che vedeva contrapporsi gli interessi di due condomini confinanti il primo dei quali lamentava la arbitrarietà ed illegittimità di alcune opere aumento dell’altezza interna della mansarda, elevazione del muro di proprietà esclusiva della ricorrente con inglobazione del muro nella proprietà della resistente, limitazione della facoltà di affaccio per la ricorrente etc. poste in esser dal secondo. L’azione possessoria a pena di inammissibilità va esercitata entro l’anno dalla scoperta. Nel decidere quale giudice del gravame, la Corte d’appello di Bari rilevava, tra l’altro, la inammissibilità della richiesta tutela possessoria non avendo il ricorrente dato opportuna prova di aver esercitato per tempo e cioè entro un anno dalla scoperta l’azione possessoria. Avverso tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione parte soccombente, presentando tre differenti motivi di reclamo. La Cassazione, in particolare, si soffermava sul primo di detti motivi, confermando la sentenza impugnata sulla base di proprie precedenti decisioni Cass. n. 1036/1995 tra le altre che avevano già sancito che l’azione di reintegrazione o manutenzione nel possesso debba, necessariamente, essere esperita entro il termine sostanziale di un anno dalla scoperta dello spoglio. Se lo spoglio è clandestino il ricorrente deve anche dimostrare quando ne è venuto a conoscenza. La Corte, in particolare, nella sentenza ora oggetto di commento, precisava come quando lo spoglio sia stato clandestino, l’onere dell’attore in possessoria non si esaurisce nella dimostrazione di clandestinità dell’atto violatore del possesso, ma deve riguardare anche la data della scoperta di esso da parte dello spogliato . Nel caso di specie, in sostanza, la richiesta tutela possessoria non poteva essere accordata in quanto l’attore non aveva dato prova di aver agito entro l’anno dalla scoperta dello spoglio clandestino. Ulteriore motivo sottoposto all’attenzione della Cassazione consisteva nella asserita violazione, a dire della ricorrente, compiuta dal resistente nell’innalzare un muro di proprietà esclusiva della ricorrente stessa. Il muro di proprietà comune può essere innalzato da ciascuno dei comproprietari con il solo divieto di porre in essere atti emulatori. Anche tale motivo, tuttavia, veniva respinto questo in quanto la Cassazione osserva come nel corso del giudizio la ricorrente non avesse fornito prova alcuna della proprietà esclusiva in proprio favore del predetto muro in assenza di tale prova, e dovendosi pertanto considerare il muro di proprietà comune, osserva la Corte suprema come andasse applicato al caso di specie il dettato dell’art. 885 c.c., che lex specialis ” rispetto al regime della comproprietà prevede il diritto del comproprietario come era accaduto nel caso di specie di sopraelevare a proprie spese il muro comune. Unico limite di tale diritto, osserva ancora la Cassazione, è che tale sopraelevazione non rechi danno a chi la subisce e che quindi non debba essere considerata come atto emulativo.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 20 aprile – 27 settembre 2016, n. 19018 Presidente Mazzacane – Relatore Falaschi Svolgimento del processo Con ricorso del 23 gennaio 2001 B.C. evocava, dinanzi al Tribunale di Trani, C.R. assumendo di essere proprietaria dell’appartamento sito al secondo piano dell’edificio sito in OMISSIS e della corrispondente porzione di lastrico solare, mentre il convenuto era proprietario dell’altro appartamento posto al secondo piano, avente anche mansarda edificata su lastrico di proprietà comune aggiungeva che in data 17.11.1999 il convenuto aveva inoltrato al Comune richiesta di autorizzazione per lavori di ristrutturazione, rilasciata il 18.2.2000, ma nell’esecuzione dei lavori aveva arbitrariamente aumentato l’altezza interna della mansarda, elevando con tre file di mattoni il muro di proprietà esclusiva della ricorrente ed inglobandolo nella sua proprietà così limitando anche la facoltà di affaccio sul terrazzo assumeva, altresì, che il C. aveva sollevato di 40 cm. il piano di calpestio del proprio appartamento, sì che la apertura esistente sul muro di confine, avente in origine le caratteristiche di luce, era stata trasformata in veduta con possibilità per il resistente di esercitare veduta verso il cortile. Per quanto sopra esposto chiedeva che il giudice adito ordinasse l’immediata reintegrazione o manutenzione nel possesso del muro di sua proprietà esclusiva ovvero quanto meno che fosse disposto l’abbassamento del muro e l’arretramento del tetto della mansarda fino alla metà dello stesso infine che fosse disposto il ripristino dell’altezza della luce. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del C. , che eccepiva l’intempestività dell’azione esperita, oltre ad intervenuta usucapione sia della proprietà del muro sia del diritto di veduta, il giudice adito, con ordinanza del 10.2.2003, espletata istruttoria, rigettava la richiesta di provvedimenti provvisori, disponendo la prosecuzione del giudizio possessorio. Con sentenza n. 723 del 28.7.2005 il Tribunale di Trani rigettava la domanda, confermati i provvedimenti assunti in fase cautelare, in assenza di elementi nuovi. In virtù di rituale appello interposto dalla B. , la Corte di appello di Bari, nella resistenza dell’appellato, respingeva il gravame, previa correzione della motivazione della decisione del giudice di prime cure. A sostegno della decisione adottata la code territoriale, quanto alla tutela possessoria avente ad oggetto il muro divisorio, evidenziava che dall’incarto processuale - in particolare dalla richiesta e dal rilascio dell’autorizzazione amministrativa, dal raffronto comparativo delle foto dei luoghi nello stato iniziale e in quello successivo a seguito della esecuzione dei lavori, dalla ordinanza di ripristino emessa il 27.9.2000 dal Comune di Trani e dalla c.t.u. - emergeva che con i lavori de quibus il C. aveva proceduto alla ristrutturazione della mansarda, sia quanto al solaio sia quanto alla copertura, con eliminazione della porta di accesso prima collocata sul lastrico solare, mettendo in comunicazione la mansarda con l’appartamento a mezzo di scala interna e con apertura, nel tratto terminale, verso l’esterno di un terrazzino di servizio. Aggiungeva che l’appellante non aveva offerto la prova della proprietà esclusiva ovvero del possesso esclusivo del muro, per cui operava la presunzione di comproprietà sia per le caratteristiche della mansarda, che nel tratto terminale ricomprendeva il muro divisorio con il lastrico B. , per cui fungeva comunque da parete del vecchio manufatto, sia per le caratteristiche del muro avente nella sommità un doppio spiovente ex art. 880 cc. . Inoltre dagli accertamenti del c.t.u. risultava che l’innalzamento della quota del tetto corrispondeva a soli cm. 20, dovuto al pacchetto di coibentazione e impermeabilizzazione autorizzato ed alla finitura a coronamento, per cui corrispondeva ad una modalità legittima di esercizio della contitolarità del muro a norma dell’art. 885 c.c Né l’innalzamento poteva essere considerato lesivo del possesso della servitù di veduta a causa della reciprocità della possibilità di affaccio esistente da entrambi i fondi confinanti, non provato dalla B. una specifica modalità di godimento del muro comune. Quanto, infine, alla invocata tutela del possesso del lastrico solare contiguo al suo appartamento, limitato dalla trasformazione in veduta della luce aprentesi sulla parete della camera da letto del C. sito ugualmente al secondo piano, ne affermava la inammissibilità per mancanza di prova della tempestività dell’azione possessoria, desumendosi dalla lettera del 28.5.2000 della B. che le modifiche alle finestre erano state già eseguite, almeno prima del 23.1.2000, avendo fatto riferimento nella lettera a precedenti diffide quanto alla trasformazione della luce mentre non veniva riproposta in sede di conclusioni la questione della eccessività delle spese. Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Bari ha proposto ricorso per cassazione la B. , sulla base di tre motivi, illustrati anche da memoria ex art. 378 c.p.c., al quale ha replicato il C. con controricorso. Alla pubblica udienza del 19 gennaio 2016 la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per mancata comunicazione alla parte controricorrente del decreto di fissazione dell’udienza. Motivi della decisione Occorre preliminarmente risolvere l’eccezione di inammissibilità del controricorso per tardività, sollevata dalla difesa della B. nella memoria ex art. 378 c.p.c. sostiene, infatti, la parte ricorrente che essendo stato il ricorso notificato in data 29 settembre 2011, deve ritenersi tardivo, ai sensi dell’art. 370, comma 1, c.p.c., il controricorso notificato il 9 novembre 2011. L’eccezione non è fondata. Si deve, infatti, osservare che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002, sia rintracciabile nell’ordinamento una regola di diritto positivo, che sancisce il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio per quanto riguarda il notificante, tale procedimento si perfeziona alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario per quanto riguarda il destinatario, invece, il perfezionamento della notificazione avviene solo alla data di ricezione dell’atto. Nel caso di specie, risulta indubitabile che la parte controricorrente abbia affidato all’ufficiale giudiziario l’atto da notificare - il controricorso - entro il termine previsto dall’art. 370, comma 1, c.p.c., termine che scadeva il giorno 8 novembre 2011 ossia quaranta giorni dopo l’avvenuta ricezione il 29 settembre 2011 del ricorso per Cassazione infatti, l’ufficiale giudiziario certifica di aver ricevuto l’incarico di notificare il controricorso che con tutta evidenza gli era già stato affidato dalla parte controricorrente in data 8 novembre 2011, all’indirizzo indicato nel ricorso per Cassazione come domicilio eletto dalla parte ricorrente - e cioè in OMISSIS presso lo studio dell’avv. Simona Censi, atto poi effettivamente recapitato il giorno successivo e cioè il 9 novembre 2011. Pertanto, il controricorso non può ritenersi tardivo. Affermata così l’ammissibilità del controricorso è possibile procedere all’esame del ricorso. Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., 2697 e 1168 c.c., nonché vizio di motivazione, per avere la corte di merito ritenuto non tempestivamente esercitata l’azione possessoria con riferimento al ripristino dell’altezza della luce che dall’appartamento del C. si immette nel cortile interno del suo appartamento. In altri termini, la corte distrettuale avrebbe affermato di non potersi basare su elementi presuntivi diversamente dai lavori relativi alla suppenna , per non avere parte attrice assolto al relativo onere, dal momento che la tempestività risultava evidente nella specie, ricorrendo l’ipotesi dello spossessamento clandestino, dovendo computarsi il termine dalla data della scoperta dell’atto violatore del possesso. Il motivo è privo di pregio. Ad avviso del Collegio il rilievo dirimente è quello contenuto nella sentenza impugnata pag. 16 dove si afferma che la ricorrente già con la lettera del 28 maggio 2000 aveva dedotto come lesive del possesso le modifiche della finestra riscontrate, per essere al tempo in corso di esecuzione solo i lavori al piano superiore, ossia alla mansarda. Sta di fatto che la Corte territoriale ha ritenuto che i due interventi effettuati dal controricorrente, l’uno, con la sopraelevazione della suppenna, posta all’altezza del lastrico solare l’altro, con la trasformazione in veduta della luce che si apriva sulla parte della camera da letto dell’appartamento del C. , sito al secondo piano, fossero autonomi e staccati fra loro, per cui costituivano teleologicamente, oltre che temporalmente, espressione di un diverso disegno di spoglio. Detta ratio decidendi non è criticata dalla ricorrente che si limita ad asserire che a lei spettava solo la prova della clandestinità dell’atto di spoglio quanto alla servitù di veduta, regolarmente fornita. La tutela possessoria richiesta dalla B. aveva ad oggetto sia la servitù di veduta sia il diverso diritto di servitus altius non tollendi, dal momento che in tema di servitù il concetto di utilitas può comprendere ogni vantaggio di qualsivoglia natura, economica e non, come, nella specie, anche quello d’assicurare semplicemente un maggiore arieggiamento dell’edificio e, pertanto, va tutelata da ogni forma di compressione o ingerenza. Quanto alla sussistenza di autonomia di dette servitù quale ragione posta dal giudice a quo a fondamento del diverso momento di decorrenza del termine annuale, la ricorrente non solleva contestazione alcuna. Nella specie, la ratio della decisione della corte d’appello, in ordine all’affermata intempestività dell’azione esercitata con il deposito del ricorso il 23 gennaio 2001, si esprime, partendo dal dato che dell’avvenuto spoglio - anche quanto alla veduta - vi era riferimento nella lettera del 28 maggio 2000, in cui si richiamavano precedenti diffide, che ben potevano essere state inoltrate prima del 23 gennaio 2000 con la conseguenza che il primo atto di spoglio è stato configurato nello spossessamento intervenuto al tempo delle precedenti diffide , il cui richiamo ha fatto ritenere cessata la clandestinità dello spoglio per detta servitù e in ordine alle quali la ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione, pur trattandosi di atti provenienti dalla stessa. Va, infatti, richiamato il ripetuto insegnamento di questa Corte per cui il termine annuale ha natura sostanziale e l’azione di reintegrazione o di manutenzione deve essere esperita entro l’anno, decorrente dallo spoglio o dalla molestia, spettando al ricorrente la prova della tempestività dell’azione, regola dell’onere della prova che deve essere adattata ai particolari aspetti della presente fattispecie, per cui quando lo spoglio sia stato clandestino, l’onere dell’attore in possessoria non si esaurisce nella dimostrazione della clandestinità dell’atto violatore del possesso, ma deve riguardare anche la data della scoperta di esso da parte dello spogliato in tale senso Cass. n. 1036 del 1995, nonché la stessa pronuncia invocata da parte ricorrente Cass. n. 20228 del 2009 . Pertanto, la sentenza impugnata non merita la censura mossale. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per l’omessa pronuncia sulla censura di appello relativa alla liquidazione delle spese di giustizia da parte del giudice di prime cure. Il motivo è manifestamente infondato. La Corte di Appello, bell’esaminare la censura inerente la eccessività delle spese , oltre a ritenere assolutamente generica la doglianza, ha precisato che non era stata riproposta nelle conclusioni dell’atto di appello. Orbene, osserva il Collegio che non sussiste il dedotto vizio di omessa pronuncia, il quale è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto, ed il motivo non si confronta con alcuna delle rationes decidendi, oltre a contenere un evidente difetto di specificità. Infatti in tema di controllo della legittimità della pronuncia di condanna alle spese del giudizio, è inammissibile il ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale, atteso che devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari e dei diritti di procuratore che si ritengono violate Cass. 26 giugno 2007 n. 14744 Cass. 19 giugno 2009 n. 14445, ed altre . Con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 885 a c., oltre ad errata valutazione delle prove acquisite in giudizio, per avere la corte territoriale ritenuto che la B. non avrebbe riportato la domanda subordinata relativa alla richiesta di arretramento e di abbassamento della mansarda nella memoria ex art. 183, V comma, c.p.c Il motivo è inammissibile prima che infondato. La ricorrente travisa la ratio decidendi laddove la corte distrettuale, una volta accertata la comunione del muro divisorio, per non avere la B. fornito la prova dell’asserito possesso e/o proprietà esclusiva, ha fatto corretta applicazione del principio statuito nell’art. 885 ca. nel riconoscere ai comproprietari la facoltà di sopraelevare detto muro e nel ritenere che tale facoltà non fosse impedita dalla dedotta preesistenza di una servitù di veduta, anch’essa non dimostrata. È quindi immune da errori di diritto il riferimento fatto dalla Corte del merito all’art. 885 c.c., in relazione al quale questo Supremo Collegio ha sempre ritenuto che costituisce lex specialis rispetto al regime della comproprietà, per cui si può sopraelevare senza il consenso del condominio e senza che il potere sia condizionato da una particolare destinazione, salvo ovviamente il limite costituito dall’atto emulativo nel caso specifico neppure adombrato o evocato e il rispetto del principio del contemperamento dei reciproci interessi, in base al quale l’immutazione derivante dalla soprelevazione si deve risolvere con il minore sacrificio di chi la deve subire ipotesi quest’ultima parimenti mai dedotta e non trova, in particolare, alcuna restrizione nei principi posti dagli ara, 1102 e 1108 c.c. cfr. Cass. 20 aprile 1963 n. 979 Cass. 24 agosto 1966 n. 2271 Cass. 18 aprile 1969 n. 1225 , con la conseguenza che correttamente è stata negata tutela all’azione di manutenzione non potendosi configurare alcuno spoglio. Inoltre se è vero che la facoltà di innalzamento del muro non è esercitabile quando con ciò si impedisce agli altri compartecipi di esercitare la veduta ai sensi dell’art. 907 c.c., nel caso specifico il giudice del merito motivatamente ha escluso tale ipotesi con riferimento all’art. 900 c.c., posto che la veduta presuppone l’esistenza di una finestra, di un parapetto o altra apertura sul fondo del vicino, di cui non è stata fornita alcuna prova Cass. 7 luglio 1994 n. 6407 . In definitiva, il ricorso va respinto, con condanna della ricorrente alle spese del giudizio, in applicazione del principio della soccombenza. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie e degli accessori come per legge.