Miglioramenti realizzati dal possessore: l’indennizzo non spetta se l’attività svolta è illecita

Al possessore del fondo non spetta l’indennizzo per addizioni consistenti in edifici abusivamente eretti sullo stesso, non potendosi ammettere alcun indennizzo per lo svolgimento di un’attività illecita anche sotto il profilo penale.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 27408 del 6 dicembre 2013. Possesso ed indennizzo per le migliorie nel giudizio di divisione ereditaria. La pronuncia in rassegna ribadisce un importante principio di diritto con riguardo al diritto del possessore ad essere indennizzato per i miglioramenti apportati al bene. La fattispecie concreta sottesa alla pronuncia in esame si presenta in realtà articolata e trae spunto da una complessa vicenda successoria. Limitando l’analisi ai profili connessi alla vicenda possessoria ed al relativo indennizzo preme segnalare che sia in primo che in secondo grado la relativa domanda veniva rigettata in quanto secondo i giudici di merito le strutture assunte come migliorie non poteva considerarsi tali, essendo piuttosto strutture destinate all’attività imprenditoriale del possessore I presupposti per l’indennizzo per le migliorie. In tema di indennizzo per le migliorie apportate dal possessore l’art. 1150 c.c. individua chiaramente i presupposti per tale richiesta. Ai sensi della disposizione citata, il diritto ad un’indennità per i miglioramenti arrecati alla cosa ed esistenti al tempo della restituzione, si correla all’incremento attuale ed effettivo che si verifica nel patrimonio del proprietario. Tale indennizzo spetta in ogni caso al possessore, in quanto ai sensi dell’art. 1150 c.c. la distinzione tra possessore in buona fede e possessore in male fede assume rilevanza unicamente ai fini del calcolo dell’indennità in parola. In particolare, la buona fede del possessore non solo impedisce al proprietario del suolo di chiedere la rimozione delle addizioni ma lo obbliga a corrispondere l’aumento di valore se esso lo hanno migliorato. Al riguardo spetta la proprietario che agisce per il rilascio del bene provare la mala fede del possesso e il suo carattere originario, atteso che la buona fede deve presumersi. Indennizzo e migliorie realizzate dal possessore. Ciò premesso sembra pienamente da confermare la decisione in rassegna nella parte in cui afferma che il possessore del fondo non ha diritto ad ottenere l’indennizzo per addizioni consistenti in edifici abusivamente eretti sul fondo stesso, non potendosi ammettere alcun indennizzo per lo svolgimento di un’attività illecita anche sotto il profilo penale . In tal senso la giurisprudenza di legittimità si era peraltro già espressa in passato, negando l’indennizzo ai sensi dell’arti. 1150 c.c. al possessore che abbia costruito edifici abusivi sul fondo posseduto.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 23 ottobre - 6 dicembre 2013, n. 27408 Presidente Oddo – Relatore Carrato Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 30 luglio 1993, la signora C.A.M. ed i suoi figli B.L. , G. e P. , convenivano, dinanzi al Tribunale di Roma, la signora D.V. , rispettivamente madre e nonna degli attori, nonché i sigg. C.Q. , N. e R. , germani della prima attrice, oltre ai sigg. M.A. e C. , figli di C.I., anch'ella germana della C.A.M. , che era premorta. Gli attori esponevano che, in data omissis , era deceduto il sig. C.C. , padre della sig.ra A.M. e dei fratelli convenuti, il quale, con testamento pubblico del 26 settembre 1990, aveva nominato eredi universali in quote pari i tre figli maschi ed i figli della figlia premorta, ed usufruttuaria la moglie, escludendo espressamente dalla successione essa attrice unitamente ai suoi figli per un'assunta condotta illecita da loro mantenuta nei confronti dello stesso testatore. Con il proposto atto introduttivo adducevano, in linea principale, la falsità e la nullità del testamento e, in subordine, la lesione della quota di riserva e, per l'effetto, la C.A.M. chiedeva le conseguenti declaratorie e, subordinatamente, la riduzione delle disposizioni lesive della legittima tutti gli attori, sul presupposto di aver abitato e coltivato il fondo di via OMISSIS originariamente assegnato al de cuius dall'Ente Maremma^ invocavano, inoltre, la declaratoria del loro diritto a rimanere nella esclusiva ed autonoma conduzione del suddetto fondo, salvo rendiconto in favore degli altri eredi e previa condanna di questi al pagamento delle migliorie eseguite sul terreno stesso. Si costituivano in giudizio tutti i convenuti ad eccezione di M.C. , i quali insistevano per il rigetto della domanda attorea e, nella subordinata ipotesi di accertamento della insussistenza della indegnità a succedere dell'attrice C.A.M. e, quindi, della lesione della legittima ad ella spettante, chiedevano che si procedesse alla divisione della massa ereditaria secondo la volontà del testatore il quale aveva disposto anche per 7 tale eventualità ed, inoltre, invocavano il rilascio del fondo in contestazione e la condanna degli attori al risarcimento dei danni per la illegittima occupazione dello stesso. Formalizzata la querela di falso da parte della C.A.M. avverso l'impugnato testamento pubblico e svoltosi il conseguente giudizio in via incidentale, con il successivo espletamento di c.t.u. ai fini della determinazione della massa relitta e la predisposizione di un progetto divisionale, il Tribunale adito, con sentenza n. 12117 del 2001 depositata il 28 marzo 2001 , accertata l'autenticità del testamento ed esclusane - perciò - la nullità, riteneva che non ricorresse la causa di indegnità a succedere dell'attrice C.A.M. e, per l'effetto, accertata la lesione della quota a lei riservata determinandone il valore in L. 63.403.707 , procedeva alla devoluzione dei beni anche secondo la subordinata disposizione testamentaria, così provvedendo - dichiarava l'usufrutto generale di D.V. su tutti i beni - attribuiva il fondo di omissis ai soli convenuti, che ne avevano fatto richiesta di assegnazione congiunta - divideva i beni siti in omissis tra tutti gli eredi, attribuendo alla suddetta attrice due appezzamenti di terreno ed un appartamento, sino alla concorrenza della quota di riserva - condannava, inoltre, gli attori al rilascio del fondo di omissis ed al pagamento, in favore dell'usufruttuaria, della somma di L. 72.685.495, a titolo di indennità per l'occupazione della casa colonica e di parte del fondo - compensava per la metà le spese giudiziali, ponendo a carico degli attori, in via solidale, la residua metà. Avverso questa sentenza proponevano tempestivo appello la C.A.M. nonché i germani B.L. , G. e P. , al quale resistevano tutti gli appellati che, a loro volta, formulavano appello incidentale. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2853 del 2007 depositata il 26 giugno 2007 , in parziale riforma dell'impugnata sentenza che, per il resto, veniva confermata , condannava gli appellanti principali al pagamento dell'ulteriore indennizzo dal mese di agosto del 1999 alla data del rilascio, per l'occupazione del fondo di omissis , da determinarsi secondo il parametro e la misura indicata in motivazione, disponendo, altresì, che dalla composizione del cespite n. 10, come determinata dal c.t.u. e recepita in sentenza, fosse esclusa la particella n. 55. Il giudice di appello condannava, infine, gli appellanti principali alla rifusione delle spese del grado. A sostegno dell'adottata decisione, la Corte capitolina rilevava l'infondatezza di tutte le doglianze dedotte dagli appellanti principali relative alla reiezione della domanda di pagamento dell'indennità per gli assunti miglioramenti apportati al fondo di v. durante la loro occupazione poiché le strutture destinate alla loro attività imprenditoriale non potevano considerarsi opere di miglioramento fondiario , al riconoscimento del diritto della C.A.M. a permanere nel suddetto fondo siccome esso era stato escluso dalla stessa volontà del testatore, per l'ipotesi in cui non fosse stata ritenuta sussistente la sua indegnità a succedere , anche per effetto di ritenzione ai sensi dell'art. 1152 c.c., nonché al computo della misura dell'indennizzo, in favore dell'usufruttuaria, del'indennizzo per l'occupazione del fondo alla stregua degli accertamenti compiuti dal c.t.u. . Con la medesima statuizione la Corte territoriale rilevava la fondatezza dell'appello incidentale nei termini poc'anzi precisati, precisando, inoltre, che, sulla instaurata controversia, non avrebbe potuto sortire alcuna influenza la questione dell'appartenenza del fondo di OMISSIS al patrimonio relitto da C.C. , poiché sulla stessa era intervenuta sentenza del Tribunale di Roma del 31 marzo 2006, con la quale era stato accertato il definitivo trasferimento del bene all'assegnatario fin dal 23 giugno 1976. Nei confronti della suddetta sentenza di appello notificata il 9 ottobre 2007 hanno proposto ricorso per cassazione C.A.M. , B.L. , G.e.P. , articolato in cinque motivi. Tutti gli intimati hanno resistito in questa sede con un unico controricorso. I difensori delle parti hanno anche depositato memoria difensiva ai sensi dell'art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto - ai sensi dell'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. - l'illegittimità dell'impugnata sentenza nella parte in cui aveva ritenuto coperta dal giudicato - poiché non esplicitamente impugnata - la statuizione pregiudiziale espressa dal primo giudice in ordine all'appartenenza del fondo di omissis al patrimonio relitto da C C. malgrado fosse intervenuta la risoluzione del contratto di assegnazione con patto di riservato dominio dichiarata dall'ente concedente in data 2 luglio 1969 . In particolare, con la tale censura, i ricorrenti hanno inteso dedurre che la predetta statuizione del giudice di prime cure non necessitava di un'autonoma contestazione, dal momento che essi, in qualità di appellanti principali, avevano impugnato le decisioni del Tribunale di Roma con riferimento al mancato riconoscimento del loro diritto a restare sul fondo posseduto per oltre 30 anni e alla loro condanna al risarcimento dei danni per mancato godimento in favore della moglie del de cuius , usufruttuaria, in tal senso, perciò, manifestando la loro volontà di impugnare tutte le questioni decise in via pregiudiziale o presupposte, poste a fondamento delle statuizioni esplicite dal Tribunale di primo grado ed avverso le quali essi appellanti avevano chiesto al giudice del gravame la riforma. A corredo di tale motivo i ricorrenti hanno formulato - ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. ratione temporis applicabile nella fattispecie risultando la sentenza impugnata pubblicata il 26 giugno 2007 - il seguente quesito di diritto dica la Corte se l'esame in sede di impugnazione di questioni pregiudiziali o preliminari non resta precluso per effetto del giudicato interno, quando il capo della sentenza che implica la definizione implicita di questioni preliminari e pregiudiziali, sia stato impugnato ancorché limitatamente alla pronuncia di merito . 1.1. Rileva il collegio che il motivo è da qualificarsi inammissibile sia perché non risulta sufficientemente specifico con riguardo all'esposizione dei motivi di appello ed alle ragioni per le quali essi avrebbero involto anche la questione della proprietà del fondo dedotto in controversia sia perché è corredato da un quesito di diritto del tutto generico, che si prospetta sganciato da ogni riferimento alla fattispecie concreta e sia perché, inoltre, non risulta provvisto di un'adeguata sintesi del supposto vizio motivazionale dal quale sarebbe affetta la sentenza impugnata. A tal riguardo, sul piano generale si osserva cfr., ad es., Cass. n. 4556/2009 che l'art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell'art. 360, comma 1, c.p.c., ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all'esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione e formalità espressiva va funzionalizzata, come attestato dall'art. 384 c.p.c., all'enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c. il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata , è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso - in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria - ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione. Da ciò si inferisce anche che il quesito di diritto non può essere implicitamente desunto dall'esposizione del motivo di ricorso, né può consistere o essere ricavato dalla semplice formulazione del principio di diritto che la parte ritiene corretto applicare alla fattispecie. In ogni caso, bisogna sottolineare che la Corte territoriale si è, in effetti, pronunciata sulla supposta formazione del giudicato, ritenendo che la questione relativa all'appartenenza del fondo dovesse essere considerata estranea al thema decidendum e che tra l'oggetto del giudizio e la predetta questione non sussistesse un rapporto di pregiudizialità in senso logico-giuridico. In particolare, con la sentenza di secondo grado, sulla premessa che il I Tribunale di Roma con sentenza del 31 marzo 2006 aveva accertato il definitivo trasferimento del bene al defunto fin dal 23 giugno 1976, il giudice di appello ha congruamente affermato che la statuizione pregiudiziale espressa in motivazione dal giudice di primo grado relativa all'appartenenza del bene controverso al patrimonio del de cuius era da considerarsi passata in giudicato, in quanto non impugnata, e che si sarebbero dovute ritenere tardive le argomentazioni svolte in ordine alla titolarità del bene svolte per la prima volta dagli attori nel corso del giudizio di appello. 2. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno denunciato l'illegittimità della mancata sospensione del giudizio di appello - ai sensi dell'art. 295 c.p.c. - richiesta dalla C.A.M. nella memoria di costituzione con nuovo procuratore, depositata il 15 maggio 2003, in ordine alla pendenza - dinanzi alla stessa Corte territoriale - del pregiudiziale giudizio promosso dalle controparti al fine di far constatare la cessazione del riservato dominio sul podere di OMISSIS in favore dell'ARSIAL, il cui accertamento rappresentava anche l'antecedente logico-giuridico della cognizione sulla questione della spettanza del diritto degli appellanti di rimanere nel predetto podere e del diritto al risarcimento dichiarato in favore della moglie usufruttuaria del de cuius . All'esito dello svolgimento di detto motivo i ricorrenti hanno indicato il seguente quesito di diritto dica la Corte se ai fini della sospensione necessaria del giudizio ai sensi dell'art. 295 c.p.c. è necessario che la definizione di una controversia costituisca l'antecedente logico-giuridico dell'altra il cui accertamento deve avvenire con efficacia di giudicato . 2.1. Anche questa censura si prospetta inammissibile poiché il formulato quesito di diritto è assolutamente generico e tautologico, non esplicitando - neanche in modo sintetico - il supposto rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tra le due cause. Oltretutto, bisogna rimarcare che - secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte cfr., ad es., Cass. n. 16960 del 2006 e Cass. n. 6159 del 2007, ord. - l'applicabilità della sospensione ex art. 295 c.p.c. presuppone la contemporanea pendenza tra due giudizi con identità di parti requisito, questo, insussistente nella fattispecie . Del resto, è appena il caso di evidenziare che la sentenza impugnata ha dato atto che il giudicato formatosi tra le parti sull'appartenenza del bene al defunto escludeva una pregiudizialità del diverso giudizio con l'ARSIAL e tale argomento non risulta censurato. 3. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno lamentato senza, peraltro, indicare - ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. - le norme specificamente violate ed individuare adeguatamente il vizio da intendersi dedotto il mancato riconoscimento - con la sentenza impugnata - del diritto all'indennizzo per le addizioni, avuto riguardo alla conferma della decisione di primo grado nella parte in cui la costruzione del fabbricato ad uso ricovero e allevamento di animali da latte non era stata ritenuta idonea a costituire miglioramento del fondo, concretandosi soltanto in un incremento dell'attività imprenditoriale di essi ricorrenti. Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. risulta formulato il seguente quesito di diritto dica la Corte se, nell'ipotesi in cui sussistano elementi obiettivi, seppur non precisamente determinati nell'ammontare, circa il diritto del possessore di ricevere l'indennità per le migliorie apportate al fondo, il giudice deve ricorrere al principio dell'equa valutazione per determinarne l'ammontare . 3.1. Anche questo motivo è da ritenere inammissibile per la essenziale genericità del formulato quesito di diritto ed anche perché si prospetta inconferente rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha escluso in radice la spettanza del reclamato indennizzo per i supposti miglioramenti, avendo ritenuto che non ne sussistessero i presupposti, dal momento che, peraltro, i capannoni funzionali all'esercizio dell'attività di allevamento di bovini erano stati realizzati in violazione della normativa urbanistica. A tal proposito si deve, infatti, porre in risalto come la giurisprudenza di questa Corte v. Cass. n. 8834 del 1997 abbia condivisibilmente statuito che al possessore del fondo non spetta indennizzo per addizioni consistenti in edifici abusivamente eretti sullo stesso, non potendo ammettersi alcun indennizzo per lo svolgimento di un'attività illecita anche sotto il profilo penale . Quanto al prospettato diritto al riconoscimento dell'indennizzo per i supposti miglioramenti apportati alla casa colonica ed al terreno, la doglianza è da ritenere inammissibile anche per difetto di specificità circa il richiamo dettagliato delle risultanze istruttorie dalle quali si sarebbe potuta desumere la spettanza di tale diritto, non risultando, in proposito, sufficiente un mero rimando generico al contenuto della relazione del c.t.u., alle fatture per l'acquisto di macchinari e ad altre attestazioni di pagamento non meglio identificate. 4. Con il quarto motivo i ricorrenti ha dedotto l'illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui non aveva riconosciuto il loro diritto al possesso del fondo. 4.1. Questa doglianza è manifestamente inammissibile sia per palese violazione dell'assolvimento del requisito prescritto dall'art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., sia perché non è supportata dalla necessaria esplicazione del quesito di diritto, imposta dall'art. 366 bis c.p.c 5. Con il quinto ed ultimo motivo i ricorrenti hanno denunciato l'erroneità della sentenza impugnata con riferimento al profilo della determinazione del risarcimento per indebita occupazione, individuando il seguente quesito di diritto dica la Corte se il giudice, nel determinare l'entità del risarcimento, deve adeguatamente motivare la sua decisione in ordine ai parametri presi a riferimento con argomentazioni non contraddittorie e prive di vizi logici” . 5.1. Anche quest'ultima censura si prospetta inammissibile perché con essa non risultano minimamente indicate le norme di diritto da dedurre a suo fondamento ed, inoltre, il quesito di diritto è da qualificarsi in termini di assoluta genericità. 6. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 applicabile nel caso di specie in virtù dell'art. 41 dello stesso D.M. cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.