Siamo alle solite: giardino condominiale o privato?

La circostanza che il bene a servizio di tutti i condomini sia accompagnato dalla ripartizione delle spese tra tutti i partecipanti al condominio rappresenta un innegabile indizio della natura condominiale della res a prescindere dalla circostanza che essa venga qualificata o meno come ‘condominiale’ all'interno degli atti di compravendita. Si torna a discutere della natura condominiale del giardino che, questa volta, era stato recintato ed annesso alla proprietà privata del singolo condomino con l'alibi di garantire la sicurezza dei bambini per poi trasformare l'abuso compiuto ai danni dei vicini in acquisizione della proprietà.

È questo il caso affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza numero 27302/13, depositata il 5 dicembre 2013. Il caso. Il caso nasce quando alcuni condomini, determinati a far valere i propri diritti, decidono di ricorrere alle aule di giustizia per far accertare la natura condominiale dell'area scoperta circostante tre lati del loro fabbricato. Le posizioni delle parti in causa, come di consueto, sono assolutamente inconciliabili. Una parte sostiene che il bene sia comune in quanto negli atti di acquisto degli immobili l'area in discussione veniva qualificata come ‘giardino condominiale’. Inoltre, ciliegina sulla torta, i costi di gestione del bene venivano ripartiti tra tutti i condomini per cui, nell'ipotesi in cui il bene fosse stato di uso esclusivo, al danno si sarebbe aggiunta la beffa! La controparte, peraltro, sosteneva di essere unica ed esclusiva proprietaria delle aree in contestazione. Il giudizio di merito si svolge a fasi alterne. Secondo il Tribunale il giardino sarebbe privato. Di contro, la Corte di Appello, ribaltando la situazione, ritiene che il bene sia condominiale per una serie di motivi risultanze dei titoli di acquisto ripartizione, per plurimi anni, tra tutti i condomini, delle spese per la gestione del bene presunzione di condominialità ex art. 1117 c.c La clausola ‘pro quota’. La circostanza che negli atti traslativi delle singole proprietà immobiliari non fosse stata specificata la vendita ‘pro quota’ delle aree in contestazione non rappresenta, secondo la Corte di Appello, un elemento sufficiente ad escludere la natura condominiale dell'area in contestazione. Tale circostanza sarebbe irrilevante pensando che proprio l'atto di provenienza qualificava espressamente l'area circostante il fabbricato come ‘condominiale’. Aree condominiali? La Corte di Cassazione, con la sentenza del 13 novembre - 5 dicembre 2013, numero 27302, conferma la fondatezza della tesi sostenuta dalla Corte territoriale riconoscendo la decisione del giudice di appello legittima perché fondata su una motivazione congrua e logica. La Corte di Appello, in definitiva, avrebbe ripercorso i vari passaggi di trasferimento delle proprietà, rilevando come in tutti i contratti di provenienza ivi compreso quello relativo ai soggetti che assumevano di essere proprietari esclusivi del giardino le aree scoperte erano state definite come condominiali. Anche le prove testimoniali erano a senso unico e dimostravano la condominialità del bene. La circostanza che i costi di gestione, per plurimi anni, erano stati ripartiti tra tutti i condomini, tagliava la testa al toro. In sostanza, la decisione della Corte di Appello non potrebbe essere attaccata in quanto supportata da una congrua ed autonoma sintesi delle ragioni poste alla base del convincimento dell'organo giudicante. La pertinenza può essere condominiale? Gli Ermellini, facendo propria una precedente pronuncia dell'8 novembre 2000, numero 14528, hanno dato una risposta affermativa al quesito. Secondo la Cassazione, è del tutto ammissibile una pertinenza in comunione al servizio di più immobili appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza stessa. L'asservimento reciproco del bene comune accessorio consente di ritenere implicitamente sussistente la volontà dei comproprietari di vincolare i beni accessori comuni a favore delle rispettive proprietà esclusive beni principali . L'individuazione dei beni comuni. La Cassazione sembra voler indicare una strada da seguire per l'individuazione dei beni comuni. I beni possono essere definiti tali quando concorrano una serie di elementi, di indici di riconoscibilità tra loro concomitanti. Nel caso in esame, tali indici sono stati rinvenuti in una serie di elementi concomitanti l'area esterna è stata considerata condominiale all'interno degli atti di acquisto tutti i condomini, nel tempo, avevano contribuito alle spese comuni il bene, di fatto, era a servizio di tutti i condomini. La lezione della Cassazione. Piazza Cavour, con la sentenza in commento, interviene sul tema, alquanto delicato, della individuazione dei beni condominiali. Come sappiano, le parti comuni dell'edificio, sono elencate nell'articolo 1117 c.c. che, recentemente, è stato ridisegnato dalla riforma del condominio. A seguito della riforma, i beni comuni vengono certamente delineati con maggior chiarezza e precisione rispetto al codice del 1942 facendo spazio a facciate, sottotetti, aree destinate a parcheggio, sistemi centralizzati di ricezione radiotelevisiva e reti infrastrutturali. I dubbi, tuttavia, permangono anche perché la giurisprudenza ha sempre interpretato in maniera esemplificativa e non tassativa il contenuto dell'articolo 1117 c.c. Cass. , sez. II, numero 16914/2011 Cass. , sez. II, numero 17993/2010 Cass. , sez. III, numero 6175/2009 . La presunzione contenuta nell'art. 1117 c.c. Più precisamente, la giurisprudenza afferma che i beni indicati nell'articolo 1117 c.c., si intendono comuni per presunzione derivante sia dall’attitudine oggettiva che dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune Cass. numero 6175/2009 . Intervenendo sul tema, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la locuzione presunzione di condominialità ex art. 1117 c.c. debba essere intesa in modo atecnico ed improprio per cui i beni indicati nella norma codicistica sarebbero comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo idoneo regolamento contrattuale, atti di acquisto delle singole unità immobiliari, usucapione ecc. Cass. , SSUU civ., numero 7449/1993 . In definitiva l a linea di demarcazione tra bene condominiale e bene privato sarebbe costituita dall'attitudine oggettiva del bene al godimento comune che può essere dimostrata con ogni mezzo di prova mentre l'indicazione contenuta nella norma codicistica sarebbe superabile dal titolo contrario con cui il privato può dimostrare di essere proprietario esclusivo del bene Cass. , Sez. II civ., numero 20358/2012 . Le nuove norme. La nuova formulazione dell'articolo 1117 c.c., seguendo il vecchio canovaccio, contiene un elenco dei beni comuni. Cosa cambia rispetto al passato? In prima approssimazione potremmo affermare che il Legislatore, questa volta, ha ampliato notevolmente la casistica. Le maggiori novità riguardano pilastri e travi portanti, le facciate, le aree destinate a parcheggio, alcune tipologie di impianti. Ma individuare correttamente le parti comuni di un fabbricato continua ad essere una impresa non sempre agevole. Cosa fare? In proposito, illuminante è il dettato legislativo nella parte in cui stabilisce art. 1117 numero 1 c.c. sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo 1 tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, . Ciò comporta che l'interprete dovrà chiedersi, nei casi dubbiosi, se quel particolare elemento possa essere più o meno necessario all'uso comune e comportarsi di conseguenza.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 13 novembre - 5 dicembre 2013, n. 27302 Presidente Triola – Relatore Carrato Svolgimento del processo Con atto di citazione, notificato tra i mesi di luglio ed agosto 1995, i sigg. B.L. , P.L. , Ca.Al. , Co.Da. , C.A.M. , C.L. e Bu.Al. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di La Spezia, i sigg. C.B. in G. , C.C. , G.M. e Ca.Cl. esponendo che - erano proprietari, per acquisti rispettivamente mortis causa i C. - Bu. nel 1960 e per atti inter vivos i B. - P. nel 1972 e 1973, di cinque unità abitative costituenti, con altre sette unità, il condominio omissis sito in omissis - che i proprietari delle suddette ulteriori sette unità abitative si identificavano con i sigg. C.C. , C.B. e G.M. - che l'edificio era circondato su tre lati da area pertinenziale, adibita a giardino nella parte più ampia, antistante l'edificio stesso - che, nei richiamati titoli di acquisto, tale area era indicata come giardino condominiale o area condominiale con riferimento alla parte posta sul davanti dell'edificio e come passaggio comune o passaggio condominiale in ordine alla porzione posta sul retro dell'edificio stesso e tali risultanze erano ricavabili anche dal titolo di proprietà del 1961 di C.M. oltre che dalla mappa catastale - che le aree in questione erano state, da sempre, utilizzate da tutti i condomini, i quali corrispondevano per quota le relative spese di manutenzione - che nel 1986 l'allora condomina C.M. , dante causa di C.B. , aveva recintato con un muretto il giardino condominiale senza l'autorizzazione degli altri condomini giustificando l'iniziativa intrapresa con l'esigenza di garantire sicurezza ai bambini che vi giocavano, installando, successivamente, anche un cancelletto nel retrostante passaggio condominiale - che l'avente causa C.B. , succeduta nel 1992 alla C.M. che non aveva messo in contestazione la condominialità delle aree , aveva sostenuto di essere proprietaria esclusiva di dette aree. Tanto premesso, i predetti attori evocavano in giudizio i suddetti convenuti affinché venisse dichiarato che essi avevano usucapito - ai sensi dell'art. 1159 c.c. ovvero in virtù dell'art. 1160 c.c. - le corrispondenti quote rimaste indivise di proprietà delle aree esterne dell'edificio, chiedendo, nel contempo, anche la condanna degli aventi causa di C.M. al ripristino dello stato dei luoghi ed al libero accesso dell'area retrostante l'edificio. Si costituivano in giudizio tutti i convenuti ad eccezione di C.O. , nei cui confronti era stata disposta l'integrazione del contraddittorio, e di Ca.Cl. , i quali resistevano, a vario titolo, alla pretesa attorea, contestando, in ogni caso, che si fossero venute a configurare le condizioni per dichiarare il dedotto acquisto delle aree controverse per usucapione. All'udienza di precisazione delle conclusioni, gli attori limitavano la domanda, così come originariamente proposta, qualificandola come accertamento della proprietà comune e chiedevano che il giudice adito dichiarasse il diritto dei condomini ad accedere al retrostante cortile ai sensi dell'art. 843 c.c Con sentenza n. 804 del 2002, il Tribunale di La Spezia respingeva le domande degli attori e, per l'effetto, dichiarava che le aree dedotte in controversia erano di proprietà di C.B. e G.M. , con le conseguenti statuizioni relative alla regolazione delle spese processuali. Interposto appello da parte di B.L. , P.L. , Ca.Al. , Co.La. quale coerede di Co.Da. , C.A.M. , C.L. e Bu.Al. sul presupposto che, alla stregua delle risultanze dei titoli dei vari passaggi dominicali, alle aree in questione si sarebbe dovuto applicare l'art. 1117 c.c. in tema di presunzione di condominialità , nella resistenza dei soli appellati C.C. che formulava, a sua volta, anche appello incidentale , C.B. e G.M. , la Corte di appello di Genova, con sentenza n. 1014 del 2007 depositata il 3 ottobre 2007 , respingeva l'appello incidentale, accoglieva - per quanto di ragione - quello principale e, di conseguenza, in parziale riforma della decisione impugnata, dichiarava di proprietà comune dei condomini di omissis sita in omissis , in catasto al foglio 11 mappale 572 l'area antistante l'edificio condominiale quale indicata nella planimetria catastale acquisita e condannava la C.B. a rimettere detta area a disposizione di tutti i condomini, eliminando ogni ostacolo al godimento comune dell'area stessa condannava, altresì, la medesima C.B. a rifondere, in favore degli appellanti principali, la metà delle spese del doppio grado di giudizio, dichiarando compensate le spese stesse con riferimento ad ogni altro rapporto intercorso tra le rimanenti parti in causa. A sostegno dell'adotta pronuncia la Corte ligure rilevava che, sulla scorta delle prove testimoniali e della documentazione acquisita, era emerso - al di là della qualificazione come condominiali delle aree controverse - l'utilizzazione comune delle stesse donde l'illegittimità delle opere sulle stesse eseguite nell'interesse di C.B. , con particolare riguardo al giardino così come era stata accertata l'avvenuta ripartizione per plurimi anni tra tutti i condomini delle spese di manutenzione delle medesime aree, senza che, in proposito, potesse avere influenza contraria la circostanza che negli atti traslativi non fosse stata specificata la vendita pro quota delle suddette aree, dal momento che, essendone stata affermata la natura condominiale, la vendita pro quota si sarebbe dovuta considerare come conseguente di diritto. Inoltre, la Corte territoriale osservava che pur dovendosi riconoscere il carattere condominiale anche al cortile retrostante, la relativa domanda era stata rinunciata dagli originari attori in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado, onde non poteva qualificarsi come ammissibile nel giudizio di appello, né la stessa si sarebbe potuta ricondurre al richiamo operato, in sede di gravame, all'art. 843 c.c. della fondatezza della cui azione, in ogni caso, non ricorrevano i presupposti . Avverso la suddetta sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione le signore M G. e F G. , quali eredi di C.B. e la prima anche in proprio , articolato in quattro motivi. Hanno resistito con controricorso gli intimati B.L. , P.L. , Ca.Al. , Co.La. , C.A.M. e Bu.Al. , mentre le altre parti ivi comprese quelle nei cui riguardi è stato successivamente esteso il contraddittorio con atto del 22 maggio 2008 non hanno svolto attività difensiva in questa sede di legittimità. Entrambi i difensori delle parti costituite hanno depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1. Con il primo motivo le ricorrenti hanno denunciato - ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. - la violazione e falsa applicazione degli artt. 1542 e segg. c.c., nonché il vizio di omessa, insufficiente e contraddittorietà della motivazione sul fatto controverso e decisivo della controversia relativo alla natura di vendita di eredità o di quota di eredità degli atti di cessione di diritti ereditari del 15 febbraio e del 6 marzo 1961 e al loro oggetto quote di eredità e non porzioni di singoli cespiti immobiliari . Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. ratione temporis applicabile alla fattispecie, risultando la sentenza impugnata pubblicata il 3 ottobre 2007 , è stato formulato - quanto alla dedotta violazione di legge - il seguente quesito di diritto dica la Suprema Corte se nella vendita di eredità o di quota ereditaria siano compresi - salvo specifico patto contrario - tutti i cespiti, o la quota di tutti i cespiti, ereditari appartenuti al de cuius, e se la elencazione di tali cespiti assolva, di regola, a funzioni di garanzia e pubblicità immobiliare e non di limitazione dell'oggetto della vendita . 1.1. Rileva il collegio che tale motivo è da qualificarsi inammissibile poiché con esso le ricorrenti hanno, in effetti, dedotto una questione del tutto nuova, in quanto esulante dal thema decidendum oggetto della instaurata controversia. Infatti, per quanto è dato evincere dalla stessa sentenza impugnata, la Corte territoriale non era stata affatto investita del compito di individuare la natura giuridica del titolo della intervenuta cessione dei beni in favore delle parti in causa e se, quindi, potesse discorrersi di vendita di eredità o di quote ereditarie , essendo stato incentrato l'oggetto della causa - per quanto desumibile anche dalla riportata narrativa del giudizio - soltanto sull'accertamento della natura condominiale o meno di alcune parti ricomprese nel complessivo edificio in questione, i cui singoli appartamenti erano stati venduti, nel corso del tempo, a terze persone. Deve, perciò, trovare conferma il principio per cui non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio cfr, ad es., Cass. n. 7981 del 2007 e, da ultimo, Cass. n. 17041 del 2013, ord . 2. Con il secondo motivo le ricorrenti hanno prospettato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1117, 922, 1350 e 817 c.c., nonché il vizio di omessa, contraddittoria ed incongrua motivazione sul fatto controverso e decisivo della causa relativo all'esistenza di soggetti E C. ed i suoi successori titolari di quota di proprietà indivisa dei cortiletti oggetto del giudizio, ma non proprietari di unità immobiliari nella omissis , alla loro partecipazione alla decisione ed accordo di imprimere ai cortiletti stessi il controverso vincolo pertinenziale, in favore di immobili appartenenti a terzi soggetti. Con riferimento alla denunciata violazione di legge risulta posto il seguente quesito di diritto dica la Suprema Corte se l'accordo - e i vincoli che ne promanano - con il quale il proprietario di una quota indivisa di bene immobile assoggetti il predetto immobile a vincolo pertinenziale in favore di unità immobiliari di terzi non debba rivestire la forma scritta, e se, a seguito di tale accordo, lo stesso diritto di proprietà, per la quota indivisa, sia eo ipso trasferita in quota millesimale ai soggetti terzi proprietari dei beni principali, in favore dei quali è stabilito il vincolo pertinenziale . 2.1. Questa censura - supportata da un idoneo assolvimento del requisito di ammissibilità ex art. 366 bis c.p.c. ratione temporis applicabile nella specie, risultando la sentenza impugnata pubblicata il 3 ottobre 2007 - è infondata e deve, pertanto, essere rigettata. In sostanza, con tale doglianza, le ricorrenti assumono che la Corte genovese sarebbe incorsa nella dedotta violazione di legge e nel prospettato vizio motivazionale nella parte in cui, rilevata la omessa menzione dei cortiletti nell'elenco dei beni oggetto di cessione dei diritti di C.A. in favore di C.M. , aveva ritenuto che gli eredi di C.A. avessero deciso di destinare le due aree, oggetto di controversia, a pertinenze condominiali e, sulla scorta di tale ricostruzione, aveva considerato che l'area antistante omissis fosse di proprietà comune ed avesse, quindi, natura condominiale. Diversamente dalla rappresentata ricostruzione delle ricorrenti, occorre evidenziare che, con motivazione congrua e logica, la Corte di secondo grado, ripercorrendo i vari passaggi di trasferimento delle proprietà, ha rilevato come fosse stata univocamente significativa della comune volontà dei proprietari degli appartamenti la circostanza che in tutti i contratti di provenienza ivi compreso quello in cui la C.M. ricopriva la qualità di venditrice le aree controverse erano state definite come condominiali e che tale circostanza era rimasta confermata anche dalle risultanze della complessiva prova orale espletata e dall'ulteriore produzione documentale, oltre che dall'accertato riscontro dell'effettuata ripartizione, per plurimi anni, tra tutti i condomini di varie spese riguardante la manutenzione delle aree ritenute comuni. In tal senso risulta logicamente giustificata la consequenziale affermazione della Corte ligure in virtù della quale l'univoco e concorde comportamento dei condomini di omissis ed, in particolare, degli eredi di C.A. , compatibile con le risultanze dei numerosi contratti stipulati e per come emergente dalla destinazione in concreto impressa alle aree in discorso, stava a dimostrare che queste ultime, già dal 1961, avevano assunto, per facta concludentia non essendo necessaria, in proposito, l'adozione di un forma solenne cfr., ad es., Cass. n. 3574 del 1999 e Cass. n. 6230 del 2000 , la natura giuridica di parti comuni pertinenziali del complesso condominiale. Così argomentando, al di là delle oggettive risultanze documentali verificate negli atti di alienazione degli immobili, il giudice di appello si è conformato al condivisibile principio già espresso dalla giurisprudenza di questa Corte cfr. Cass. n. 14528 del 2000 , alla stregua del quale deve considerarsi ammissibile una pertinenza in comunione al servizio di più immobili appartenenti in proprietà esclusiva ai condomini della pertinenza stessa, dal momento che l'asservimento reciproco del bene comune accessorio consente di ritenere implicitamente sussistente la volontà dei comproprietari di vincolare i beni accessori comuni a favore delle rispettive proprietà esclusive beni principali . 3. Con il terzo motivo le ricorrenti hanno dedotto un ulteriore vizio di omessa, insufficiente ed incongrua motivazione della sentenza impugnata circa il fatto controverso e decisivo ai fini del giudizio relativo alla situazione possessoria e all'utilizzazione dell'area antistante la omissis . 3.1. Anche questa censura non è meritevole di pregio e va disattesa. In primo luogo deve evidenziarsi che manca l'indicazione di una congrua ed autonoma sintesi delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renderebbe inidonea a giustificare la decisione, onde, per questo verso, la doglianza si profila - ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. - propriamente inammissibile. Il motivo si prospetta, invece, infondato con riferimento all'assunta omissione o contraddittorietà della motivazione, poiché - per quanto già esplicitato in ordine alla seconda censura - la Corte territoriale ha idoneamente e logicamente giustificato il proprio percorso argomentativo sulla scorta delle illustrate risultanze documentali e degli esiti complessivi delle prove orali, dai quali ha tratto ulteriore conforto circa la condominialità delle aree controverse in virtù dell'esercizio di fatto realizzato da parte dei condomini stessi. Del resto è risaputo che il vizio di omessa o errata motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice del merito, quale risulti dalla sentenza, sia riscontrabile il deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento in senso difforme da quello preteso dalla parte perché l'art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c. non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'analisi e la valutazione fatte dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, in proposito, valutare le risultanze processuali, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le stesse, quelle ritenute più idonee per la decisione. 4. Con il quarto ed ultimo motivo le ricorrenti hanno denunciato la supposta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., congiuntamente al vizio di omesso esame del fatto controverso e decisivo della causa riguardante la pluriventennale situazione possessoria delle aree in questione, in capo a C.M. e, poi, a C.B. , e alla conseguente intervenuta usucapione delle aree medesime. Quanto alla dedotta violazione di legge risulta formulando il seguente quesito di diritto dica la Suprema Corte se il mancato esame da parte della Corte di appello di Genova della domanda di usucapione formulata dalla parte in primo grado, e richiamata nella comparsa di risposta di appello, viola le disposizioni di cui agli artt. 112 e 346 c.p.c. . 4.1. Anche quest'ultima censura è priva di fondamento e deve essere rigettata. Invero, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che la C.B. non aveva ritualmente riproposto in appello la domanda o, comunque, l'eccezione di usucapione, essendosi la stessa limitata - con la comparsa di risposta e di costituzione depositata in secondo grado esaminabile anche in questa sede in virtù della natura processuale del vizio denunciato - a richiedere il rigetto dell'appello, con vittoria di spese, diritti e d onorari del giudizio senza, peraltro, formulate propriamente alcun appello incidentale . A tal proposito bisogna sottolineare cfr., ad es., Cass. n. 10796 del 2009 e Cass. n. 5735 del 2011 che, in materia di procedimento civile, in mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale l'appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado così come la parte vittoriosa in primo grado con riferimento alle domande od eccezione respinte, anche implicitamente, con la sentenza impugnata , se è pur vero che queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse, è altrettanto vero che, ancorché libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni precisate davanti al primo giudice come verificatosi nel caso di specie laddove, nel corpo dell'atto costitutivo della C.B. , si legge richiamate tutte le difese esposte in primo grado . e, al termine dello stesso, si conclude nel seguente modo voglia la Corte respingere l'appello proposto con vittoria di spese, diritti ed onorari” . 5. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna delle soccombenti ricorrenti con vincolo solidale al pagamento - in favore delle parti controricorrenti, in via fra loro solidale - delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 applicabile nel caso di specie in virtù dell'art. 41 dello stesso D.M. cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, con vincolo solidale, al pagamento - in favore della parti controricorrenti, in via fra loro solidale - delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.