Il tradimento a pochi mesi dalle nozze non rende irrilevante la convivenza: esclusa la nullità del matrimonio

Respinta la richiesta dell’uomo, che puntava al riconoscimento della sentenza pronunciata in ambito ecclesiastico. Decisivo il dato relativo alla convivenza, durata oltre tre anni, tra lui e la consorte. Inutile il richiamo del marito a un presunto matrimonio puramente formale.

La decisione di avere una relazione extraconiugale dopo appena 4 mesi di matrimonio non può rendere puramente formale la convivenza sotto lo stesso tetto con la consorte per oltre 3 anni. Ciò comporta il rigetto della richiesta del marito di vedere riconosciuta dallo Stato italiano la nullità del matrimonio sancita in ambito ecclesiastico Cassazione, ordinanza n. 30900/19, sez. VI Civile, depositata oggi . Convivenza. In appello la domanda presentata dall’uomo è ritenuta priva di fondamento alla luce di un dato certo la stabile convivenza con la moglie per oltre tre anni dalla data delle nozze . Impossibile, quindi, riconoscere la sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio . L’uomo contesta la visione adottata in appello, osservando, tramite il proprio legale, che i due requisiti stabilità ed esteriorità della convivenza per oltre tre anni sono in questo caso inesistenti egli espone, difatti, di aver avuto una relazione extraconiugale pochi mesi dopo la celebrazione delle nozze e di aver vissuto con la moglie come un separato in casa già dopo quattro mesi di vita coniugale. In sostanza, secondo l’uomo, pur a fronte di una convivenza continuativa , essa è stata comunque l’espressione di un matrimonio meramente formale . Adesione affettiva e convivenza. Alla visione proposta dall’uomo ribattono i giudici della Cassazione, chiarendo che la non adesione affettiva da parte di un coniuge o di entrambi i coniugi non può rendere irrilevante il dato relativo al rapporto di convivenza durato oltre tre anni. Ciò perché la mancanza di affectio coniugalis può essere rilevante solo se entrambi i coniugi la riconoscono al momento della proposizione della domanda di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio o se essi abbiano manifestato inequivocamente all’esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale ma come una semplice coabitazione . Difatti, è irrilevante, aggiungono i Giudici, accertare se l’unione fra moglie e marito sia stata, nel periodo di convivenza ultratriennale, più o meno felice, ovvero se vi sia stata una parziale o integrale non adesione affettiva da parte dei coniugi al dato fattuale della convivenza , poiché tale mancanza di adesione affettiva può acquistare rilevanza giuridica solo se viene concordemente riconosciuta e manifestata all’esterno, in modo da togliere alla convivenza ogni valenza riconducibile all’estrinsecazione del rapporto coniugale . Tirando le somme, è fragile la linea proposta dall’uomo, che si è limitato ad attestare una personale non adesione affettiva al matrimonio dopo pochi mesi dalla sua celebrazione , ma tale attitudine psicologica , osservano in chiusura i giudici, non ha impedito a moglie e marito di vivere insieme per oltre tre anni, dando continuità alla convivenza che avevano intrapreso in quanto coniugi . Impossibile, quindi, riconoscere la nullità del matrimonio decisa in ambito ecclesiastico.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 1, ordinanza 5 febbraio – 26 novembre 2019, n. 30900 Presidente Genovese – Relatore Bisogni Rilevato che 1. La Corte di Appello di Perugia ha respinto la domanda, proposta dal sig. Ef. Bu.r di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, contratto con la sig.ra Be. Pe. e celebrato il 17 settembre 2011. La Corte di appello richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Cass. Civ. S.U. n 16379 del 17 luglio 2014 ha ritenuto di dover respingere la domanda sul presupposto della stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del matrimonio. 2. Ricorre per cassazione il sig. Bu. con due motivi illustrati anche con memoria difensiva. Con il primo, con il quale deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 8 comma 2 della legge n. 121/1985 e dell'art. 797 c.p.comma sostiene che secondo la giurisprudenza delle SS.UU. i due requisiti stabilità ed esteriorità della convivenza ultratriennale, ostativi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento, sono, nel caso in esame, insussistenti ed espone di aver avuto una relazione extraconiugale già a partire dal 2012 e di aver vissuto con la Pe. come un separato in casa già dal dicembre del 2011. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l'omesso esame di un fatto decisivo rilevando che dalla sentenza ecclesiastica non può evincersi la continuità della convivenza. In ogni caso il ricorrente ritiene errata la interpretazione e qualificazione della convivenza, come stabile e continuativa, ai fini dell'applicazione della citata giurisprudenza di legittimità, perché, anche a voler qualificare la convivenza come continuativa, essa sarebbe stata comunque l'espressione di un matrimonio meramente formale. 3. Si difende con controricorso Be. Pe Ritenuto che 4. Il ricorso è infondato alla luce della giurisprudenza citata cfr. anche Cass. Civ. sez. I n. 8494 del 27 gennaio 2015 e la giurisprudenza successiva . 5. Il Collegio oltre a ribadire che la convivenza come coniugi , quale elemento essenziale del matrimonio-rapporto , ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ordine pubblico italiano , la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del matrimonio-atto intende altresì affermare che il dato incontroverso come nel caso in esame della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis sia rilevante che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato inequivocamente all'esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l'affermazione comune dell'esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione. In altri termini è necessaria una ricognizione comune ed esteriorizzata della esclusione del carattere coniugale della convivenza. In questa prospettiva appare irrilevante accertare se l'unione fra i coniugi nel periodo di convivenza ultratriennale sia stata più o meno felice ovvero se vi sia stata una parziale o integrale non adesione affettiva da parte dei coniugi al dato fattuale della convivenza. Tale mancanza di adesione affettiva può acquistare rilevanza giuridica solo se viene concordemente riconosciuta e manifestata all'esterno in modo da privare alla convivenza ogni valenza riconducibile all'estrinsecazione del rapporto coniugale. 6. Nel caso in esame questo ulteriore requisito che renda rilevante la mancanza di affectio coniugalis non è stato dedotto dal ricorrente né tantomeno provato. Esso è inoltre contestato dalla controricorrente. Pertanto le deduzioni del ricorrente potrebbero tuttalpiù attestare una sua non adesione affettiva al matrimonio dopo pochi mesi dalla sua celebrazione ma tale attitudine psicologica non ha impedito ai due coniugi di vivere insieme per oltre tre anni dando continuità alla convivenza che avevano intrapreso in quanto coniugi. 7. Il ricorso deve essere pertanto respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione applicazione dell'art. 13 del D.P.R. n. 115/2002 quanto alla imposizione del versamento di ulteriore somma pari a quella già versata dal ricorrente a titolo di contributo unificato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.600 Euro, di cui 200 per spese, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Dispone che in caso di pubblicazione della presente ordinanza siano omesse le generalità e gli altri elementi identificativi delle parti. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell'art. 13 comma 1 bis del D.P.R. n. 115/2002.