Il figlio maggiorenne disconosciuto può mantenere il cognome solo con domanda autonoma

In virtù della natura potestativa e personalissima del diritto al nome, in caso di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio maggiorenne del cognome paterno è subordinato alla specifica azione che non può ritenersi implicita nella mera opposizione al disconoscimento.

Lo ha affermato la Suprema Corte con l’ordinanza n. 28518/19, depositata il 6 novembre. Il caso. La Corte d’Appello di Roma decidendo quale giudice del rinvio accoglieva la domanda di disconoscimento di paternità con ordine all’ufficiale di Stato civile di procedere alle relative annotazioni sulla perdita del cognome paterno da parte del figlio, non avendo questi – rimasto peraltro contumace fino al giudizio di rinvio - formulato richiesta di mantenimento. Il figlio ha proposto dunque ricorso per cassazione deducendo la violazione dell’art. 95, comma 3, d.P.R. n. 396/2000. Il diritto al mantenimento del cognome. Il Collegio ricorda che, in caso di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio maggiorenne del cognome paterno è espressione di un diritto potestativo e personalissimo definito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 13/1994. La relativa domanda di accertamento deve essere proposta giudizialmente, anche in via riconvenzionale e subordinata all’accoglimento della principale sullo status . Non potendo essere oggetto di rilievo officioso, la domanda di mantenimento del cognome paterno non può infatti ritenersi compresa nell’opposizione del figlio all’azione di disconoscimento di paternità. Richiamando la citata sentenza del Giudice delle Leggi, la pronuncia ricorda che nella materia del cognome si impone una fondamentale distinzione tra quella che è la disciplina civilistica e delle leggi speciali sul riconoscimento di uno status, o i rapporti di filiazione in genere, per la quale ai sensi dell’art. 6 c.c. vi è corrispondenza tra status ed attribuzione del cognome, ed i casi in cui non si ha, o non si ha più, siffatta corrispondenza . In queste ultime ipotesi sorge la necessità di protezione della persona con il riconoscimento del diritto alla conservazione di uno nome, rispetto al quale non ha o non avrebbe più titolo, quale parte essenziale ed irrinunciabile della personalità. In tale contesto infatti il cognome non assolve più alla funzione di segnare la discendenza di una persona da una determinata famiglia, ma diviene strumento di identificazione di quella persona nella sua vita di relazione . In conclusione, l’accoglimento della domanda di disconoscimento della paternità comporta che il soggetto in precedenza riconosciuto perda il cognome del padre, in virtù del favor veritatis . Laddove egli intenda conservare il cognome deve esercitare l’autonomo diritto al nome a mezzo di distinta domanda di attribuzione, non potendo riconoscersi l’implicito esercizio del diritto suddetto nella mera opposizione all’azione principale di disconoscimento La Cassazione rigetta dunque il ricorso e compensa tra le parti le spese di lite.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 23 settembre – 6 novembre 2019, n. 28518 Presidente Giancola – Relatore Scalia Fatti di causa 1. La Corte di appello di Roma con la sentenza in epigrafe indicata, decidendo quale giudice del rinvio su riassunzione del giudizio in esito all’annullamento disposto dalla Corte di cassazione, in accoglimento dell’impugnazione proposta da I.M. nei confronti di R.G.Y. e di I.S. avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 2390 pubblicata il 13.11.2009, ha dichiarato che I.M. , nato a omissis , non è il padre di I.S. , nato a omissis , con ordine al competente ufficiale dello Stato civile di procedere alle relative annotazioni sulla perdita del cognome paterno da parte del figlio, non avendo questi, rimasto finanche contumace nel giudizio di rinvio, formulato una richiesta al mantenimento. 2. Ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza I.S. con unico articolato motivo cui resiste con controricorso I.M. . Ragioni della decisione 1. Il ricorrente con unico articolato motivo denuncia dell’impugnata sentenza la violazione del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 95, comma 3, e degli artt. 2 e 3 Cost In primo grado, ancora minorenne costituitosi a mezzo del procuratore speciale, egli si era opposto alla domanda di disconoscimento e quindi, implicitamente, alla perdita del cognome del padre, tratto distintivo della propria identità personale. Nel giudizio di appello, poi, celebrato in sede di rinvio, I.M. , che aveva promosso l’azione di disconoscimento della paternità, nel formulare le proprie conclusioni aveva manifestato la volontà di non far rettificare il cognome a I.S. . La Corte di merito diversamente decidendo sarebbe incorsa nella mancata applicazione del portato della sentenza della Corte costituzionale n. 13/1994 che aveva riconosciuto il diritto al mantenimento del cognome e tanto aveva fatto in una fattispecie di disconoscimento della paternità, in cui il ricorrente - che, di anni ventisette, su quel cognome aveva costruito la propria identità personale, protetta dalle previsioni costituzionali sulla persona - si era opposto alla domanda. Il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 3, all’esito dell’indicata pronuncia del Giudice delle leggi avrebbe previsto per l’interessato la possibilità di chiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome. 2. In via preliminare, a definizione di quanto è ancora in contestazione tra le parti, va escluso che vengano in valutazione le statuizioni assunte dalla Corte di appello di Roma, all’esito del rinvio disposto da questa Corte di legittimità con la precedente sentenza di annullamento n. 14556 del 2014, sul disconoscimento di paternità promosso da I.M. , capo su cui deve intendersi, pertanto, caduto il giudicato. 3. Per il proposto motivo si deduce dal ricorrente infatti sulla diversa questione del diritto al mantenimento del cognome da parte di colui che, maggiorenne, ne risulti privato all’esito dell’azione di disconoscimento della paternità favorevolmente risolta dal giudice del merito. 4. Il motivo è infondato per ragioni che, di carattere processuale, rinvengono fondamento e giustificazione nella individuazione di natura e contenuti del diritto azionato. L’affermazione di principio da cui questa Corte di legittimità deve muovere nella valutazione del caso di specie è che, in caso di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio maggiorenne del cognome paterno è espressione di un diritto potestativo e personalissimo che, definito dall’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1994, deve tradursi in una domanda di accertamento da proporsi in sede giudiziale, anche in via riconvenzionale e subordinata all’accoglimento della principale sullo status che, non potendo essere oggetto di rilievo officioso quale accessoria statuizione della prima, non può ritenersi ricompresa nella mera e generica opposizione all’azione di disconoscimento proposta che l’avente diritto abbia manifestato, resistendo all’avversa azione. L’indicato principio consegue all’affermazione per la quale nella natura personalissima del diritto a mantenere - rispetto ad azioni di stato di riconoscimento della filiazione o di disconoscimento della paternità cui segua, in affermazione del favor veritatis, la necessità della rettifica dell’atto dello stato civile D.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 49 comma 1 lett. o con perdita del cognome in uso - l’integrità del proprio nome che abbia assunto, con rilevanza ed autonomia proprie, le caratteristiche di un segno distintivo della identità personale proiettata all’esterno, la legittimazione alla distinta azione di accertamento spetta al solo titolare e non ammette sostituzioni sulla natura personalissima del diritto al nome per il meccanismo previsto dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 3, che ha codificato il principio enunciato, jus superveniens, con la pronuncia della Corte costituzionale Cass. 15/02/2017 n. 4020, massimata su altro, in motivazione a p. 11 Cass. 16/04/2014 n. 8876, non massimata, par. 3 . Come ricordato dal Giudice delle leggi con la sentenza del 13 febbraio 1994, n. 13, nella materia del cognome si impone una fondamentale distinzione tra quella che è la disciplina civilistica e delle leggi speciali sul riconoscimento di uno status, o i rapporti di filiazione in genere, per la quale, ai sensi dell’art. 6 c.c., vi è corrispondenza tra status ed attribuzione del cognome, ed i casi in cui non si ha, o non si ha più, siffatta corrispondenza ed in cui a tutela e protezione della persona può esserle riconosciuto il diritto alla conservazione di un nome, rispetto al quale non ha o non avrebbe più titolo, quale elemento di identificazione in quanto parte essenziale ed irrinunciabile della personalità in termini, in motivazione, anche Cass. n. 8876 del 2014 . In siffatta ipotesi il cognome non assolve più alla funzione di segnare la discendenza di una persona da una determinata famiglia, ma diviene strumento di identificazione di quella persona nella sua vita di relazione. L’indicata prospettiva è ben presente al legislatore ordinario là dove prevede che in materia di riconoscimento della filiazione al di fuori del matrimonio il figlio possa mantenere il cognome precedentemente attribuitogli in quanto sia divenuto autonomo segno della sua identità personale art. 262 c.c., comma 3, secondo periodo sull’autonomia della domanda alla conservazione del cognome rispetto a quella sullo status Cass. 04/02/1978 n. 1507 . 5. Definita nei segnati termini la natura del diritto ai mantenimento dei cognome da parte di una persona maggiorenne, il ricorso va rigettato in difetto di domanda dell’avente diritto. L’accoglimento della domanda di disconoscimento della paternità comporta, in affermazione del favor veritatis che si accompagna all’esercizio delle azioni sullo status, che il soggetto in precedenza riconosciuto perda il cognome del padre e che là dove egli intenda conservarlo tanto debba fare attraverso l’esercizio dell’autonomo diritto al nome, tratto caratterizzante della personalità ex art. 2 Cost., che, come definito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 1994, deve essere introdotto a mezzo di una distinta domanda di attribuzione senza che valga a contrastare l’automatismo insito nel sopra indicato meccanismo - cui segue la rettifica del cognome come atto dovuto - una posizione processuale di mera resistenza all’azione principale sullo status o, ancora, una condotta di non contestazione di colui che abbia proposto domanda di disconoscimento. 6. Le spese processuali, in ragione della natura della lite, restano compensate tra le parti. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. P.Q.M. Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di lite. Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.