Dichiarazione giudiziale di paternità: il rifiuto dell’esame del DNA equivale ad ammettere di essere padre

L’accertamento immuno-ematologico per l’accertamento della paternità non è subordinato alla prova dell’esistenza di una relazione, e il rifiuto ingiustificato a sottoporvisi, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., è suscettibile di essere valutato come ammissione.

Questo è il principio ribadito dalla prima sezione della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 16128/19, emessa nella camera di consiglio del 21 maggio 2019 e depositata il successivo 14 giugno, a chiusura di un ricorso presentato nel 2017, in un caso riguardante una domanda di riconoscimento di paternità, in cui il supposto padre si era rifiutato, in primo grado, di essere sottoposto al test del DNA. Il caso. La sentenza del 28 marzo del 2017 della Corte di appello di Milano aveva rigettato l’appello presentato dal presunto padre di una minore, avverso la decisione del Tribunale della stessa città, con cui a seguito di ricorso della madre era stato dichiarato che il resistente fosse padre della minore. Con la stessa sentenza la Corte d’Appello aveva confermato che la minore dovesse assumere il cognome del padre. Durante il giudizio di primo grado, in cui era stato sentito come testimone un altro figlio della ricorrente, il presunto padre si era rifiutato di sottoporsi al test del DNA. Di conseguenza, il tribunale, ai sensi dell’art. 116 c.p.c, aveva dato per accertata la circostanza. La sentenza di primo grado e quella di appello avevano disatteso l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., con riferimento agli artt. 117 Cost. e 8 CEDU e nei punti in cui prevedono l’imprescrittibili ta dell’azione volta a ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità. La sentenza di primo grado inoltre, considerando ingiustificato il rifiuto del presunto padre di sottoporsi al test aveva reputato, visto l’oggetto del giudizio e le caratteristiche del procedimento, che tale ingiustificato comportamento potesse costituire unica è sufficiente fonte di piena prova della propria decisione. Questa statuizione era stata confermata dalla sentenza d’appello, poi impugnata per la sua cassazione, che peraltro, aveva sostenuto esservi elementi sufficienti per affermare, in termini di elevata probabilità, l’esistenza di una relazione tra la ricorrente e il presunto padre, e confermato la legittimità della decisione di ammettere la CTU finalizzata ad accertare la compatibilità dei profili biologici delle parti. Contro tale decisione, ha presentato ricorso il presunto padre affidandosi a quattro motivi, poi seguiti da memoria ex art. 380- bis c.p.c Secondo il ricorrente, l’altro figlio della signora C.P. non avrebbe potuto testimoniare, in quanto portatore di un interesse, e la Corte d’appello avrebbe inoltre violato l’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 2729 c.c., utilizzando per la propria decisione delle presunzioni semplici, in mancanza di requisiti di gravità, precisione e concordanza. Inoltre, la Corte avrebbe errato, violando gli artt. 115 Cost., 2697 c.c. e 115 c.p.c. ammettendo la consulenza tecnica ematico – biologica. Infine, nel ricorso veniva nuovamente sollevate l’eccezione di incostituzionalità, già disattesa da entrambi i giudici di merito, dell’art. 270, comma 1, c.c. nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale di paternità rispetto al figlio, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. con riferimento all’art. 8 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali CEDU . Ha resistito con controricorso la madre. Nella domanda di accertamento giudiziale della paternità, costituisce prova sufficiente la CTU ematico – biologica a cui il padre ha rifiutato ingiustificatamente di sottoporsi, non essendo indispensabile dimostrare l’esistenza di una relazione tra i genitori. La Cassazione ha respinto interamente il ricorso, in parte in quanto infondato e in parte poiché inammissibile. L’ordinanza ha ricordato che è orientamento consolidato quello per cui, nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica cosiddetta percipiente, ove il CTU non solo deve valutare i fatti acclarati o dati per esistenti, ma anche di accertare i fatti stessi. È quindi sufficiente, oltre ad essere ovviamente necessario, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova. Nei procedimenti in questione, tale mezzo istruttorio rappresenta, attesi i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, e che presenta margini di sicurezza elevatissimi, per l’accertamento del rapporto di filiazione naturale. Con esso il giudice accerta l’esistenza o meno di compatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con competenze tecniche particolari. Di conseguenza, prosegue la Suprema Corte, nei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di paternità, l’ammissione della CTU come descritta non è subordinata alla prova della relazione o di un rapporto sessuale tra i presunti genitori, dato che il principio della libertà di prova di cui all’art. 269, comma 2, c.c., non sopporta limitazioni, né dalla fissazione di una sorta di gerarchia tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare la paternità, né mediante l’imposizione al Giudice di una sorta di ordine cronologico nell’assunzione dei mezzi di prova. Una volta accertata l’ammissibilità, quindi, la Cassazione ha ricordato il principio pacifico per cui, nel giudizio come quello che ci occupa, il rifiuto di sottoporsi a indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di valore indiziario talmente alto da potere, da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda principio ribadito dalla citazione, nell’ordinanza, dei numerosi precedenti giurisprudenziali di legittimità . Di conseguenza, la Suprema ha respinto il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 21 maggio – 14 giugno 2019, n. 16128 Presidente Bisogni – Relatore Campese Fatti di causa 1. Con sentenza del 28 marzo 2017, n. 1321, la Corte di appello di Milano ha rigettato il gravame proposto da E.A. e confermato la decisione n. 2019/15 con cui il tribunale di quella stessa città, in accoglimento della domanda di P.C. , aveva dichiarato che costei è figlia di E.A. , disponendo che ella assumesse il cognome del padre. 1.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte i ha fatto proprie le esaustive argomentazioni con cui il giudice di prime cure aveva disatteso l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., con riferimento all’art. 117 Cost., ed art. 8 CEDU, laddove prevede l’imprescrittibilità, riguardo al figlio, dell’azione volta ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, ivi riproposta dall’E. . Ha aggiunto, in proposito, che l’art. 8 CEDU, nel consentire la possibilità di ingerenza nella vita familiare e privata di un soggetto, pone unicamente il limite che essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la protezione dei diritti e delle libertà altrui la norma in esame, dunque, delega al legislatore il contemperamento tra i contrapposti interessi in gioco. La scelta operata dal legislatore italiano di non porre limiti temporali al figlio per instaurare il giudizio volto all’accertamento della paternità e della maternità non può dirsi contrastare con la disposizione CEDU, considerato anche il sempre maggior favore attribuito, nelle società democratiche, all’accertamento della verità su di un aspetto della persona tanto fondamentale quanto la conoscenza delle proprie origini ii ha ritenuto ammissibile ed attendibile la deposizione di Q.R. , figlio della P. , disattendendone la eccezione di incapacità a testimoniare ivi ribadita dall’appellante iii riesaminate le risultanze istruttorie del giudizio di prime cure, ha sostenuto esservi elementi sufficienti per affermare, in termini di elevata probabilità, l’esserci stata una relazione tra P.A. madre di C. ed E.A. iv rimarcato il principio di libertà della prova sancito, in materia, dall’art. 269 c.c., comma 2, ha confermato la legittimità della decisione di ammettere la c.t.u. finalizzata ad accertare la compatibilità dei profili biologici delle parti v evidenziato che l’E. neppure aveva tentato di dare una qualsiasi spiegazione alla sua indisponibilità a sottoporsi all’accertamento peritale, ha reputato che, stanti l’oggetto del giudizio e le caratteristiche del procedimento, tale ingiustificato comportamento potesse costituire unica e sufficiente fonte di prova della propria decisione. 2. Avverso questa sentenza ricorre per cassazione l’E. , affidandosi a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c Resiste, con controricorso, P.C. . Ragioni della decisione 1. I formulati motivi denunciano, rispettivamente I Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione dell’art. 246 c.p.c. incapacità a testimoniare del sig. Q.R. , figlio di P.C. . Si insiste nell’affermare che la deposizione del Q. non poteva essere assunta ed utilizzata, attesa la incapacità di questi a testimoniare derivante dalla sua legittimazione a svolgere intervento adesivo dipendente nella causa volta ad ottenere la declaratoria giudiziale della paternità promossa dalla madre nei confronti dell’odierno ricorrente II Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 2729 c.c., comma 1 ammissione di presunzioni semplici in difetto di requisiti di gravità, precisione e concordanza . Si imputa alla corte distrettuale di aver posto a fondamento della propria decisione elementi tutt’al più presuntivi ma senz’altro privi dei requisiti della gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., comma 1, così violando l’art. 116 c.p.c., comma 1, che impone al giudice di valutare le prove con prudenza III Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione dell’art. 111 Cost., art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c. inammissibilità della consulenza tecnica introdotta con provvedimento in data 5 giugno 2013 . Si ribadisce l’eccezione di inammissibilità della consulenza tecnica ematico-biologica, in violazione dell’art. 111 Cost., art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c., riproponendo la corrispondente doglianza già disattesa dalla corte milanese IV Riproposizione, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 24, comma 2, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., comma 1, nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale di paternità rispetto al figlio, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, con riferimento all’art. 8 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali CEDU . Si reitera la descritta eccezione di incostituzionalità già disattesa dai giudici di entrambi i gradi di merito. 2. Ritiene il Collegio di dover esaminare prioritariamente il terzo motivo, atteso il valore decisivo che la giurisprudenza di legittimità - sul duplice presupposto che la corretta interpretazione dell’art. 269 c.c., commi 2 e 4, conduce ad escludere che possa sussistere un ordine gerarchico delle prove riguardanti l’accertamento giudiziale di paternità e maternità, e che, dunque, in un siffatto contesto operativo, il giudice può liberamente valutare le prove, non sussistendo limiti legali art. 116 c.p.c., comma 1 , e trarre argomenti di prova dal contegno processuale delle parti art. 116 c.p.c., comma 2 - attribuisce, in controversie come quella in esame, alla mancata sottoposizione della parte agli accertamenti tecnici di tipo ematico biologico ove non adeguatamente giustificata. 2.1. Costituisce, invero, orientamento consolidato cfr., tra le più recenti, Cass. n. 32308 del 2018, in motivazione quello secondo cui, nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica cd. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti acclarati o dati per esistenti, ma anche di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova cfr. Cass. n. 6155 del 2009 Cass. n. 4792 del 2013 . Nei procedimenti in questione, tale mezzo istruttorio rappresenta, attesi i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari cfr. Cass. n. 14462 del 2008 . 2.2. Nei giudizi suddetti, peraltro, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di una relazione o di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269 c.c., comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di ordine cronologico nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status cfr. Cass. n. 3479 del 2016 . 2.3. Inoltre, merita di essere ricordato l’ormai pacifico indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche - nella specie opposto dall’E. - costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da potere, da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda cfr. Cass. n. 32308 del 2018 Cass. n. 16356 del 2018 Cass. n. 26914 del 2017 Cass. n. 18626 del 2017 Cass. n. 3479 del 2016 Cass. n. 6025 del 2015 Cass. n. 12971 del 2012 Cass. n. 11223 del 2014 . In altri termini, sebbene la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2 cfr. Cass. n. 32308 del 2018 . 2.3.1. Giova, infine, rimarcare, che sono state ritenute manifestamente infondate i la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 269 c.c., comma 2, secondo la quale la prova della paternità o maternità naturale può essere data con ogni mezzo, alla luce di un preteso contrasto con l’art. 30 Cost., comma 4, secondo il quale la legge detta i limiti per la ricerca della paternità cfr. Cass., n. 8059/97 il la questione di legittimità costituzionale - per violazione degli artt. 13, 15, 24, 30 e 32 Cost., - del combinato disposto dell’art. 269 c.c., e artt. 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA. Invero, dall’art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento, o meno, ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della L. 31 dicembre 1996, n. 675 cfr. Cass. n. 14458 del 2018 . 2.4. Alla stregua dei principi tutti fin qui esposti, la doglianza in esame si rivela infondata, attesa la insussistenza delle violazioni di legge ivi denunciate. 2.4.1. Affatto correttamente, invero, la corte distrettuale, da un lato, ha ritenuto ammissibile la c.t.u. concernente la compatibilità dei profili biologici contestata dall’odierno ricorrente, ed il cui carattere cd. percipiente cfr. Cass. n. 32308 del 2018 ne consentiva l’utilizzo - nemmeno subordinato all’esito della prova storica dell’esistenza di una relazione o di rapporti sessuali tra l’odierno ricorrente ed P.A. madre della controricorrente cfr. Cass. n. 3479 del 2016 - come mezzo direttamente ed oggettivamente volto ad acquisire la prova di quanto invocato da P.C. dall’altro, ha fatto applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 2, laddove, nel confermare la paternità naturale dell’E. sancita dal giudice di prime cure, ha valorizzato il rifiuto di quest’ultimo, rimasto privo di adeguata giustificazione, di sottoporsi alla prova genetica circostanza, giova ricordarlo, di per sé sola, già idonea comunque a sorreggere l’adottata decisione. 3. Sono, invece, inammissibili i primi due motivi, esaminabili congiuntamente perché evidentemente connessi. 3.1. Le censure ivi esposte argomentano nel senso che le dichiarazioni rese da Q.R. , figlio della odierna controricorrente, sarebbero state rese da soggetto incapace di testimoniare, in quanto potenzialmente legittimato a svolgere intervento adesivo dipendente nel giudizio intrapreso da P.C. al fine sentirsi dichiarare giudizialmente figlia dell’E. , sicché non avrebbero potuto integrare il quadro probatorio posto dal giudice di prime cure a base dell’ammissione della c.t.u. e, poi, dell’accoglimento della domanda, anche, in ogni caso, in ragione della loro inattendibilità. 3.2. Orbene, rileva il Collegio che, secondo un principio generale, costantemente ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, l’incapacità a deporre prevista dall’art. 246 c.p.c., si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., così da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione, non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto ad un determinato esito del giudizio stesso - salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste -, né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio cfr., ex aliis, Cass. n. 167 del 2018 Cass. n. 21418 del 2015 Cass. n. 9353 del 2012 Cass. n. 5079 del 1990 Cass. n. 805 del 1978 . 3.2.1. È stato altresì affermato che la valutazione della sussistenza, o meno, dell’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è rimessa, così come quella inerente all’attendibilità dei testi ed alla rilevanza delle deposizioni, al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata cfr., ex multis, Cass. n. 167 del 2018 Cass. n. 1188 del 2007 Cass. n. 1101 del 2006 Cass. n. 15526 del 2000 Cass. n. 17630 del 2010, in motivazione . 3.3. Nel caso in esame, la corte distrettuale, disattendendo la corrispondente eccezione, ex art. 246 c.p.c., in quella sede riproposta dall’E. , e ribadendo l’attendibilità della deposizione del Q. ha affermato, rispettivamente, che lo stesso appellante ipotizza una partecipazione del Q. del tutto eventuale ed ipotetica che esula, dunque, dalla previsione dell’art. 246 c.p.c. , riconoscendo che egli potrebbe partecipare al giudizio solo qualora sua madre venisse meno ovviamente prima del passaggio in giudicato della sentenza . In aggiunta a quanto precede, si osserva che, in tal caso, in quanto parte egli non potrebbe certamente giovare della propria deposizione, sicché neppure è ravvisabile quel corto circuito giuridico indicato a pag. 16 dell’atto di appello per sostenere la tesi dell’incapacità a testimoniare , e che non emergevano elementi per dubitare di detta attendibilità il Q. si è limitato a riferire circostanze per lo più de relato, in parte confermate dallo stesso appellante e da suo fratello l’incontro fra le parti presso la trattoria del secondo . Non sussiste, poi, la rilevata contraddizione fra le dichiarazioni rese dal Q. e quelle rese da E.U. in merito al contenuto della conversazione intervenuta nella trattoria i testi, infatti, non hanno partecipato all’incontro ed hanno dunque potuto unicamente riferire la versione loro resa dai due diversi soggetti appellata ed appellante . Non si può certamente escludere che uno dei due abbia fornito una versione non veritiera, e che per tale motivo vi sia discrepanza sul punto fra le due testimonianze cfr. pag. 5-6 della sentenza impugnata . Trattasi, come è agevole rilevare, di un percorso argomentativo esauriente, privo di vizi logici e, pertanto, insindacabile in questa sede, rivelandosi la censura del ricorrente inammissibilmente finalizzata ad una alternativa rivalutazione del giudizio di capacità a testimoniare del Q. ovvero della sua attendibilità. 3.4. Il ricorrente mostra, dunque, di incorrere nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge, processuale o sostanziale, dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito 1 abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge 2 abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione cfr. Cass. n. 2038 del 2019 Cass., n. 1229 del 2019 Cass. n. 27000 del 2016 . Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse cfr. Cass. 24434 del 2016 . La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione cfr. Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione . Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove salvo che non abbiano natura di prova legale , peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati cfr. Cass. n. 11176 del 2017 . In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere, o meno, la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice di merito cfr. Cass. n. 3267 del 2008 , altresì evidenziandosi che le prove orali di cui il ricorrente lamenta l’errata valutazione , appaiono tutt’altro che decisive , giusta quanto si è detto esaminando prioritariamente il terzo motivo, sicché le doglianze in esame si rivelerebbero, in ogni caso, inammissibili, per difetto d’interesse, lamentando la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, prive di qualsivoglia influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, come tale diretta, quindi, all’emanazione di una pronuncia senza effettivo rilievo pratico cfr. Cass. n. 20689 del 2016, nonché, con specifico riferimento alla incapacità a testimoniare, Cass. n. 21418 del 2014 . 4. Quanto, infine, alla eccezione di incostituzionalità dell’art. 270 c.c., comma 1, con riguardo all’art. 117 Cost., ed art. 8 CEDU, nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale di paternità rispetto al figlio, come oggi riproposta nel quarto motivo, la stessa si rivela manifestamente infondata alla stregua di quanto già sancito da Cass. n. 24292 del 2016, che, delibando un’eccezione pressoché analoga anche quanto agli invocati parametri normativi di riferimento, ha ritenuto essere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., nella parte in cui, affermandosi l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, non sarebbe previsto un termine decadenziale per l’ipotesi in cui l’azione sia esercitata con notevole ritardo, con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo. Infatti, da un lato, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost., ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità e, dall’altro, l’eventuale accoglimento della questione sarebbe impedito dal rilievo secondo cui solo il legislatore potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all’imprescrittibilità . Alle esaustive giustificazioni offerte da questa pronuncia a supporto di tale affermazione - che questo Collegio integralmente condivide - può, dunque, agevolmente rinviarsi in questa sede, dovendosi soltanto aggiungere che la successiva Cass. n. 7960 del 2017, giudicando manifestamente infondata un’analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. sebbene alla stregua degli artt. 2, 3, 24 e 30 Cost. nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, ha affermato che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l’aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell’identità personale del figlio . 5. Il ricorso va, quindi, respinto restando le spese del giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza, e dandosi atto, altresì, - in assenza di ogni discrezionalità al riguardo cfr. Cass. n. 5955 del 2014 Cass., S.U., n. 24245 del 2015 Cass., S.U., n. 15279 del 2017 - della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, applicabile ratione temporis, essendo stato il ricorso proposto nell’ottobre 2017 , in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione norma in forza della quale il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest’ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta. 6. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna l’E. al pagamento, nei confronti di P.C. , delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del medesimo ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 bis. Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.