La mancata reiterazione di una richiesta istruttoria gli costa un assegno di mantenimento

Nel giudizio di separazione, qualora la parte si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie, questa ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni. Diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello.

Lo ha ribadito la Suprema Corte con sentenza n. 16864/17 depositata il 7 luglio. Il caso. L’ex marito ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che confermava la separazione dalla moglie e l’assegno di mantenimento a suo carico. In particolare, il ricorrente lamenta, fra le altre cose, il fatto che la Corte territoriale non aveva provveduto a valutare se la domanda di addebito della moglie fosse rituale e neppure se fosse ammissibile la prove testimoniale in appello. Mezzi di prova. Relativamente a tale doglianza, la Corte rileva il principio giurisprudenziale secondo cui nei giudizi di separazione e divorzio in appello, che si svolgono secondo il rito camerale, l’acquisizione dei mezzi di prova e dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si posa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio . Nella fattispecie, la Corte d’Appello aveva rilevato la decadenza del marito dalla prova testimoniale non perché dedotta ex novo in appello, ma perché non reiterata in sede di precisazione delle conclusioni in prime cure. In tal senso, prosegue la Cassazione, i Giudici d’Appello hanno fatto corretta applicazione di un altro principio giurisprudenziale, ossia quello secondo cui la parte che si sia vista rigettare o non ammettere dal giudice di prime cure le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poiché, diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello . Per tutti questi motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 30 marzo – 7 luglio 2017, n. 16864 Presidente Di Palma – Relatore Sambito Fatti di causa Con sentenza del 26.7.2010, il Tribunale di Latina ha pronunciato la separazione dei coniugi D.L.S. e P.S. rigettando la domanda di addebito formulata dalla moglie e ponendo a carico del marito l’assegno di mantenimento di Euro 250,00 mensili. La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma, che, con sentenza in data 20.11.2013, per quanto d’interesse, ha ritenuto che a l’eccezione d’inammissibilità della memoria difensiva depositata in appello dalla moglie alla prima udienza di trattazione era infondata, trattandosi di rito camerale ed essendo stato rispettato il contraddittorio b la domanda di addebito proposta dal marito, solo, in seno all’appello, era inammissibile, perché nuova b , il rigetto della domanda di addebito proposta dalla P. non era stato da lei impugnato, sicché le considerazioni svolte al riguardo dal marito erano precluse dal giudicato c la circostanza che la convivenza fosse durata meno di un anno non escludeva di per sé il diritto all’assegno di mantenimento, di cui sussistevano i presupposti, e cioè la disparità economica tra i coniugi, e la mancanza da parte della moglie di autonomi mezzi, onde assicurarsi il tenore di vita coerente con le potenzialità economiche della famiglia d la prova testimoniale circa l’attività economica della moglie era stata dedotta dal D.L. tardivamente e non era stata reiterata in sede di conclusioni, con conseguente decadenza dalla possibilità di riproporla in appello e la compensazione delle spese era stata rettamente disposta data la reciproca soccombenza, restando esclusa la fondatezza della domanda di risarcimento ex art. 96 c.p.c., non sussistendo mala fede o colpa grave. Per la cassazione della sentenza, D.L.S. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi. L’intimata non ha depositato controricorso, ma il suo difensore è comparso per la discussione alla pubblica udienza. Ragioni della decisione 1. Col primo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 156 c.c. 167 184, co 3 184 bis 189 341 345 350 706 737 738 c.p.c. L. 6.3.1987 n. 74, in riferimento alle statuizioni sub a b e d della narrativa. La Corte territoriale, lamenta il ricorrente, non aveva valutato se la domanda di addebito della P. fosse rituale né se fosse ammissibile la prova testimoniale in appello. Il ricorrente deduce, sotto un primo profilo, che la Corte avrebbe dovuto annullare la decisione di prime cure, perché relativa a domanda presentata ex adverso in modo non tempestivo e, sotto altro profilo, che la Corte avrebbe dovuto accogliere la richiesta di prova testimoniale tenuto conto del rito camerale in appello. Il motivo è infondato in entrambe le sue articolazioni. 1.1. La prima è inammissibile sia perché non intacca la ratio decidendi dell’impugnata sentenza, che sul rilievo della mancata impugnazione da parte della moglie della statuizione di rigetto dell’addebito, ha rilevato la formazione del giudicato al riguardo, sia perché il ricorrente non ha alcun interesse a dedurre la questione della ritualità della proposizione di detta domanda, in relazione alla quale lo stesso è rimasto totalmente vittorioso nel merito. 1.2. In relazione alla seconda sub-censura, secondo profilo, va rilevato che il principio più volte espresso da questa Corte, secondo cui nei giudizi di separazione e divorzio in appello - che si svolge secondo il rito camerale, ai sensi dell’art. 4, co 12, della legge 1.12.1970, n. 898 nel testo sostituito ad opera dell’art. 8 della L 6.3.1987, n. 74 - l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, non risulta invocato a proposito. Nella specie, infatti, la Corte ha rilevato la decadenza del marito dalla prova testimoniale non perché era stata dedotta ex novo in appello, ma perché non era stata reiterata in sede di precisazione delle conclusioni in prime cure. Ha cioè fatto applicazione della giurisprudenza secondo cui la parte che si sia vista rigettare - o, il che è lo stesso, non ammettere - dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poiché, diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello cfr. Cass. 10/08/2016 n. 16886 4/08/2016 n. 16290 ord. 27/06/2012 n. 10748 27/04/2011 n. 9410 14/10/2008, n. 25157 . Se, dunque, neppure in questo caso, il ricorrente centra la ratio decidendi della decisione, va evidenziato che il principio applicato dalla Corte territoriale non è in contraddizione logica con quello invocato in questa sede, in quanto la previsione in appello del rito camerale nei procedimenti di separazione e divorzio non vale a modificare i principi propri del rito ordinario, che, dopo la fase presidenziale, governa il giudizio di primo grado, e pertanto non può sanarne le eventuali decadenze. 2. Col secondo mezzo, si denuncia, sempre in riferimento alla statuizione sub b , la violazione degli artt. 143, 151 cc e 345 c.p.c., per la mancata valutazione del comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio posti in essere dalla moglie. 2.1. Il motivo, che trascrivendo brani delle difese svolte, si richiama alla giurisprudenza di questa Corte in tema di valutazione complessiva della condotta di entrambi i coniugi, va dichiarato inammissibile alla stregua delle argomentazioni svolte al precedente § 1.1., dovendosi, appunto, ribadire che, in assenza di proposizione di autonoma domanda di addebito della separazione a carico della moglie, l’indagine relativa al comportamento della stessa non può sortire alcun esito giuridicamente rilevante per il ricorrente, in quanto le conseguenze di natura patrimoniale in materia di assegno di mantenimento non possono che essere connesse con l’espressa declaratoria qui non richiesta di addebito della separazione. 3. Col terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli att. 156 e 2697 c.c. 115, 116 c.p.c. L. 13.4.1977 n. 114 art. 24 d.P.R. 20.10.1988 n. 403 art. 1 co 1 lett. b , poi sostituito dal d.P.R. 28.12.2000 n. 445 art. 46, co 1 lett. o . La situazione reddituale della moglie, afferma il ricorrente, era stata desunta dalla dichiarazione resa dalla stessa di non essere tenuta a presentare la dichiarazione dei redditi, priva di effetti in sede civile il diritto all’assegno di mantenimento avrebbe dovuto esser ritenuto insussistente, per mancanza di prova di uno stile di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, essendo addirittura mancata la convivenza. 3.1. Il motivo presenta profili d’inammissibilità e d’infondatezza. Anzitutto, la valutazione della certificazione depositata dalla moglie non si pone in contrasto col principio dispositivo della prova, ma costituisce un’applicazione di quello secondo cui non è possibile la materiale dimostrazione di un fatto negativo il ricorrente allude, peraltro, ad introiti in nero inoltre, e ciò è assorbente, l’oggetto della prova verteva, non già, sulla presentazione della dichiarazione dei redditi da parte della P. , ma sulla ricorrenza, in capo alla stessa, del requisito della mancanza di redditi propri adeguati, la cui valutazione è rimessa all’apprezzamento del giudice del merito che non è peraltro vincolato a recepire le risultanze delle dichiarazioni fiscali cfr. Cass. 16/09/2015 n. 18196 , e può ben fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie, come è avvenuto nella specie, in cui si è tenuto conto delle disposte indagini della GdiF. Resta da aggiungere, da una parte, che la separazione instaura un regime il quale tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza - e, quindi, anche il tenore ed il tipo di vita di ciascuno dei coniugi - e, dall’altra, che la Corte territoriale ha fatto, correttamente, riferimento al tenore di vita potenziale della coppia, desumendolo dai dati reddituali esposti, sicché la relativa determinazione attiene al merito ed è insindacabile in questa sede di legittimità. 4. Con il quarto ed il quinto motivo, il ricorrente lamenta, rispettivamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 96 c.p.c. e 2697 c.c. non avendo la Corte d’Appello ravvisato i presupposti della mala fede o colpa grave nel comportamento della moglie che non aveva riferito in giudizio della sua attività lavorativa e così lucrato di un maggior importo dell’assegno la violazione degli artt. 91 e 92, per non avere i giudici d’appello condannato la P. , parte soccombente, alle spese del giudizio di primo grado. 4.1. Il quinto motivo, che va esaminato con priorità, è infondato. Esso non si tiene conto né del capo della sentenza, con cui è stato considerato l’accoglimento della domanda di separazione, proposta anche dalla moglie, né del riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento, sia pur di entità inferiore a quella richiesta, sicché, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, la P. non può considerarsi parte soccombente. 4.2. Tanto basta ad escludere la fondatezza della domanda di risarcimento del danno da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., che, integrando una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, non può trovare applicazione quando, come nella specie, non sussista il requisito della totale soccombenza cfr. Cass. 14.4.2016 n. 7409 . 5. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 1.700,00, di cui di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori. Ai sensi dell’art. 13, co 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.