Tradimento confermato: paternità disconosciuta e cognome sottratto all’ex figlio

I sospetti si trasformano in realtà, alla luce di alcuni esami ematologici. Consequenziale è l’azione messa in moto dall’uomo, che, intanto separatosi dalla moglie, ottiene il disconoscimento della paternità. A margine viene anche imposto il cognome della madre al figlio, che non ha neanche presentato un’azione finalizzata a conservare il cognome del padre, da lui sempre utilizzato.

Prima il semplice sospetto, poi, purtroppo, la conferma – dati ematologici alla mano – la moglie lo ha tradito, facendogli credere che il bimbo da lei partorito fosse il loro figlio. Legittima non solo l’azione di disconoscimento della paternità, ma anche la richiesta – con esito positivo – dell’uomo di vedere cancellato il suo cognome, originariamente attribuito al ragazzo Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 8876/14 depositata oggi . Cognome strappato. Lunga, annosa vicenda giudiziaria, nata agli albori del 2000 e trascinatasi sino ad oggi. Oltre dieci anni di battaglia – peraltro già con un approdo in Cassazione –, conclusi dalla vittoria – se così la si può definire – dell’uomo, che vede accolta la domanda di disconoscimento di paternità , con consequenziale ordine all’ufficiale di stato civile di attribuire all’oramai ex figlio il cognome della madre . Fatali alcuni esami ematologici con cui l’uomo ha avuto la conferma di ciò che aveva sospettato l’adulterio della moglie da cui, comunque, si è separato consensualmente . Ad opporsi alla decisione sono la donna e il figlio, i quali sostengono che prima della sentenza della Corte Costituzionale del 2006 – con cui è stato cancellata quella parte dell’art. 235 del c.c. in cui si subordinava, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, l’esame delle prove tecniche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie – nessuna indagine ematologica sarebbe stata possibile , quindi la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare rivolta all’accertamento dell’adulterio , e, di conseguenza, non vi era alcuna necessità di proporre la domanda di mantenimento del cognome . Peraltro, il figlio spiega di essere divenuto un ingegnere chimico affermato a livello internazionale, utilizzando il cognome del padre, cognome che, aggiunge, non rappresenta un identificativo inscindibilmente connesso con la famiglia dell’autore del disconoscimento, né è collegato con un casato particolarmente illustre . Ma tali obiezioni vengono respinte dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, districandosi tra giurisprudenza costituzionale e riferimenti normativi, richiama la possibilità, per il figlio, di ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo fosse ormai da ritenersi come autonomo segno distintivo della sua identità personale . Ciò significa che il figlio avrebbe potuto formulare la domanda diretta al mantenimento del cognome , a prescindere dalle probabilità di accoglimento dell’azione di disconoscimento . Ma aver rinunciato a questa possibilità ha, ora, un prezzo evidente.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 20 marzo – 16 aprile 2014, n. 8876 Presidente Forte – Relatore Didone Ragioni in fatto e in diritto della decisione 1.- C.R. convenne il 27.03.1990 dinanzi al Tribunale di Salerno la moglie N.A. - dalla quale si era separato consensualmente il 13.5.1983 - e l’avvocato Di Fluri Vittoria, curatrice speciale del minore C.S., nato il 23.7.1982, nei cui confronti propose il disconoscimento di paternità, avendo verificato attraverso alcuni esami ematologici la fondatezza del sospetto dell’adulterio della moglie. Il Tribunale rigettò la domanda, essendo rimasta senza effetto l’indagine genetico-ematologica, per il rifiuto della N. di sottoporre sè ed il minore ai necessari prelievi. La Corte di appello di Salerno, con sentenza del 16.4.2002, confermò la decisione di primo grado. Con sentenza n. 4175 del 2007 la Corte di cassazione accolse il ricorso proposto da C.R. rilevando che la Corte Costituzionale con sentenza del 6.7.2006 n. 266 aveva dichiarato illegittimo l’art. 235 c.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordinava l’esame delle prove tecniche da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. La Corte di appello di Salerno, con sentenza in data 7.5.2010, pronunciando in sede di rinvio, ha accolto la domanda di disconoscimento proposta da C.R., ordinando all’Ufficiale dello Stato civile di attribuire a S. il cognome della madre e - per quanto ancora rileva in questa sede - ha dichiarato inammissibile - perché nuova - la domanda proposta da C.S. di mantenimento del cognome C. ai sensi dell’art. 45 DPR n. 396/2000. Contro la sentenza di appello C.S. e Adriana N. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Non hanno svolto difese gli intimati. 2.1.- Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 95 DPR n. 396/2000. Deducono che prima della sentenza della Corte costituzionale del 2006 nessuna indagine ematologica sarebbe stata possibile e la domanda di disconoscimento non avrebbe potuto superare la fase preliminare rivolta all’accertamento dell’adulterio. Talché non vi era alcuna necessità di proporre la domanda di mantenimento del cognome. Il ricorrente deduce di essere divenuto - nelle more del giudizio - ingegnere chimico affermato a livello internazionale utilizzando il cognome C., che non rappresenta un identificativo inscindibilmente connesso con la famiglia dell’autore del disconoscimento né è collegato con casato particolarmente illustre. Sarebbe applicabile lo jus superveniens. 2.2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 394 C.P.C. nonché vizio di motivazione. Deducono che l’art. 394 c.p.c. consente in sede di conclusioni le modifiche rese necessarie dalla sentenza della Cassazione e che solo a seguito della sentenza della Corte costituzionale e delle modifiche apportate dal Legislatore gli era consentito proporre la domanda di mantenimento del cognome. 3.- Entrambi i motivi di ricorso - esaminabili congiuntamente - sono infondati. Ve rilevato, infatti, che la Corte costituzionale, sin dal 1994 Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13 ha osservato che, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, ove si accerti che il cognome già attribuito ad un soggetto non è quello spettantegli per legge in base allo ‘status familiae’, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto mediante la rettifica dell’atto riconosciuto non veritiero, ma non può condurre a sacrificare l’interesse individuale a conservare il cognome mantenuto fino a quel momento nella vita di relazione e divenuto ormai segno distintivo dell’identità personale, tutelata dall’art. 2 Cost. tanto più che, nel caso in cui la rettifica riguardi persona in età avanzata con discendenti, la negazione dell’interesse individuale finirebbe col pregiudicare lo stesso interesse generale alla certa e costante identificazione delle persone. Pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo - per contrasto con l’art. 2 Cost. - l’art. 165 del r. d. 9 luglio 1939 n. 1238, nella parte in cui non prevedeva che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dal soggetto cui si riferisce, comportava il cambiamento del cognome, il soggetto stesso potesse ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli ove questo fosse ormai da ritenersi autonomo segno distintivo della sua identità personale. L’art. 95, comma 3, del DPR 3 novembre 2000, n. 396 ha codificato il principio enunciato con la pronuncia della Corte costituzionale, prevedendo che nell’ipotesi di rettificazione di atti dello stato civile l’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale . Pertanto, sin dal 1994, nel corso del giudizio di primo grado, invocando lo jus superveniens costituito dalla pronuncia della Corte costituzionale, il C. costituito a mezzo di curatore speciale avrebbe potuto formulare la domanda diretta al mantenimento del cognome. Ciò a prescindere dalle probabilità di accoglimento dell’azione di disconoscimento e per l’ipotesi di positivo esperimento della stessa. Dunque, la possibilità di formularla non è dipesa dalla pronuncia della Corte costituzionale sull’art. 235 c.c. né dalla pronuncia della Cassazione. E’ errato, peraltro, il presupposto dal quale muovono i ricorrenti cioè l’impossibilità per il C. di richiedere l’applicazione dell’art. 95, comma 3, cit. per effetto del formarsi del giudicato sull’inammissibilità della domanda proposta in questo giudizio. Per converso, deve essere ricordato che nel processo civile, l’irregolarità nell’introduzione di una domanda, sanzionata dall’ordinamento con l’invalidità ostativa ad una pronunzia nel merito, non è vizio che attenga all’esistenza dei presupposti di un diritto o di una azione pertanto, in caso di omessa pronunzia nel merito su una domanda dichiarata inammissibile per vizio nella sua introduzione o notificazione, la parte interessata può denunziare l’omissione in sede di gravame, previa impugnazione della declaratoria d’inammissibilità o del rigetto in rito, ovvero coltivare la domanda in separato giudizio, posto che la rinunzia implicita alla pretesa, correlabile al mancato esperimento del gravame, ha valore meramente processuale e non sostanziale ne consegue che, in quest’ultimo caso, non possono essere fondatamente opposte né una preclusione derivante dalla mancata impugnazione della precedente sentenza per la dichiarata inammissibilità o per il rigetto in rito, né una preclusione da giudicato sulla domanda Sez. 1, n. 13614/2010 . Il ricorso, dunque, deve essere rigettato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 marzo 2014