Regime di comunione legale violato: lesione intatta anche se vi è ‘sostituzione’ dei beni

Azzerata l’ottica adottata dai giudici di Appello, che avevano considerato comunque legittimo il comportamento di un uomo che aveva sì ceduto alcuni beni immobili senza il consenso della moglie ma col ricavato aveva acquistato un appartamento comunque destinato a far parte del patrimonio comune. Ma ciò che conta, viene evidenziato in Cassazione, non è l’ottica economica della sostituzione dei beni, ma quella giuridica della lesione patrimoniale subita dalla donna.

Comunione legale tra i coniugi come regime da salvaguardare a prescindere. Senza possibilità di ricorrere a un’ottica di simil-compensazione. Ciò che conta, difatti, è l’illegittimità dell’azione compiuta dal componente della coppia, mettendo da parte la valutazione della validità dell’operazione realizzata Cassazione, sent. n. 23199/2012, Seconda Sezione Civile, depositata oggi . Operazione ai ‘raggi x’. A scatenare la bagarre è l’operazione messa in atto dall’uomo, che ‘ignora’ il regime di comunione legale e, senza il consenso della moglie, vende alcuni beni immobili – per farlo dichiara di essere celibe e proprietario esclusivo –, utilizzando poi il ricavato per effettuare l’acquisto di un altro appartamento, destinato a ricadere, comunque, nel patrimonio comune della coppia. Nonostante quest’ultimo passaggio, però, la moglie chiede il pagamento della metà del valore dei beni immobili ceduti a sua insaputa e, allo stesso tempo, il risarcimento dei danni. Domanda legittima? Assolutamente sì per i giudici di primo grado, che le riconoscono complessivamente oltre 230mila euro. Ma questa cifra viene, a sorpresa, azzerata in secondo grado. Per i giudici di Appello, difatti, la coppia era ancora in regime di comunione legale e quindi la domanda della donna ad ottenere la metà del valore degli immobili ceduti è inammissibile perché volta a sciogliere la comunione legale . Eppoi, evidenziano i giudici, comunque l’uomo, coi soldi ottenuti, aveva acquistato altro appartamento, che ricadeva nella comunione legale e che era di valore superiore a quello venduto . Deduzione illogica. A essere oggetto degli strali della donna è, in generale, la decisione assunta in secondo grado, e, in particolare, il presunto collegamento tra vendita e successivo acquisto portati a termine dal marito. Ciò che dovrebbe avere rilievo, sottolinea la donna nel ricorso proposto in Cassazione, è la violazione del diritto di comproprietà ella si è vista, contro la sua volontà, privata dell’appartamento di maggior pregio . Ebbene, le riflessioni proposte dalla donna hanno un fondamento logico per i giudici della Cassazione, i quali considerano come illogica, invece, la deduzione portata avanti in Appello, ossia che l’acquisto del nuovo appartamento annullava di fatto la lesione provocata dalla precedente vendita ‘occulta’. L’ottica da utilizzare era molto più stretta l’indagine non poteva che arrestarsi all’accertamento della illegittimità della condotta posta in essere dall’uomo, fatto questo pacifico poiché egli aveva provveduto alla vendita di un bene comune all’altra parte senza il suo consenso ed anzi occultando con false dichiarazioni lo stato di comunione del bene . Per i giudici di Cassazione, quindi, è evidente l’ipotesi della sottrazione del bene , non certo quella della mera sostituzione dei beni cadenti in comunione , altrimenti si rischia di rendere prevalente il giudizio economico rispetto a quello giuridico . Di conseguenza, è da annullare la pronunzia emessa in Appello, laddove i giudici dovranno riaffrontare la questione e valutare con più attenzione la lesione subita dalla donna.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 23 novembre – 17 dicembre 2012, n. 23199 Presidente Triola – Relatore Bertuzzi Svolgimento del processo Con atto di citazione del 1999, M.R.M.J. convenne dinnanzi al tribunale di Roma il marito T.V.E., chiedendone la condanna al pagamento della metà del valore dei beni immobili relativi ad un appartamento sito in via Ostilia a Roma da questi venduti senza il suo consenso, dichiarando falsamente di essere celibe e proprietario esclusivo nonostante il regime di comunione legale dei beni stessi. Espletata istruttoria anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di primo grado accolse la domanda e condannò il convenuto al pagamento della somma di euro 54.227,97 a titolo di restituzione del prezzo ricevuto dalle vendite e dell’ulteriore importo di euro 180,500,25 per il risarcimento dei danni, costituiti dal maggior valore dell’immobile rispetto al prezzo di vendita e dal danno morale. Interposto gravame da parte del T., con sentenza n. 217 del 17 gennaio 2006 la Corte di appello di Roma riformò integralmente la decisione impugnata, rigettando le domande proposte dall’attrice. La Corte romana motivò la sua decisione affermando che, poiché le parti erano ancora in regime di comunione legale dei beni, la domanda dell’attrice diretta ad ottenere la metà del valore dell’appartamento di via Ostilia era inammissibile, in quanto volta a sciogliere la comunione legale esistente, atteso che con il ricavato di tale vendita il T. aveva acquistato altro appartamento in Roma, in via Maira, che ricadeva, al pari del precedente, nella comunione legale, e che era di valore superiore a quello venduto, circostanza questa che portò il giudicante a disattendere anche la domanda di risarcimento del danno. Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 19 dicembre 2006, ricorre M.R.M.J., affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso T.V.E. Motivi della decisione Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059, 1223, 1224, 1226 cod. civ., dell’art. 185 cod. pen., degli artt. 41 e 42 Cost., ed omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando che la Corte di appello abbia dichiarato inammissibile la domanda della ricorrente in forza di un collegamento tra le vendite e l’acquisto successivo della casa di via Maira in realtà inesistente, facendo riferimento, quanto alle cessioni, alla vendita del solo appartamento di via Ostilia del 1997, tralasciando l’esame degli altri tre atti con cui, nel 1992, il T. aveva venduto, sempre con riferimento allo stabile di via Ostilia, le proprie quote relative al locale ripostiglio ed al terrazzino del piano di copertura ed al terrazzino con ripostiglio. Errata, oltre che del tutto priva di motivazione, è inoltre l’affermazione del giudice di merito secondo cui con il ricavato della vendita di tali porzioni immobiliari il convenuto avrebbe acquistato, nel 1997, l’altro appartamento di via Maira. In ogni caso si assume che la soluzione accolta dalla Corte distrettuale da un lato non ha tenuto conto del contenuto del diritto di comproprietà della attrice, la quale si è vista, contro la sua volontà, privata dell’appartamento di maggior pregio di via Ostilia, e dall’altro ha valorizzato il successivo acquisto da parte del T. di altro appartamento, che invece, rispetto all’illecito da questi perpetrato, costituiva un’operazione del tutto neutra, irrilevante ai fini del decidere si aggiunge che comunque alla ricorrente andava riconosciuta la differenza tra il prezzo indicato nella vendita ed il maggior valore dell’immobile, come accertato dal consulente tecnico d’ufficio. Sotto altro profilo, la sentenza viene censurata per avere disatteso la richiesta di risarcimento dei danni, avanzata sia a titolo contrattuale che extracontrattuale, e respinta con una motivazione del tutto laconica. In particolare, si assume che la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avrebbe dovuto essere autonomamente valutata e quindi accolta, avendo la condotta del convenuto integrato il delitto di false attestazioni sullo stato civile. Il motivo è fondato. La Corte romana ha motivato la propria statuizione di rigetto della domanda principale dell’attrice di condanna della controparte al pagamento di metà del prezzo incassato per la vendita dei beni comuni relativi all’immobile di via Ostilia ritenendo che essa si risolvesse in una richiesta di scioglimento della comunione legale, inammissibile in assenza di una causa legale di scioglimento, avendo il convenuto reinvestito la somma ricavata dalla cessione nell’acquisto di altro appartamento, ricadente al pari del primo nel regime di comunione legale dei coniugi, circostanza che ha portato il giudicante anche ad escludere la sussistenza di un danno patrimoniale. Il ragionamento così svolto non può essere condiviso, essendo inficiato dall’evidente errore del giudice distrettuale di avere dato rilievo dirimente ad un fatto l’acquisto da parte del T. del diverso appartamento di via Maira di per sé del tutto estraneo alla fattispecie sottoposta a giudizio, nei cui confronti l’indagine non poteva che arrestarsi all’accertamento dell’illegittimità della condotta posta in essere dal convenuto, fatto questo del tutto pacifico risultando dagli atti che questi aveva provveduto alla vendita di un bene comune all’altra parte senza il suo consenso ed anzi occultando con false dichiarazione lo stato di comunione del bene stesso. L’acquisto dell’appartamento di via Maira da parte del T. costituiva, in particolare, un dato irrilevante ai fini del decidere perché esso era intrinsecamente estraneo al fatto illecito ascritto al convenuto, che si era interamente consumato, anche nei suoi effetti pregiudizievoli, con la vendita dei beni di via Ostilia. Né tale dato poteva assumere rilevanza sotto il profilo che il nuovo appartamento sarebbe stato acquistato con il prezzo ricavato dalla vendita del bene comune, per avere, in sostanza, il convenuto compiuto non una sottrazione del bene, ma, attraverso il rivestimento del prezzo di vendita, una mera sostituzione dei beni cadenti in comunione. Al di là della mancanza, che pure va rilevata, di qualsiasi motivazione a sostegno del fatto che il nuovo appartamento venne acquistato con la provvista ricavata dalla vendita del primo, questa conclusione comporta invero una inammissibile sovrapposizione e prevalenza del giudizio economico su quello giuridico, avendo il giudice operato una sorta di compensatio lucri cum danno che non solo appare del tutto disancorata dai presupposti di legge, ma soprattutto è avulsa rispetto al giudizio di illiceità del comportamento del convenuto che era chiamato a svolgere. La sentenza impugnata è inoltre incorsa nel vizio di omessa pronuncia, non avendo provveduto sulla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dall’attrice. Il secondo motivo di ricorso, che denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2028, 2030 e 2032, nonché dei principi generali in materia di mandato e di riconoscimento di debito, ed omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, si dichiara assorbito. Il ricorso va pertanto accolto in relazione al primo motivo e la sentenza cassata, con rinvio della causa ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che si adeguerà, nel decidere, alle considerazioni di diritto sopra esposte ed a cui viene demandato anche il compito di liquidare le spese di giudizio. P.Q.M. accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbito il secondo cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.