Azienda familiare in ballo, alla moglie metà degli utili e del valore

Riferimento principale la scrittura privata relativa alla divisione delle quote. Denunce dei redditi e contratto di cessione unici strumenti per calcolare il quantum , a prescindere anche da apporti di capitale del titolare, reinvestimenti di utili e distruzione da parte del figlio.

Anche il ristorante-pensione – prima ceduto in comodato e poi venduto definitivamente – deve rientrare nel ‘paniere’ da dividere tra moglie e marito in fase di separazione. A dare sostanza a questa visione – come da Cassazione, sentenza numero 433/2012, Prima sezione Civile, depositata oggi – la scrittura privata tra i coniugi, da un lato, e le cifre relative agli utili e all’introito legato alla vendita, dall’altro. Attività in ballo. La querelle giudiziaria tra moglie e marito, finalizzata alla pronunzia di separazione e connessa anche all’attribuzione dell’addebito, vede in gioco anche una piccola impresa familiare, ovvero un bar-ristorante-pensione. Più precisamente, è l’uomo a chiedere la pronuncia della separazione, con addebito a carico della donna, mentre è quest’ultima a chiedere la liquidazione del suo diritto di partecipazione ai redditi ed al patrimonio della piccola impresa. La valutazione, tra primo e secondo grado, è altalenante il Tribunale respinge la richiesta, la Corte d’Appello la accoglie Anzi, viene stabilita la cifra riconosciuta alla donna, ovvero oltre 80mila euro quale quota degli utili per un periodo di oltre dieci anni e del valore dell’impresa. Ricostruzione. Come leggere il quantum deciso in Appello? Molto semplicemente, alla luce della scrittura privata autenticata con cui veniva stabilita la quota di pertinenza della donna, ovvero 49%, e mancando contabilità d’impresa e documentazione bancaria , secondo i giudici la ricostruzione dei redditi prodotti, nel periodo in questione, dall’impresa familiare e del valore della stessa al momento della cessione è da fondare unicamente sui dati esposti nelle denunce fiscali dei redditi e nel contratto di cessione, essendo ogni altra ricostruzione induttiva impraticabile . Conteggi errati? È l’uomo, ovviamente, a portare la questione in Cassazione, con un ricorso finalizzato a ridurre, per quanto possibile, l’impatto economico della pronuncia di secondo grado. In questa ottica, viene censurata la determinazione della quota degli utili dell’impresa familiare spettante alla donna, sottolineando che i giudici non hanno dedotto dal reddito prodotto dall’impresa le spese di mantenimento dei partecipanti e non hanno considerato, per il calcolo degli utili spettanti al coniuge partecipante , il valore iniziale dell’azienda familiare e quindi le perdite, gli apporti di capitale del titolare, i reinvestimenti di utili e, last but not least , la distruzione dell’azienda da parte del figlio . Peraltro, nel mirino dell’uomo finisce anche la decisione della Corte di liquidare il diritto del coniuge agli incrementi ed all’avviamento dell’azienda sulla scorta del corrispettivo della cessione a terzi, avvenuta tre anni dopo la cessazione dell’impresa familiare e dopo che, priva di avviamento, era stata quasi per un biennio data in comodato gratuito alla persona che poi l’ha acquistata in via definitiva. Divisione certa. Le perplessità manifestate dall’uomo, però, non trovano accoglimento in Cassazione, laddove viene confermata la pronuncia emessa in Appello. Alla donna vanno legittimamente riconosciuti gli oltre 80mila euro stabiliti, per gli utili prodotti dall’impresa e per l’introito legato alla vendita. Secondo i giudici di piazza Cavour, difatti, riferimento principale è la scrittura privata relativa alla divisione delle quote tra moglie e marito. Perché il criterio dell’apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell’azienda non serve per accertare gli utili ma per stabilire la quota di essi spettante al familiare , solo laddove tale quota non sia già stata predeterminata consensualmente dalle parti . Peraltro, chiariscono ancora i giudici, è ragionevole ritenere che i redditi dell’impresa familiare dichiarati fiscalmente dal titolare tengano conto dei ricavi ottenuti nel periodo e delle spese effettuate . E poi, sul fronte del valore di cessione dell’azienda , la valutazione in Appello è legittima, perché è ragionevole considerare il valore di cessione dell’azienda ai fini della determinazione del valore della stessa al momento della cessazione dell’impresa familiare .

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 20 ottobre 2011 – 16 gennaio 2012, numero 433 Presidente Luccioli – Relatore Scaldaferri Svolgimento del processo 1. Nell'ambito di un giudizio di separazione personale, instaurato dinanzi al Tribunale di Chiavari da R. P. nei confronti di A. P. D. per sentir addebitare la separazione alla convenuta, quest'ultima, oltre a richiedere la pronuncia di addebito nei confronti del P. e altre pronunce relative al rapporto di coniugio, domandava, ai sensi dell'articolo 230 bis cod. civ. la liquidazione del suo diritto di partecipazione ai redditi cd al patrimonio dell'impresa familiare -cessata per unilaterale determinazione del P. costituita da un'azienda di bar-ristorante-pensione in Cavi di Lavagna, e la condanna del P. alla restituzione di alcune somme. Il Tribunale, con sentenza definitiva del dicembre 2004, addebitava la separazione alla D. e respingeva le domande proposte dalla medesima. 2. Proposto appello dalla D., la Corte d'appello di Genova, riformata con sentenza non definitiva del settembre 2005 la sentenza di primo grado in ordine all'addebito della separazione, e disposta con ordinanza una consulenza d’ufficio tecnico-contabile, con sentenza definitiva depositata il 26 marzo 2007 accoglieva parzialmente il gravame condannando il P. al pagamento in favore della D. della somma di € 80.683,49 oltre interessi, quale quota di sua pertinenza -stabilita dalle parti nel 49% con scrittura privata autenticata del gennaio 1985 degli utili maturati per il periodo gennaio 1985/maggio 1996 dall'impresa familiare, e del valore della stessa, alienata dal P. nel 1999 ad un terzo che l’aveva gestita in comodato per un biennio circa. La Corte, recependo le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio espletata, ha rilevato che, nella mancanza assoluta della contabilità di impresa e nella inconsistenza della documentazione bancaria acquisita a seguito dì ordinanza ex articolo 210 c.p.c., la ricostruzione dei redditi,prodotti. nel periodo in questione dall'impresa familiare e del valore della stessa al momento della cessione non potesse che basarsi sugli unici elementi certi emergenti dai documenti in atti, cioè sui dati esposti nelle denunce fiscali dei redditi relative al periodo in questione il cui totale ammonta a lire 217.827.000 e nel contratto di cessione del marzo 1999 che espone un corrispettivo di lire 1 00.000.000 , essendo ogni altra ricostruzione induttiva impraticabile e dagli esiti inequivocabilmente arbitrari, come diffusamente spiegato dalla relazione di consulenza d'ufficio anche in base all'esame approfondito delle consulenze di parte depositate dalle parti, pervenute a soluzioni contrapposte sulla base di elementi non certi. Ed ha quindi attribuito alla D. somma pari alla quota del 49% di detti importi. 3. Avverso entrambe le sentenze, non definitiva e definitiva ancorché le critiche siano rivolte esclusivamente alla seconda , R. P. ha, con atto notificato il 12 giugno 2007, proposto ricorso a questa Corte basato su unico articolato motivo, cui resiste A.D. con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa. Motivi della decisione 1. Sotto un primo profilo, il ricorrente censura la determinazione della quota degli utili dell' impresa familiare spettante alla controparte denunciando violazione e falsa applicazione dell'articolo 230 bis cod.civ. per non avere la Corte territoriale dedotto dal reddito prodotto dall'impresa le spese di mantenimento dei partecipanti che avrebbe potuto determinare in via presuntiva. 1.1 La doglianza è inammissibile, perché introduce una questione di fatto che non risulta dalla sentenza né dal ricorso essere stata sollevata nel giudizio di merito cfr ex multis Cass. numero 20518/2008 . 2. Sotto altro profilo, la medesima censura e denuncia di violazione/falsa applicazione dell'articolo 230 bis cod.civ vengono prospettate per non avere la Corte considerato, ai fini della determinazione degli utili spettanti al coniuge partecipante, il valore iniziale dell'azienda familiare e quindi le perdite, gli apporti di capitale del titolare i reinvestimenti di utili, la distruzione dell'azienda da parte del figlio. 2.1 Tuttavia, premesso che il criterio de!l apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell'azienda non serve per accertare gli utili, bensì la quota di essi spettante al familiare nel solo caso in cui tale quota non sia stata predeterrninata consensualmente dalle parti, come invece avvenuto nella specie., è ragionevole ritenere che i redditi dell'impresa familiare dichiarati fiscalmente dal titolare tengano conto dei ricavi ottenuti nel periodo e delle spese effettuate la esistenza dì altri costi non dichiarati, avrebbe dovuto essere specificamente dedotta -nonchè dimostrata dal P. in sede di merito, del che non vi è traccia né nella sentenza né in ricorso. D'altra parte, l'accertamento di fatto compiuto motivatamente dalla corte di appello con riguardo agli utili maturati non può essere in questa sede riesaminato, tantomeno sotto il profilo della violazione di legge. 3. Analoghe considerazioni si impongono in relazione all'ulteriore profilo di doglianza, con il quale il ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia liquidato il diritto del c oniuge agli incrementi ed all'avviamento dell'azienda sulla scorta del corrispettivo della cessione della stessa a terzi avvenuta tre anni dopo la cessazione dell'impresa familiare e dopo che, priva di avviamento, era stata quasi per un biennio data in comodato gratuito alla persona che poi l’ha acquistata. Anche qui, la valutazione in fatto compiuta dalla Corte d'appello -la quale ha ritenuto ragionevole considerare il valore di cessione dell'azienda ai fini della determinazione del valore della stessa al momento della cessazione dell'impresa familiare non implica alcuna erronea ricognizione della fattispecie astratta prevista dall'articolo 230 bis , e non è quindi censurabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge. 4. Si impone pertanto il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo grado di giudizio., in € 3.500,00 per onorari e € 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori dì legge.