La lunga durata dell’occupazione dell’immobile non basta per usucapirlo

Nel caso di specie, il ricorrente sostiene di avere usucapito l’immobile in questione per avervi abitato ininterrottamente fin dalla nascita per più di 70 anni, prima con la madre e poi, a seguito della sua morte, da solo, provvedendo a tutte le spese di manutenzione del caso. Tuttavia, ciò non basta secondo la Suprema Corte per affermare che l’occupazione sia sorretta dall’animus possidendi, in quanto essa si sostanzia in una sub-detenzione derivante da quella della madre, a sua volta sorretta non dall’animus possidendi, bensì dalla permissio domini.

Questo il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione n. 26688/20, depositata il 24 novembre. La Corte d’Appello di Genova, confermando la pronuncia emessa dal Giudice di prime cure, condannava l’attuale ricorrente al rilascio di un immobile da lui occupato ai proprietari, disattendendo l’ eccezione di usucapione da lui proposta. Egli, infatti, sosteneva di avere usucapito l’immobile in questione per avervi abitato fin dalla nascita ininterrottamente, per oltre 70 anni , prima con la madre e, dopo la sua morte, da solo, provvedendo anche a tutte le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria necessarie, nel totale disinteresse dei proprietari. Tuttavia, il Giudice affermava che l’occupazione dell’immobile dipendeva da quella della madre, e quella di quest’ultima, a sua volta, non era sorretta dall’ animus possidendi bensì dalla permissio domini . Lo stesso propone, allora, ricorso per cassazione. Tra i motivi di ricorso, il ricorrente denuncia l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte nell’avere ritenuto l’usucapione preclusa dalla tolleranza dei proprietari dell’immobile , ribadendo un principio giurisprudenziale secondo cui, una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a chi lo contesta l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, elementi probatori assenti nel caso di specie. La Corte di Cassazione non accoglie il motivo appena delineato, evidenziando che il ricorrente non aveva mai compiuto nei confronti della madre atti tali da mutare in possesso la sub-detenzione dell’immobile di cui godeva poiché coabitava con lei fin dalla nascita. A tal proposito, la Corte richiama il principio in base al quale la presunzione di possesso utile ad usucapionem , di cui all’art. 1141 c.c. non opera quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione , ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, come nell’ipotesi della mera convivenza nell’immobile con chi possiede il bene in tal caso, la detenzione può mutare in possesso soltanto con un atto di interversione , consistente in una manifestazione esteriore, rivolta contro il possessore, affinché questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento, da cui si desuma che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio . Tuttavia, aggiunge la Corte, un accertamento siffatto si sostanzia in un’ indagine di fatto , come tale rimessa al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità. Un’altra doglianza del ricorrente consiste nell’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello escludendo la rilevanza dei lavori di manutenzione da lui svolti ai fini dell’interversione del possesso. Gli Ermellini giudicano il suddetto motivo inammissibile , ribadendo il principio secondo cui, in materia di trasformazione della detenzione in possesso, l’accertamento dei suoi estremi implica un’indagine di fatto, come tale rimessa al giudice di merito, dunque non può essere chiesto nel giudizio di legittimità di prendere in esame direttamente la condotta della parte per trarne elementi di convincimento, potendo solamente censurare la decisione di merito che abbia trascurato o esaminato in modo non sufficiente la questione di fatto dell’interversione. Anche per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 9 settembre – 24 novembre 2020, n. 26688 Presidente D’Ascola – Relatore Cosentino Svolgimento del processo 1. Il sig. C.C. ha impugnato per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Genova che, confermando la pronuncia di primo grado emessa dal Tribunale della stessa città, lo ha condannato, disattendendo l’eccezione di usucapione da lui proposta, a rilasciare ai proprietari, sigg.ri P.G. e L.M.A. , un immobile da lui occupato, sito in omissis . 2. L’immobile era pervenuto in proprietà a P.G. e L.M.A. quali eredi, rispettivamente in qualità di figlio e in qualità di moglie, dell’originario attore, deceduto nel corso del giudizio di primo grado, P.M.P. a quest’ultimo l’immobile era pervenuto per successione alla propria madre, sig.ra R.P. , sorella della sig.ra R.E. in C. , madre dell’odierno ricorrente. 3. C.C. , nel resistere alla domanda di rilascio svolta da P.M.P. , dedusse di avere usucapito l’immobile per avervi ininterrottamente abitato fin dalla nascita, per oltre settant’anni, prima con sua madre e, dopo la morte di costei, da solo, provvedendo altresì a tutte le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, nel totale disinteresse dei proprietari dei cespite. 4. Il Tribunale di Genova, con sentenza del 24.5.12, rigettò l’eccezione di usucapione affermando che l’occupazione dell’immobile da parte di C.C. dipendeva da quella di sua madre, con cui egli aveva coabitato fino alla morte della stessa, e che l’occupazione dell’immobile da parte della sig.ra R.E. , a propria volta, non era sorretta dall’animus possidendi, in quanto si fondava sulla permissio domini. 5. In particolare il tribunale ha posto a fondamento della propria decisione i seguenti accertamenti di fatto. 5.1. Il C. è nato nell’immobile de quo nel , quando tale immobile era di proprietà del suo nonno materno, R.G. , ed era abitato da sua madre, R.E. su tali fatti, incontestati, il primo giudice ha fondato la presunzione che R.E. non possedesse l’immobile ma lo detenesse in nome e per conto del proprio padre , sulla base della permissio domini da costui concessale pag. 3 della sentenza di primo grado . 5.2. Dopo la morte di R.G. , la figlia E. , pur continuando ad occupare l’immobile, concluse con la sorella P. , nel , un atto di divisione che assegnava a quest’ultima l’immobile stesso da tale fatto, anch’esso incontestato, il primo giudice ha tratto ulteriore conferma della suddetta presunzione che R.E. non avesse sino allora abitato l’immobile con la volontà di tenere il bene come proprio pag. 4 della sentenza di primo grado . 5.3. Non erano stati provati atti di interversione del possesso da parte di R.E. in tempi successivi nei confronti della sorella P. e, quindi, dei nipoti P.P. e P.D. pag. 4 della sentenza di primo grado . 5.4. La posizione di C.C. , che abita nella casa in questione dalla nascita, non può ritenersi diversa da quella della madre, traendo origina da quest’ultima, in forza della coabitazione del figlio con la madre pag. 4 della sentenza di primo grado . 6. C.C. appellò la sentenza di primo grado senza contestare i suddetti accertamenti nè in relazione alla sussistenza dei fatti storici posti a fondamento dei ragionamenti presuntivi del Tribunale, nè in relazione alla conformità di tali ragionamenti alla regola legale dettata dall’art. 2729 c.c Nel proprio gravame, infatti, il sig. C. si limitò a lamentare la mancata valorizzazione di circostanze che, a suo dire, sarebbero state incompatibili con la tolleranza del proprietari dell’immobile, quali la lunghissima durata della sua occupazione, l’esecuzione di opere di manutenzione straordinaria sul tetto e sui pavimenti del medesimo, l’assenza di visite dei proprietari al compendio immobiliare, la rarefazione, particolarmente dopo la morte di R.P. , dei rapporti personali tra le parti. Nell’atto di appello, però, non vi fu contestazione - nè sull’accertamento che l’occupazione dell’immobile da parte di C.C. era sorta in ragione della coabitazione del medesimo, fin dalla nascita, con la madre, R.E. - nè sull’accertamento che nel , quando il C. aveva 22 anni, R.E. aveva concordato con la sorella P. una divisione della eredità paterna che assegnava a quest’ultima l’immobile de quo - nè, infine, sull’inferenza - non oggetto di alcuna specifica censura - che il primo giudice aveva tratto dalla conclusione della divisione volontaria dell’eredità tra le sorelle R. , ossia che alla data di tale divisione R.E. non occupava l’immobile con la volontà di tenere il bene come proprio . 7. La Corte d’appello ha rigettato l’impugnazione sul rilievo che la durata, pur molto lunga, della occupazione dell’immobile da parte del sig. C. - nonché, finché visse, da parte di R.E. - non era incompatibile con la ricostruzione della vicenda operata dal Tribunale in termini di tolleranza dei proprietari all’occupazione del cespite ciò alla stregua del principio giurisprudenziale alla cui stregua la lunga durata del godimento di un bene altrui può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza solo al di fuori dell’ambito dei rapporti di parentela. 8. La Corte territoriale ha inoltre sottolineato 8.1. l’irrilevanza del fatto che il grado di parentela intercorrente fra le parti oggi in causa fosse meno stretto di quello intercorso tra le sorelle R.E. e M.P. dal momento che la situazione può essere stata mantenuta inalterata da parte degli attori proprio in segno di rispetto della decisione assunta dalla loro madre nei confronti della sorella e del nipote pag. 3, terzo cpv., della sentenza 8.2 l’irrilevanza della esecuzione di interventi straordinari da parte del C. poiché comunque riguardavano il bene goduto e la mancata richiesta di rimborso delle opere rientrava logicamente nell’accordo per il godimento dell’immobile concesso nell’ambito dei rapporti familiari pag. 3, quarto cpv., della sentenza 8.3 il rilievo che l’inerzia dei proprietari si inquadrerebbe benissimo nel rapporto familiare e nella tolleranza conseguente pag. 3, quinto cpv., della sentenza . 9. Il ricorso per cassazione del sig. C. si articola in tre motivi. 10. I sigg.ri P. e L. hanno depositato controricorso. 11. La causa è stata chiamato all’adunanza di Camera di consiglio del 27 settembre 2018 sulla base di una proposta di parziale accoglimento del ricorso formulata dal consigliere designato per tale adunanza i contro ricorrenti hanno depositato una memoria. All’esito dell’adunanza la causa è stata rimessa alla pubblica udienza e quindi discussa all’udienza del 20.9.20, in cui il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe. Motivi della decisione 12. Con il primo motivo di ricorso - rubricato violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1158 e 2697 c.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, difetto di motivazione - si denuncia l’errore in cui la Corte di appello sarebbe incorsa ritenendo l’usucapione dell’odierno ricorrente preclusa dalla tolleranza dei proprietari del compendio immobiliare. 13. Il ricorrente - dopo aver richiamato il consolidato principio giurisprudenziale ex multis, da ultimo, Cass. 2706/19 secondo cui, una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a coloro che lo contestano l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza - argomenta che i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere che il possesso fosse imputabile ad atti di tolleranza in assenza di elementi probatori a sostegno della loro decisione , sottolineando come dall’istruttoria non emerso alcun elemento che possa far pensare ad un atto di tolleranza e cortesia pag. 5 del ricorso, penultimo e ultimo cpv. . 14. Il motivo non può trovare accoglimento nè in relazione al denunciato vizio di violazione degli artt. 1158 e 2697 c.c., nè in relazione al denunciato vizio di omesso esame circa un fatto decisivo quanto al dedotto vizio di difetto di motivazione , esso non è più deducibile quale mezzo di ricorso per cassazione dopo la modifica recata all’art. 360 c.p.c., n. 5, dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012. 15. Ragioni di ordine logico consigliano di iniziare l’esame del motivo dalla denuncia di omesso esame circa un fatto decisivo. 16. I fatti menzionati nel mezzo di gravame sono a la sostanziale inesistenza dei rapporti tra le parti, soprattutto dopo la morte di R.P. b la durata settantennale dell’occupazione dell’immobile da parte dell’odierno ricorrente c il prolungato disinteresse dei proprietari per l’immobile d la tenuità del rapporto parentale tra le attuali parti in causa. 17. Il fatto sopra menzionato sub a difetta del requisito della decisività, prescritto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nel motivo, infatti, non si specifica per quale ragione la sostanziale inesistenza dei rapporti tra le parti costituirebbe un fatto idoneo a mutare l’animus dell’occupante da animus detinendi in animus possidendi, nè si chiarisce se la dedotta interversione della detenzione in possesso sia riferibile alla sig.ra R.E. o all’odierno ricorrente, originariamente sub-detentore in forza della coabitazione con la madre, come incontestatamente accertato fin dal giudizio di primo grado. 18. Con riferimento all’ipotesi che il ricorrente intenda riferire a se stesso, e non a sua madre, la dedotta insorgenza dell’animus possidendi, va altresì svolto - a conferma della non decisività della circostanze della rarefazione dei rapporti personali tra le parti - un duplice rilievo. 18.1. In primo luogo, va evidenziato che C.C. non ha mai dedotto, nè in sede di merito nè nel ricorso per cassazione, di aver compiuto atti opposizione alla madre, tali da mutare in possesso la sub-detenzione dell’immobile di cui godeva in quanto con costei coabitante fin dalla nascita. In proposito va qui richiamato il principio, ancora di recente ribadito da questa Corte con la sentenza n. 27411/19, che la presunzione di possesso utile ad usucapionem, di cui all’art. 1141 c.c., non opera quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, come nell’ipotesi della mera convivenza nell’immobile con chi possiede il bene in tal caso, la detenzione può mutare in possesso soltanto con un atto di interversione, consistente in una manifestazione esteriore, rivolta contro il possessore, affinché questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento, da cui si desuma che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Tale accertamento realizza un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logica e congruamente motivata. 18.2. In secondo luogo, va evidenziato che nel ricorso per cassazione il sig. C. non deduce che alla data della domanda giudiziale di rilascio omissis sua madre fosse premorta da oltre il ventennio necessario all’usucapione la data del decesso della sig.ra R.E. non è infatti menzionata nel ricorso per cassazione ma è indicata dai contro ricorrenti, a pag. 5 del controricorso, nel omissis . L’ipotetica insorgenza dell’animus possidendi in capo a C.C. dopo il decesso di sua madre sarebbe dunque anche astrattamente irrilevante, in difetto del requisito cronologico dell’usucapione. 19. Quanto ai fatti elencati sub b , c e d del precedente paragrafo 16, è sufficiente rilevare che essi sono stati tutti esaminati da parte della Corte ligure, la quale ha ritenuto i primi due irrilevanti alla luce dei rapporti familiari tra le parti si vedano i precedenti paragrafi 7 e 8.3 ed il terzo irrilevante in ragione della presumibile volontà degli attori di rispettare la decisione della propria dante causa R.P. si veda il precedenti paragrafo 8.1 . In relazione a detti fatti, quindi, non sussiste il vizio di omesso esame. 20. Per quanto concerne la violazione degli artt. 1158 e 2697 c.c., che il motivo di ricorso in esame ascrive alla sentenza impugnata, la stessa va giudicata insussistente. La Corte territoriale, infatti, non enuncia, nè applica implicitamente, alcuna regola di giudizio in contrasto con il consolidato principio che, una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a coloro che lo contestano l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, i quali hanno fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di amicizia o di buon vicinato ed implicano una previsione di saltuarietà e di transitorietà in termini, da ultimo, Cass. 2706/19 . 21. La Corte d’appello, al contrario - condividendo il ragionamento presuntivo svolto dal Tribunale di Genova in base agli, incontestati, fatti genetici della occupazione dell’immobile da parte del sig. C. e di sua madre - ha semplicemente affermato, in ciò correttamente adeguandosi alla giurisprudenza di questa Corte Cass. 4327/08, Cass. 11277/15, Cass. 11315/18 , che, contrariamente all’assunto dell’appellante, la lunga durata dell’occupazione dell’immobile da parte del C. non costituiva ragione per escludere la tolleranza accertata dal primo giudice. Donde l’infondatezza della censura di violazione di legge svolta nel mezzo di impugnazione in esame. 22. Con il secondo motivo di ricorso - rubricato violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1164 c.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, difetto di motivazione - si denuncia l’errore in cui la Corte di appello sarebbe incorsa escludendo la rilevanza - ai fini dell’interversione del possesso - dei lavori di manutenzione straordinaria eseguiti dal sig. C. e ritenendo tali lavori contemplati nell’accordo per il godimento dell’immobile concesso dai familiari il ricorrente afferma che dagli atti di causa non emergerebbe la sussistenza di alcun accordo in tale senso tra le parti e che, pertanto, i suddetti atti di straordinaria amministrazione dimostrerebbero la sua volontà di tenere il bene come proprio pag. 10 del ricorso, primo cpv. . 23. Il motivo va giudicato inammissibile per due distinte e concorrenti ragioni. 23.1. In primo luogo, esso è carente di specificità, in quanto non indica l’epoca di esecuzione dei lavori manutentivi effettuati dal sig. C. , nè deduce, quanto meno, l’anteriorità di tali lavori al ventennio precedente l’introduzione della domanda di rilascio così ponendo questa Corte nella impossbilità di apprezzare la rilevanza anche meramente astratta della doglianza avverso la statuizione della Corte che ha escluso che l’esecuzione di tali lavori valesse come atto di interversione del possesso. 23.2. In secondo luogo, il motivo attinge un giudizio di fatto della Corte genovese, secondo il quale la mancata richiesta di rimborso delle opere rientrava logicamente nell’accordo per il godimento dell’immobile concesso nell’ambito dei rapporti familiari giudizio non censurabile sotto il profilo della violazione del disposto dell’art. 1164 c.c. e non censurato con la deduzione di un fatto storico non esaminato dal giudice di merito che, se esaminato, avrebbe portato ad un diverso giudizio di fatto. Va qui ricordato, al riguardo, il principio, espresso già sotto il previgente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che, in tema di interversione idonea a trasformare la detenzione in possesso, l’accertamento, in concreto, dei suoi estremi integra un’indagine di fatto, rimessa al giudice di merito, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di cassazione di prendere direttamente in esame la condotta della parte, al fine di trarne elementi di convincimento, ma si può solo censurare, per omissione o difetto di motivazione, la decisione di merito che abbia del tutto trascurato o insufficientemente esaminato la questione di fatto della interversione Cass. n. 27521/11 . 23.3. Per ragioni nomofilattiche può altresì aggiungersi che il motivo, oltre che inammissibile, è anche astrattamente infondato, giacché l’argomentazione del ricorrente contrasta con il risalente insegnamento di questa Corte Cass. 1446/78 che i lavori di riparazione e di modifica dell’immobile posti in essere dal detentore non possono essere identificati come un’opposizione inequivocabilmente rivolta contro il possessore, e quindi dar luogo alla interversione del possesso, quando dalla prova assunta non sia dato desumere con certezza che i lavori medesimi possano essere riferiti all’iniziativa esclusiva del detentore ciò perché la interversione del possesso, pur potendo realizzarsi mediante il compimento di attività materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, deve comunque potersi configurare come una opposizione sostanzialmente rivolta contro il possessore e cioè contro colui per conto del quale la cosa e detenuta. 24. Con il terzo motivo di ricorso - rubricato difetto e/o carenza di motivazione , si deduce il difetto di motivazione dell’impugnata sentenza per avere la Corte d’appello motivato con riferimenti generici e non corrispondenti alle risultanze istruttorie pag. 10 del ricorso, sesto cpv. , omettendo di esplicitare le ragioni a sostegno della presunzione della tolleranza da parte dei proprietari e contraddicendo la valutazione di fumus boni juris dell’appello svolta in sede di concessione della sospensiva dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado. 25. Il motivo è inammissibile perché la sua formulazione non si conforma al paradigma fissato nel nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Come questa Corte ha chiarito nella sentenza n. 23940/17, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza - di mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale , di motivazione apparente , di manifesta ed irriducibile contraddittorietà e di motivazione perplessa od incomprensibile , al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un fatto storico , che abbia formato oggetto di discussione e che appaia decisivo ai fini di una diversa soluzione della controversia. 26. In definitiva, nessuno dei motivi di ricorso può trovare accoglimento e, conseguentemente, il ricorso va rigettato. 27. Le spese seguono la soccombenza. 28. Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.